Il selvaggio bianco e le Pantere Nere
Bobby Hutton aveva 17 anni quando fu freddato dalla polizia di Oakland, due giorni dopo che Martin Luther King era stato assassinato a Atlanta. Quel giorno Marlon Brando, il divo ribelle, non poté restare a casa
 

Un ragazzo del Nebraska in lotta contro tutto e tutti, non proprio politicizzato, ma sempre ribelle e allegro, mostro esibizionista di umiltà e di sarcasmo. Arriva a Hollywood, via Stella Adler e quel Metodo Stanislavky di totale incorporazione nei personaggi, ritoccato negli States. Era una furia selvaggia, faceva repulsione e paura? Certo, metteva in scena il cupio dissolvi della civiltà occidentale. Sensualmente vulnerabile, sessualmente ossessionato (cercava amore in un modi e maniere inconsuete), aveva il certo non so che del divo. «Garbo uomo», lo definirono mentre lui si invaghiva soltanto di «bionde dallo strabismo di Venere.
Un immenso talento capace di fare con il corpo, i gesti, gli sghignazzi, i tic, i borbottii e i suoni inarticolati, un sistema lettrista di segni espressivi e ipnotici, un fraseggio non verbale palpante e insostenibile come un monologo shakespeariano o un colpo d'anca Elvis. Era attore bopper e beat, il primo grande.
Provocatore, «bombarolo» nell'adolescenza, cacciato da tutte le parti, dalla scuola e dall'esercito, per i suoi comportamenti teppistici e fuori schema. Un petardo lì, una fumata di troppo qui, il teatro ne fece un'arma di combattimento raffinata. Il cinema trasformerà tutto in body art sfrontata. Come in Il selvaggio ('53), dove è l'archetipo del teppista biker che odia autorità e polizia, il primo eroe di una sottocultura, bianca e povera, dalle ferree regole di comportamento, parafascista per ignoranza più che per istinto. Quel giubbotto nero fece epoca come la canottiera del Tram e il cappotto dell' Ultimo tango. Ancora qualche giorno fa inguaribili feticisti l'hanno rubato da una teca...
Ma nel '68 lui, figlio di redneck, midwestern come Robert Taylor e Weldon Kees, come altri ariani esclusi dal benessere, a Chicago, New York e perfino nel sud razzista, cresce e si politicizza. Alcuni wasp poveri formano la Stone Revolutionary Grease (giacconi di pelle nera, appunto, moto, occhiali neri, brillantina: riunificano, come in The Warriors, le gang di teppisti bianchi, P-Stones, Rangers, Disciples, Latin Eagles, e li guidano alla lotta anti-sistema) o il Patriot Party (ex Young Patriots), che incrocia - scandalosamente - le proprie bandiere sudiste con quelle delle Pantere Nere. Miracolo. La sotto classe operaia bianca non è più solo massa di manovra per il Ku Klux Klan, ma imita l'organizzazione dei cugini neri: liberation school, colazioni gratis per i bambini, cliniche ispirate a Norman Bethune, unità transrazziale nei ghetti...È troppo. La polizia contrattacca: infiltrati, provocazioni armate, arresti ingiustificati, diffamazioni a mezzo stampa. Il leader dell'Srg, Arthur Turco, entra in galera praticamente assieme a Huey Newton, la più bella pantera del mondo...John Kennedy e Malcolm X, ancora non dimenticati; Robert Kennedy e Luther King, appena assassinati, il Vietnam aggredito, Nixon fresco di nomina che festeggia bombardando la Cambogia, clandestinamente, e lo farà per 5 anni (poi si dice Pol Pot), il Cile democratico sbriciolato...questo faceva da sfondo al '68.
E Marlon Brando, che nel '60 aveva partecipato ai sit per salvare Chessman (e chiunque altro) dalla sedia elettrica, e alle marce per i diritti civili (e umani), nel '68 dice di no a Kazan (che pure lo aveva lanciato a teatro e in Un tram che si chiama desiderio nel '51) per l'autobiografico Il compromesso (il cui copione sarà modificato perché il sostituto, Kirk Douglas, sembrò implausibile come scrittore). Lo fa per profonde ragioni artistiche (almeno così dichiara il regista che aggiunse: «e non posso sentire nessuna acrimonia nei suoi confronti») ma anche per i suoi crescenti impegni politici nel movement. A cui ha messo a disposizione la sua villa di Mullholland Drive a Los Angeles, stanziando fondi per il Core (Congress for Racial Equality) e frequentando assiduamente, con altri intellettuali e artisti bianchi radical, come Leonard Bernstein e Jean Seberg, il Partito delle Pantere nere per l'autodifesa. Scrive Sergio Arecco in Marlon Brando (Le Mani, 20) che l'attore sempre più spesso interviene alla radio, nelle chiese, in tv e nei ghetti per stigmatizza le atrocità commesse dal capitalismo bianco, incontra clandestinamente il vertice delle Pantere nere in un appartamento di Haight-Ashbury, a San Francisco, chiama il leader del Bpp Eldridge Cleaver sul set di Queimada, non più solo per «imparare meglio la parte» dell'avventuriero colonialista William Walker, ed essere perfetto quando chiede a José Dolores (il rivoluzionario, interpretato nel film di Gillo Pontecorvo da un autentico leader dei lavoratori della canna da zucchero, Evaristo Marquez): «Perché sacrificarsi per una lotta che può costarti la vita?».
Il 4 aprile 1968, quando viene assassinato a Atlanta Martin Luther King, 38 anni, Brando manda dei suoi rappresentanti ai funerali. Ma due giorni dopo, il 6 aprile, quando la vittima ne avrà solo 17, non potrà restare a casa. E capirà perché sacrificare la vita.
Lo si vede in questa foto, mentre osserva con pudore, e rabbia, ai lati del corteo «all black», sfilare il corteo funebre che rende omaggio al co-fondatore teenager del partito della Pantere Nere, Bobby Hutton, che aveva conosciuto e apprezzato. E che era stato assassinato dalla polizia di Oakland (il municipio a sudest di San Francisco dove l'organizzazione rivoluzionaria era stata creata con Newton e Bobby Seale nell'ottobre '66). Gli spararono a bruciapelo mentre usciva da una casa disarmato e con le mani in alto, dopo un'aggressione armata durante il quale era stato gravemente ferito Cleaver (autore del bestseller Anima in ghiaccio).
Marlon Brando in quell'occasione parlò ai militanti african-american, come neanche Marc'Antonio sul cadavere di Cesare. E lo avrebbe fatto anche durante una manifestazione per la liberazione del leader delle Black Panthers, Huey P. Newton, partecipando al corteo di 2000 militanti che arrivò fin sotto i cancelli della prigione, e chiedendo conto, ai suoi connazionali, del colpevole silenzio di fronte a 400 anni di oppressione, tratta, schiavismo, sfruttamento e razzismo.
Intanto però, più le pantere si radicavano nei ghetti e affascinavano con fraseggio maoista gli operai neri di Detroit e gli studenti più rossi, più l'Fbi perfezionava un piano di soluzione finale («Cointelpro», vedi Senza illusioni, Shake ed.) tramite provocazioni, diffamazioni, infiltrazioni, sicari prezzolati (come gli Us di Ron Karenga) e eliminazione fisica dei leader pericolosi: Fred Hampton, Mark Clark, George Jackson (a San Quentin) e tanti, troppi altri. Hendrix, legato al Bpp, fu ucciso dall'Fbi che inventò la storia della overdose d'eroina (e, qualche giorno fa, la sua partecipazione a filmini porno...). I ghetti neri e latini esplosero di rabbia.
Brando dichiarò ai giornalisti di essere moralmente dilaniato, come lottatore per la pace, dallo scatenarsi della lotta armata di difesa (anche bianca, vedi i Weathermen), ma sconcertato per come così tanta violenza da parte del sistema costringesse alla risposta violenta come unica risposta possibile. Aveva ragione Martin Luther King: «O impariamo a vivere insieme come fratelli, in questo paese, o moriremo separatamente come pazzi», ma sappiamo come era stato zittito.
Allora, come sempre, i pennivendoli di regime furono un'altra volta sguinzagliati e vezzeggiati. Norman Mailer non mancò di fare sarcasmi contro il divo improvvisatosi d'un tratto impegnato, e scrisse, sbagliando anche quella volta mira: «mi fa ridere questo rottame di attore che scopre solo adesso ideali di cui si è sempre infischiato. Quando negli anni 50 il famigerato McCarthy faceva la caccia alle streghe e metteva al bando (o in carcere) le migliori teste di Hollywood, dov'era Brando? Giocava a fare il ribelle ma badava solo a diventare una star. Mi ricorda certe donne che invecchiando e non potendo più peccare diventano delle feroci moraliste». In realtà sappiamo della sua costante militanza antisegregazionista. Inoltre, tra il 1973 e il 1974, Brando tornerà uno dei 10 attori di maggior successo commerciale, pur trasformatoosi da «ribelle» in «rivoluzionario» e anzi, come avevamo visto nel doc del '66 dei fratelli Maysles Meet Marlon Brando, specializzandosi in mooning, calandosi cioè spesso i pantaloni e mostrando all'improvviso il sedere nudo nelle situazioni, per gli altri, più imbarazzanti. Sia congegnando scherzi ancora più atroci...In migliore fu questo. Il 27 marzo 1973, 18 anni dopo aver accettato il suo primo Oscar, per Fronte del porto di Elia Kazan, Marlon Brando fu invitato di nuovo alla cerimonia dall'Academy Award perché candidato con Il padrino. Ma non rispose all'invito. E quando il suo nome fu annunciato da Liv Ullman, come «winner», una ragazza apache, Sacheen Littlefeather (Piccola Piuma) si fece avanti, rifiutò il trofeo scuotendo il capo, e, agitando le braccia, iniziò a leggere un testo. Avendo solo un minuto a disposizione spiegò che la posizione assunta a sostegno degli indiani d'America impediva a Brando di accettare un riconoscimento legato a filo doppio a un'industria che per anni aveva sputato addosso ai pellirossa. Salutata da fischi e applausi Miss Littlefeather lasciò il palcoscenico e la lunga dichiarazione di Marlon Brando fu pubblicata il giorno dopo dal New York Times mentre l'altra metà bipartizan dell'establishment (Rachel Welch, Clint Eastwood, Gregory Peck, Charlton Heston e Michael Caine) non risparmiarono ironie. Eastwood, prima di nominare Il padrino migliore film del '73 si chiese se non fosse il caso di commemorare anche tutti i cow boys uccisi dagli indiani nei film di John Ford....

Roberto Silvestri, "il manifesto", 9 maggio 2008