Lidia Ravera, "La festa è finita", Milano, Mondadori, 2002, pp. 277, euro 15,80

Dimenticare è legittimo ma, forse, per dimenticare è necessario prima ricordare. Se non si ricorda si cancella, si rimuove, ma non si dimentica, nel senso che il passato non diventa memoria, ma rimozione, non diventa storia, ma vissuto personale racchiuso dentro forme corporee, sociali e di lavoro che sono, nel frattempo, cambiate, com’è cambiato il mondo circostante. Scrive bene e ad effetto in merito Lidia Ravera mettendo in evidenza il rapporto che i protagonisti hanno col proprio tempo trascorso: “Il passato era un grumo di felicità indigesta, mai metabolizzato, mai defecato”. Questa considerazione è necessaria per introdurre il romanzo ambientato in una Torino reale, molto reale, percorsa da ricordi di vecchie strade percorse assieme, di luoghi vissuti collettivamente, case, bar, trattorie, piazze, letti, amori frettolosi e amicizie facilmente sessualizzabili. Un mondo passato, dopo il quale, scrive, gli anni si sono raggrumati formando “masse molli di giorni senza cadenza, senza contorni. C’è il passato che è la giovinezza, e il presente che è la non giovinezza e i due tempi si specchiano l’uno nell’altro in un gioco di aporie maligne”.
Una Torino nella quale giovani protagonisti di Lotta Continua si mossero nei primissimi anni settanta, provenienti dai “nidi” dell’università e delle medie superiori per incontrarsi con altri giovani operai, provenienti da “nidi” soprattutto meridionali. Due mondi, diversi per cultura, esperienza, formazione, gusti, tradizioni, stili di vita, si fusero dando vita alla breve stagione delle lotte operaie, fuori e contro i sindacati e le istituzioni. Il trauma per la città fu notevole e segnò anche la vita di chi tale choc lo aveva provocato. Quel mondo, quella comunità d’intenti, di sentire, di relazioni affettive, sessuali e politiche, si ruppe nella metà degli anni Settanta e ogni gruppo sociale riprese la sua strada.
Trent’anni dopo, immagina il romanzo, quel mondo precipita nella vita di alcuni protagonisti, a causa del rapimento di un ex  leader del movimento torinese, che nel frattempo ha fatto fortuna, messo in atto da un ex operaio, proveniente dal meridione, diventato un’avanguardia delle lotte alla Fiat nel 1969. Un ex operaio che, finito fuori dalla fabbrica dopo la sconfitta dell’autunno del 1980, vive ossessionato dai ricordi di quella stagione di lotte e dal “tradimento” che, secondo lui, hanno perpetrato i “capi”, soprattutto dopo che si sono ritirati dalla lotta politica e hanno sciolto Lotta Continua. Non è solo Lotta Continua che “ha tradito” a dar fastidio e a segnare ulteriormente la via verso la pazzia del protagonista operaio, è anche l’ostentata e “grassa indifferenza”, della città verso quella stagione di lotte; una città che, dopo gli anni Settanta, è  scivolata nei “suoi rituali di capitalina degradata, perla della padania, sabauda e solenne”.
Il rapimento è il gesto disperato di un’ossessione e di un rancore covati per anni, il tentativo di riprendere con la forza, questa volta, quel dialogo che in precedenza accomunò il giovane e ruvido operaio meridionale e il giovane intellettuale in formazione proveniente da una buona e ricca famiglia. Il fatto costringe o aiuta alcuni protagonisti di quella stagione a reincontrarsi. Si tratta soprattutto di ex studenti e studentesse cresciuti, invecchiati, “piazzati” in qualche modo dentro la vita sociale e produttiva torinese. Una vita mediocre, come la città, nella quale chi è rimasto “è un fallito. Non si fa carriera politica a Torino, al massimo diventi assessore, consigliere regionale”, osserva fredda e cinica la voce narrante. Prima era una “città fabbrica”, aveva una sua identità e, per quanto discutibile, criticabile, una sua vocazione; ora che la fabbrica si è ridotta, “è una città senza vocazione”.
Sparite le vocazioni, le progettualità, gli entusiasmi giovanili e i rapimenti amicali della comunità studentesca che percorreva le strade e volantinava davanti ai cancelli della Fiat, i sopravvissuti, quando s’incontrano, si chiedono quale senso abbia “procedere con la vita oltre l’età dell’amore e della rabbia”, e ciò che loro rimane da dire e da ricordare è di una tristezza infinita. Non dovendo più raggiungere nessuna meta, “nessun ricovero, nessun premio” il passato diventa, nell’ipotesi più estrema, l’aggiornamento della lista dei conoscenti morti, come fa uno dei protagonisti, Massimo il quale, durante una cena “enumera due morti di cancro, una cirrosi degenerata e due suicidi”.
Passato e presente si misurano poi sul corpo delle persone. Il ricordo dei corpi giovani, le scarpette da ginnastica, i pantaloni a coste di velluto, gli eskimi, messi a confronto con l’appesantimento dei chili, con le forme che si fanno a dir poco rotondine, racchiuse in abiti e scarpe tipiche del vestire da cinquantenni. La bellezza corporea ancora attrae e concede a due protagonisti che si reincontrano una notte di sesso, calmo e sereno, in nome di quella che si chiamava la sessualizzazione dei rapporti di amicizia. Tuttavia, passata la frenesia del congiungimento, i segni corporei del tempo passato appaiono evidenti e l’uomo si trova ad “insistere con lo sguardo sulle défaillance dell’epidermide [della sua partner], sfiora le labbra da cui partono minuscole rughe a raggiera”. Finito il tempo storico, come dimensione e senso della vita, non resta che il tempo corporeo.
L’autrice ha colto bene la realtà odierna torinese dedicando buona parte del romanzo al racconto della vita, presente e passata, dei protagonisti provenienti dalla comunità studentesca, dal movimento, da Lotta Continua, lasciando in ombra l’altra metà, cioè la componente operaia che è stata, assieme a loro, altrettanto partecipe di quella stagione. Così facendo il romanzo contribuisce a denunciare un vuoto, una mancanza di memoria, un’assenza che sono reali in una Torino che non vuole e non ha la possibilità, in questo momento, di ricostruire le storie delle stagioni della lotta operaia. Quest’altra metà resta nell’ombra, emerge solo con la forza e la rabbia ormai diventata pazzia, dell’operaio massa meridionale, trasportato dall’immigrazione in città, innalzato a avanguardia di lotta, chiamato ai compiti immani e grandi della centralità operaia, della classe operaia che deve dirigere tutto, proteso alla conquista del potere operaio, attraverso la lotta continua. Bagliori e lampi di un tempo che non c’è più e al quale neanche fisicamente, nel romanzo, sono sopravvissuti i protagonisti. Semplicemente, a parte quello che rapisce l’ex esponente di Lotta Continua e si ostina a girare su una vecchia Renault rossa, gli altri operai di Mirafiori non ci sono, non si vedono, non s’incontrano più, sono scomparsi.

Diego Giachetti