Howard Zinn, Dana Frank, Robin G. Kelley, "Three Strikes. Miners, Musicians, Salesgirls, and the Fighting Spirit of Labor's Last Century", Boston, Beacon Press, 2002, pp. 174, $23

Ribelli nel cuore dell'impero.
Un libro su tre grandi scioperi americani che vede come autori studiosi oggi impegnati nel comitato contro la guerra all'Iraq «Not In Our Name»: il pioniere della storia sociale e veterano di mille battaglie Howard Zinn, la grande storica del consumo e del nazionalismo economico Dana Frank e Robin G. Kelley, figura di punta degli studi afroamericani.

Qualche settimana fa, commentando lo sciopero Cgil che si è poi tenuto ieri, uno studioso di filosofia liberale discettava, sulla prima pagina de Il Sole 24 Ore, intorno al carattere assolutamente «non moderno» dello strumento dello sciopero. Uno strumento, a suo dire, forse adatto a ere geologiche passate, ma certo destinato a esiti fallimentari e corporativi nell'età della globalizzazione, del superamento delle barriere dei singoli stati, dell'innovazione tecnologica, della fine delle ideologie e delle classi. Dopo la giornata di ieri, che mi pare abbia dimostrato perentoriamente, per l'ennesima volta, il contrario, possiamo volgere per un attimo lo sguardo all'indietro, posandolo sul famoso lato nascosto, americano, del pianeta operaio e lavorativo, con l'aiuto di un piccolo, aureo libretto, fresco di stampa negli Stati Uniti. Che chiarisce, in un linguaggio terso ed essenziale, che cos'è stato lo sciopero al centro dell'impero, nel Novecento statunitense, e che cosa può essere, ancora oggi, per tutti noi, se ci attrezziamo adeguatamente. Three Strikes. Miners, Musicians, Salesgirls, and the Fighting Spirit of Labor's Last Century (Boston, Beacon Press, 2002, pp. 174, $23) vede riunito una specie di surpergruppo, tipo Crosby, Stills, Nash, and Young, della storiografia sociale e del lavoro d'oltre Atlantico, tre studiosi oggi seriamente impegnati nel comitato contro la guerra all'Iraq Not In Our Name: il pioniere della storia dal basso e veterano di mille battaglie Howard Zinn, la grande storica del consumo e del nazionalismo economico Dana Frank e Robin G. Kelley, figura di punta degli studi afroamericani. Si sono messi insieme per raccontar ciascuno uno sciopero, più o meno noto, ma comunque profondamente significativo, della storia Usa.
Quello più noto lo racconta Zinn, che si occupa, con la consueta sensibilità, di una delle vicende più drammatiche degli annali del lavoro d'oltre Atlantico, lo sciopero minerario di Ludlow, Colorado. Lì, nel 1913-14, minatori che parlavano una trentina di lingue e dialetti diversi, che vivevano in condizioni miserabili, alla completa mercè dei padroni, in una situazione lavorativa che pareva un campo di battaglia tanti erano gli infortuni, pagati in buoni spendibili solo negli spacci dell'impresa, alzarono la testa, con l'aiuto del sindacato della United Mine Workers, in nome della democrazia americana tanto violentemente calpestata nel buio delle miniere. E si presero per tutta risposta il piombo delle milizie padronali, prima, e di quelle statali del Colorado, poi. Sino all'intervento delle forze federali del presidente Woodrow Wilson, che posero fine alla carneficina (dieci uomini, due donne, dieci bambini, in larghissima maggioranza scioperanti, rimasero sul terreno a conclusione dello scontro finale), ma anche sancirono la sconfitta operaia nella sua più coraggiosa e impellente rivendicazione: il riconoscimento del diritto all'organizzazione e al contratto. Una sconfitta che ci appartiene molto più direttamente di quanto possiamo pensare a prima vista, dato che sette dei tredici nomi di caduti, scolpiti nel monumento che oggi ricorda l'eccidio, portano un nome italiano. Ma anche, dice Zinn, una sconfitta che reca in sé la duplice, importante lezione dello straordinario coraggio operaio, da un lato, e dell'implacabile determinazione con la quale l'intreccio imprenditori-governo-giornali combattè e ricacciò indietro la presa di parola che veniva dal basso.
Ben diverso invece il secondo sciopero, del quale si occupa Dana Frank, restituendoci un pezzetto di storia assolutamente dimenticata, ricostruito con un paziente lavoro d'archivio, integrato da fonti orali. Diverso per l'epoca (gli anni trenta), il luogo (Detroit, Michigan, nel bel mezzo delle occupazioni endemiche di fabbriche dell'auto), le protagoniste (le commesse e telefoniste dei grandi magazzini Woolworth) e soprattutto l'esito. Qui le ragazze che per una settimana nel febbraio-marzo 1937 hanno occupato Woolworth, con un gesto di sfida al mondo imprenditoriale, ma anche alla società e alle sue convenzioni, vincono.
Vincono con l'aiuto di militanti, maschi e femmine, della loro generazione (i lavoratori dell'auto, ad esempio) e della generazione precedente, della comunità operaia (che da Woolworth si serve), delle famiglie e dei fidanzati, che le aspettano fuori, fanno scivolare attraverso i picchetti materassi e messaggi di sostegno (i generi di conforto le ragazze se li procurano direttamente da Woolworth). Vincono trasformando i grandi magazzini in un posto dove si balla e si canta, si piange e ci si rincuora, si telefona al ragazzo per tranquillizzarlo che andrà tutto bene. Vincono perché hanno capito che nella società di massa conta più una bella foto che cento parole, e dunque durante lo sciopero non smettono di truccarsi accuratamente, come impone del resto il loro lavoro, per essere pronte ai flashes dei fotografi e finire in prima pagina e strappare il consenso dell'opinione pubblica (in un momento di effervescenza sociale inaudita si può mandare la Guardia Nazionale a sparare contro delle belle ragazze, che si chiamano Komaroff, è vero, ma che dicono di sentirsi cittadine americane, profondamente conscie dei propri diritti, anche di quelli che ancora non stanno scritti da nessuna parte, se non nel cuore, che spesso batte più veloce del normale, della gente comune?). Vincono e dimostrano che il Majakovskij della bellissima La signorina e il Woolworth (1925) aveva torto e ragione al tempo stesso: aveva ragione a indicare lì un nuovo fervido terreno di contraddizioni, aveva torto a pensare che la commessa dei magazzini avesse bisogno di qualcuno per «ficcarle/ in testa/ le idee-coltelli» di un «altro sistema/ per far giungere l'operaio/ a tutti i piani».
La favola bella della vittoria delle commesse lascia il posto, nell'ultimo capitolo del libro, a un'altra sconfitta, in un altro episodio, oscuro e dimenticato, che per fortuna Robin G. Kelley ha efficacemente riportato alla luce. Siamo ancora negli anni Trenta, ma a New York stavolta, e in un ambiente di nuovo diverso: le luci della ribalta dei cinema e dei teatri di varietà, anzi la penombra della buca dell'orchestra. Uno spazio dove la lotta di classe scoppia come e più che in fabbrica, fra musicisti inseguiti dall'innovazione tecnologica, ovvero dal complesso passaggio del cinema al sonoro, che elimina il bisogno di orchestre in sala e induce a cercare qualche lavoretto nella nuova industria del disco.
In questo caso, nonostante gli sforzi e i tentativi di organizzazione dei musicisti, lo sciopero-boicottaggio newyorkese si risolve in una sconfitta. Per colpa di sindacalisti miopi e conservatori, incapaci di affrontare l'innovazione in una prospettiva dinamica e processuale e di opporsi adeguatamente ai datori di lavoro. Ma anche per colpa di una sottovalutazione, da parte dei lavoratori coinvolti, degli interessi degli altri lavoratori, in quanto consumatori; interessi che entrano in rotta di collisione con quelli dei musicisti: operai e impiegati cittadini non sostengono il boicottaggio perché non ne capiscono il senso, presi come sono dal cinema e dal gusto del consumo e della fruizione di massa a prezzi contenuti, prezzi offerti dal Hollywood e dall'industria del disco. Né bisogna sottovalutare i limiti dei musicisti e delle loro organizzazioni nell'offrire al pubblico di massa operaio un'immagine di sé come lavoratori coerente e comprensibile.
Kelley giustamente sottolinea l'importanza del confronto, tanto controverso, con l'innovazione e quella dei limiti della solidarietà, che percorre e divide il mondo del lavoro. E ribadisce la centralità della questione della comunicazione, lo sforzo che si impone nello sciopero moderno, di vincere la doppia battaglia: contro la spirale del silenzio, che i media possono costruire attorno all'iniziativa del lavoro, da un lato, e contro le resistenze e le inerzie su questo terreno interne al fronte sindacale e lavorativo, dall'altro. Basti pensare ai tanti scioperi odierni nei trasporti senza uno straccio di volantino o senza la vecchia, sana abitudine del piccolo capannello di persone che spiegano ai passanti o ai passeggeri che cosa sta succedendo, perché ci si è mobilitati, che cosa si chiede e si offre in cambio al resto della popolazione. Basti pensare all'astruseria di certi volantini o alla lunghezza e alla noiosaggine di alcuni comizi. Cose che giustamente già le ragazze Woolworth avrebbero ridendo rispedito al mittente. Anche per questo vinsero.

Ferdinando Fasce, "il Manifesto", 19 ottobre 2002