"S'era tutti sovversivi (dedicato a Franco Serantini)", film documentario di 56 minuti, regia di Giacomo Verde

Franco Serantini, il tempo della vita è sempre politico.
«S'era tutti sovversivi». Il documentario di Giacomo Verde, distribuito da «A-rivista anarchica», racconta la storia del ragazzo ucciso dalla polizia a Pisa nel 1970.

«Insomma, s'era tutti sovversivi, rispetto all'Italia d'allora»: ha fatto bene il regista Giacomo Verde a scegliere questa dichiarazione d'intenti, fatta da un'amica di Franco Serantini, per dare il titolo al video che racconta la vita e la morte dell'anarchico ucciso dalla polizia a Pisa, trent'anni fa. Il documentario ci racconta i tanti modi di essere sovversivi, dalla vita quotidiana - la musica, i consumi, le letture - all'impegno politico - che allora si misurava sulla strada come nelle sedi, in un impegno totale che mescolava pratica pubblica e vita privata, senza far diventare una professione la prima e senza alienare gli interessi personali della seconda. In un'ora di testimonianze raccolte oggi e documenti d'epoca scorre un'Italia che appare mille anni lontana da quella odierna, anche se pure emergono i fili di una continuità per capire come tutto sia cambiato per non cambiare nulla nel potere, nella violenza, nell'oppressione. E persino quei ragazzi invecchiati di trent'anni che raccontano il loro essere sovversivi e il «loro Franco», alla fine, non sono, nei desideri e nei problemi, così distanti dai loro omologhi del XXI° secolo che si ritrovano a Seattle come a Genova, in una fabbrica minacciata dai licenziamenti come in un call-center ad alto tasso d'alienazione; fascino e mistero della storia e della sua memoria.
Il contesto in cui vive e muore Franco Serantini è quello di un'Italia che si arrovella negli squilibri sociali e nella modernità che si porta dentro la mina del proprio peccato originario, quello di una classe dirigente gretta, bigotta, che diventa feroce quando si sente tremare la terra sotto i piedi. Un'intera generazione - con tutte le fratture culturali e politiche che l'attraversavano - cercò di praticare la sovversione - anche nella vita quotidiana - e di preparare il cambiamento (alcuni la chiamavano rivoluzione, altri riforma, ma erano quasi solo delle sfumature): le venne impedito, con la forza e lì iniziarono le tragedie, le scelte suicide, le sconfitte. Che furono personali e collettive.
Anche Serantini scelse il suo modo d'essere sovversivo, quello di un «figlio di nessuno», di un ragazzo nato a Cagliari e abbandonato in fasce al brefotrofio, adottato all'età di due anni per poi ritornare in un'istituto dopo la morte della nuova madre; e, poi, il riformatorio, in un regime di semilibertà che gli lascia il tempo solo per lo studio. L'incontro con la politica - prima Lotta continua, poi gli anarchici - avviene quasi naturalmente, nell'Italia di allora. E inizia una nuova vita, fatta di discussioni, della «sede» dove ci si ritrova sempre, del tempo scandito dai ritmi del movimento: riunioni, volantini, cortei, assemblee. L'incontro con gli operai della Saint Gobain minacciati di licenziamento, i «mercatini rossi» al quartiere Cep per dimostrare che i generi alimentari possono costare molto meno di quanto li fa pagare il supermercato o il bottegaio: ogni cosa fa dire che il mercato è una truffa.
Corse frenetiche, senza respiro. Tutto il tempo della vita è tempo della politica, perché tutta la vita è politica, anche gli spazi privati, quelli riempiti dalle letture per capire, dai confronti con le vecchie generazioni, a Pisa con la «memoria anarchica», lì ancora fortissima. E su questo le mannaie dello stato, l'esplosione della strategia della tensione, la perdita dell'innocenza, alla Bussola dove la polizia spara per «difendere il capodanno dei ricchi», come a piazza Fontana. Agire propositivo e agire oppositivo si mescolano e costruiscono una cultura: vendere le verdure nei quartieri di periferia, occupare le case o diffondere il proprio giornale sono in continuità con uno sciopero, la protesta contro la strage di stato, gli scontri con i fascisti. È un fiume unico e inarrestabile - o, almeno, così sembrava essere - che solo a tratti s'interrompe, quando cala addosso al movimento la violenza dello stato. Quella che stronca Serantini. Il 5 maggio del 1972 a Pisa arriva il missino Giuseppe Niccolai, per un comizio elettorale. Lotta continua e gli anarchici organizzano la contestazione - «non deve parlare» - una delle tante degli anni `70. Ma questa volta non è come le altre: sul Lungarno la polizia carica, Franco Serantini si trova isolato, cade sotto le botte dei celerini, lo lasciano lì a terra, come uno straccio vecchio. Poi lo portano via, in questura, al carcere don Bosco. Viene interrogato, dice di star male, ma il giudice non considera «serio» quel suo malessere. Cade in coma, ma rimane abbandonato nella sua cella e quando lo portano al pronto soccorso del carcere, muore quasi subito. È il 7 maggio `72. Due giorni dopo viene sepolto.
Le indagini sulla sua morte non daranno alcun esito, nessuno verrà giudicato né condannato. Corrado Stajano scriverà un bel libro (Il sovversivo, Einaudi), la memoria di Serantini rimarrà viva a lungo e non solo a Pisa; almeno fino a quando il buio degli anni `80 cercerà di avvolgere tutto e rimuovere quel modo d'essere, quello di un ragazzo mite, un po' miope, studente e lavoratore precario, donatore di sangue, anarchico: «figlio di nessuno», come dice la lapide che lo ricorda. S'era tutti sovversivi, il bel video di Giacomo Verde - prodotto e distribuito dalla Biblioteca Franco Serantini e da «A-rivista anarchica» (tel.02/2896627, e-mail arivista@tin.it), 15 euro - ne raccoglie la memoria e aiuta a capire il suo tempo. Senza nostalgia, per comprendere le ricchezze stroncate assieme ai limiti, alle ingenuità e agli errori che altri hanno saputo ben usare.

Giovanna Boursier, "il manifesto", 8 gennaio 2003