Ritratto degli anni '70 tra musica e politica
 

La storia del "movimento" è in breve questa: al principio c' era la musica, poi venne la politica, poi tornò la musica. Io stesso forse scrivo migliaia di articoli perché non seppi scrivere le parole di una canzone sola, di quelle fatte per restare. Non so, Messico e nuvole. Figurarsi se avessi saputo inventarne una musica. Non so, La domenica delle salme. Del resto non è detto, perché loro, quelli che di canzoni memorabili ne hanno fatte tante, magari testo e musica, non si accontentano affatto. Per esempio appunto Mauro Pagani, di cui è andato in libreria ieri il romanzo intitolato Foto di gruppo con chitarrista (Rizzoli, pagg. 364, euro 17,50): uno scrittore, dunque, e un narratore. E prima? Prima: musicista, e anzi "polistrumentista", che non è un gran bel nome, ma vuol dire che suona il flauto e la chitarra e un' altra quantità di strumenti a corda e soprattutto il più esigente di tutti, il violino (se non avete sentito il suo assolo del 10 settembre 2005 al Campovolo, in concerto con Ligabue, andate a cercarlo su youtube). Coautore (e cantante) di canzoni come Impressioni di settembre, o di Crêuza de mä. Produttore in proprio. Anima della PFM, autore di colonne sonore, uomo jazz e rock e blues e mediterranea e world. Ce n' era abbastanza. Invece no. Forse è perché sua madre, benché Mauro insegni in scuole di eccellenza e sia responsabile di festival insigni da Siena al Salento e abbia preso tutti i premi, gli rimprovera di aver smesso prima della laurea: "I tuoi compagni sono tutti dottori". Molti talenti, molti strumenti, molte vite: la molteplicità è la cifra di Mauro P. E anche del suo romanzo, che è certo autobiografico, ma in un senso tutto particolare. Prima di tutto perché fa uno spazio generoso alle vite degli altri (e di indimenticabili donne, "Foto di gruppo...", appunto) e, quanto alla propria, "con chitarrista", non si accontenta di una. Ci sono due vite nel libro, o piuttosto due protagonisti possibili che si diramano da uno, un diciottenne che arriva a Milano dalla provincia in tempo per essere sbalordito e conquistato da una comunità improvvisa di ragazze e ragazzi, musicistie baristi, pupee bulli, vernice rossa alla Scala e bombe da strage un dicembre dopo. Poi tutto è cambiato, e le strade si divaricano. C' è uno che se ne va, e uno che resta. Il chitarrista farà il giro del mondo, dietro un ingaggio e una donna, tornando ogni tanto all' altro, diviso fra il successo e il suo ripudio, per l' intuizione e la nostalgia di una musica più vera cui sacrificare tutto. Attorno a loro si muovono le persone che animarono lo spazio attiguo fra musica e movimento, la Premiata, gli Area, la figura cristica di Demetrio Stratos, bello e grande e grandioso,e spezzato di colpo, 1979. Il libro è anche un pellegrinaggio al suo ultimo giorno. Stratos è la figura simbolica forte della prossimità e però opposizione fra musica e politica che segnò quel giro d' anni: perché la politica era solo parole -assemblea, comizio, slogan, e anche gli "inni"- e invece la musica, in Stratos, rivendicò la voce sola, nuda di parole, un' unica gola piegata a produrre più suoni insieme, a surclassare e recuperare la natura. La voce che dice e grida cose, contro la voce che non dice niente, che basta a se stessa. Il proletariato secondo Stratos, che si rassegnava a formulare una didascalia per quelle acrobatiche corde vocali, pronunciava la sua liberazione con il suono di gola ineffabile. Mauro Pagani -il suo Sonnye il suo Mauro- stette anche qui in una posizione duplice e originale: il meno impolitico fra i musicisti, il più musicale fra i politici. Nel suo racconto, brusco e avventuroso e trascinante come si deve, quegli anni convulsi riguadagnano senza smancerie una cordialità e un' ospitalità umana non più ritrovata. Leggendo, io l' ho insieme riconosciuta e avvertita distante: perché i politici-politici, o almeno alcuni di noi, la comunità pronta e fraterna la guastammo spesso con una sicumera e un' arroganza, come se volessimo prenderci deridendo un anticipo del mondo che ci era dovuto. Una rapacità, in acconto sulla rivoluzione. La musica, forse perché è per i suoi il vero pegno presente del futuro che la rivoluzione promette, riparava dall' arroganza, sebbene non ne venisse riparata, come nella soggezione che la politica voleva imporle. Era cominciato tutto dai grandi concerti. Poi la musica venne precettata, a farsi "organica" alla linea e alla militanza (che non bastò a farle perdere la bellezza), o a fare da preambolo, o da appendice, ai comizi, i cantautori a fare da spalla ai leader politici. Poi tornò sola la musica, i grandi concerti, i cantautori: longevi, loro, eredi intestati degli eclissati leader politici, sempre gli stessi, o quasi, per le generazioni di ragazzi che si succedevano. Da quanto tempo sul palco sindacale del Primo maggio c' è solo musica? Nel novembre del 1978 al Festival della gioventù si ritrovarono all' Avana, oltre a una delegazione capeggiata da D' Alema, il Canzoniere del Lazio, gli Area, Demetrio Stratos, e Mauro Pagani. Con tutto il rispetto per il mio amico Massimo, preferireste oggi ascoltare un suo discorso di saluto alle gioventù sorelle, o una canzone a piacere degli altri? Gli slogan degli anni ' 70 sono mediamente impronunciabili, le canzoni sono ancora quelle. I musicisti muoiono, ma non invecchiano - o quasi. Il romanzo di Mauro P. fa capire perché. E' scritto come a memoria, quasi per intero per dialoghi e conversazioni, da uno che si ricorda che cosa si dicesse, e come, e come si amasse e fumasse e tradisse, e sa ripeterlo, per i compagni di viaggio di allora, e per chi sta per cominciarlo, il viaggio che gli spetta, il suo bacio in Erasmus.

Adriano Sofri, "la Repubblica", 2 aprile 2009