Vincenzo Tessandori, "Qui Brigate rosse. Il racconto, le voci", Baldini Castoldi Dalai, 2009, pp. 782, 22 euro
 

«Ah! siete voi. Lo immaginavo.» La stella era gialla, fissata su un drappo rosso, quasi fosse una quinta attaccata alla parete di fondo di quella stanza «lunga e molto stretta» dove lo avevano portato. Lui girò lo sguardo per qualche istante, poi si voltò e li fissò. Aveva ancora quell’espressione che molti credevano mansueta. Erano in due, rozzi cappucci antracite di cotone cuciti a mano, come ricavati da un sacchetto, nascondevano le facce. Lui ne scorgeva soltanto gli occhi. «Presidente, ha capito chi siamo?» «Ho capito chi siete.» Erano le Brigate rosse, quella volta certe di aver colpito «al cuore lo Stato». E ammesso che lo Stato ce l’abbia, un cuore, lui ne sembrava la sintesi. E ora si trovava nelle mani di terroristi che non avevano esitato a fare una strage pur di prenderlo. Lì, in piedi, con quegli incappucciati, indecisi su cosa fare. Si guardò intorno: la cella, 2 metri per 90 centimetri, conteneva il letto, una specie di branda dall’aria neppure troppo scomoda, il water chimico, un comodino e, dalla parete, spuntavano una conduttura per l’aria e un microfono. «Quello è vero?» domandò. «Sì. Registriamo quello che dici e serve a te per chiamare, se ti serve qualcosa.» Gli avevano subito dato del tu, ma questo non era sembrato infastidirlo. Poi, con il passare dei giorni, anche lui avrebbe sovente dato del tu al suo inquisitore.
Nel 1977, Vincenzo Tessandori, allora cronista della «Stampa», scrisse "Br. Imputazione: banda armata", il primo libro sul nucleo originario delle Brigate rosse. Pareva una storia chiusa, era soltanto il prologo. Sopravvissuta agli arresti del gruppo storico, l’organizzazione clandestina si è sviluppata per lustri. I brigatisti rossi erano ormai nelle fabbriche, nelle università, nei quartieri disastrati di Roma, nei bassi napoletani, nell’inferno chimico di Porto Marghera. Avevano pianificato la guerra globale al sistema attraverso l’attacco al partito egemone, la Democrazia cristiana, e poi al suo nuovo grande alleato, il Pci, accusato di ammorbidire le richieste e la forza dirompente del proletariato. E furono i protagonisti del fatto più clamoroso accaduto negli anni della prima Repubblica: il sequestro Moro.
La logica dello scontro con lo Stato della «borghesia imperialista» implicava, fatalmente, di colpirne gli uomini-chiave: magistrati, politici e studiosi prestati alla politica, poliziotti e carabinieri, funzionari ministeriali, giornalisti. In trent’anni, su 132 morti provocati dal terrorismo rosso, 78 sono state le vittime delle sole Br, e su 59 militanti delle formazioni di sinistra uccisi, 26 erano brigatisti. Un’eredità pesante, sulle cui cause non si contano le analisi politiche e sociologiche, spesso non condivise e fonti di roventi polemiche, segno che la ferita, quando non ignorata, è ancora aperta.
Conscio di ciò, Tessandori sceglie ora un approccio nuovo: fare la cronaca ravvicinata della «generazione brigatista». Chi erano, come vivevano, agivano e pensavano i giovani invecchiati all’ombra di una rivoluzione impossibile? Attingendo alle sue personali esperienze, ai dialoghi con i protagonisti, allo studio dei documenti giudiziari e dell’organizzazione, ha cercato non di spiegare ma di calarci nella loro quotidianità, nella loro lucida follia, nella preparazione degli agguati, nei retroscena dei pentimenti, evitando le dietrologie e il gusto dei misteri, riducendo al minimo il suo giudizio ma lasciando parlare i fatti, anche dal versante delle vittime.
Con lo stile e il ritmo del thriller, questa cronaca puntigliosa, ricca di notizie inedite, diventa lente d’ingrandimento del fenomeno più cruento dell’Italia repubblicana. Ma soprattutto diventa strumento per tutti, perché solo facendo «rivivere» le esperienze altrui si può capire e quindi giudicare.
 

(scheda di presentazione a cura dell'editore)