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Manzoni, coro dell’atto IV dell’Adelchi

IL TEATRO
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Sofocle

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Manzoni

 Le Troiane
Euripide

L'Istruttoria
P. Weiss

Le Troiane e L’Istruttoria a confronto

Manzoni riprende dalla tragedia greca il coro mutandone però la funzione. Mentre negli esempi classici al coro era affidato il compito di commentare lo sviluppo dell’azione drammatica, ma anche di agire nel dialogo come un vero e proprio personaggio, nella tragedia manzoniana esso rappresenta uno spazio che l’autore riserva a se, per esprimere le emozioni e riflessioni che la vicenda suggerisce.

Il coro è una pausa nell’azione scenica, come si può constatare nel coro dell’atto IV dell’Adelchi, dove le parole che si immaginano pronunciate dalle suore costituiscono una rievocazione della vita di Ermengarda e una interpretazione di essa in chiave religiosa.

Sparsa le trecce morbide

Sull'affannoso petto,

Lenta le palme, e rorida

Di morte il bianco aspetto,

Giace la pia, col tremolo

Sguardo cercando il ciel.

Cessa il compianto: unanime

S'innalza una preghiera:

Calata in su la gelida

Fronte, una man leggiera

Sulla pupilla cerula

Stende l'estremo vel.

Sgombra, o gentil, dall'ansia

Mente i terrestri ardori;

Leva all'Eterno un candido

Pensier d'offerta, e muori:

Fuor della vita è il termine

Del lungo tuo martir.

Tal della mesta, immobile

Era quaggiuso il fato:

Sempre un obblio di chiedere

Che le saria negato;

E al Dio de' santi ascendere

Santa del suo patir.

Ahi! nelle insonni tenebre,

Pei claustri solitari,

Tra il canto delle vergini,

Ai supplicati altari,

Sempre al pensier tornavano

Gl'irrevocati dì;

Quando ancor cara, improvida

D'un avvenir mal fido,

Ebbra spirò le vivide

Aure del Franco lido,

E tra le nuore Saliche

Invidiata uscì:

Gaudii d'un altro amor.

Ma come il sol che, reduce,

L'erta infocata ascende,

E con la vampa assidua

L'immobil aura incende,

Risorti appena i gracili

Steli riarde al suol;

Ratto così dal tenue

Obblio torna immortale

L'amor sopito, e l'anima

Impaurita assale,

E le sviate immagini

Richiama al noto duol.

Sgombra, o gentil, dall'ansia

Mente i terrestri ardori;

Leva all'Eterno un candido

Pensier d'offerta, e muori:

Nel suol che dee la tenera

Tua spoglia ricoprir,

Altre infelici dormono,

Che il duol consunse; orbate

Spose dal brando, e vergini

Indarno fidanzate;

Madri che i nati videro

Trafitti impallidir.

Quando da un poggio aereo,

Il biondo crin gemmata,

Vedea nel pian discorrere

La caccia affaccendata,

E sulle sciolte redini

Chino il chiomato sir;

E dietro a lui la furia

De' corridor fumanti;

E lo sbandarsi, e il rapido

Redir de' veltri ansanti;

E dai tentati triboli

L'irto cinghiale uscir;

E la battuta polvere

Riga di sangue, colto

Dal regio stral: la tenera

Alle donzelle il volto

Volgea repente, pallida

D'amabile terror.

Oh Mosa errante! oh tepidi

Lavacri d'Aquisgrano!

Ove, deposta l'orrida

Maglia, il guerrier sovrano

Scendea del campo a tergere

Il nobile sudor!

Come rugiada al cespite

Dell'erba inaridita,

Fresca negli arsi calami

Fa rifluir la vita,

Che verdi ancor risorgono

Nel temperato albor;

Tale al pensier, cui l'empia

Virtù d'amor fatica,

Discende il refrigerio

D'una parola amica,

E il cor diverte ai placidi

Te, dalla rea progenie

Degli oppressor discesa,

Cui fu prodezza il numero,

Cui fu ragion l'offesa,

E dritto il sangue, e gloria

Il non aver pietà,

Te collocò la provida

Sventura in fra gli oppressi:

Muori compianta e placida;

Scendi a dormir con essi:

Alle incolpate ceneri

Nessuno insulterà.

Muori; e la faccia esanime

Si ricomponga in pace;

Com'era allor che improvida

D'un avvenir fallace,

Lievi pensier virginei

Solo pingea. Così

Dalle squarciate nuvole

Si svolge il sol cadente,

E, dietro il monte, imporpora

Il trepido occidente;

Al pio colono augurio

Di più sereno dì.