Diego Giachetti, Nessuno ci può giudicare. Gli anni della rivolta al femminile", Derive Approdi, Roma, 2005, euro 14,50

Mettiamo in guardia gli osservatori maschili a fare di noi materia di studio. Ci è indifferente sia il consenso che la polemica. Gli suggeriamo che è più dignitoso per loro non intromettersi.
 

CARLA LONZI, Sputiamo su Hegel, pp. 54-55


Mentre le giovani donne degli anni Settanta  militavano nei gruppi e nei collettivi non pensavano che la politica potesse diventare la loro professione, la carriera da costruire. La loro esperienza consistette nel “costruire gruppi effimeri, fragili, organizzativamente poveri e vacillanti, scarsamente strutturati”. Più che l’impulso tradizionale dell’emancipazione le muoveva il bisogno di liberazione, a cominciare dal vecchio lessico usato per descrivere tipi di rapporti e ruoli sociali ricoperti da uomini e donne (fidanzati, fidanzamento, matrimonio, concubini, sistemarsi, è la mia signora, sono impegnata, sono libera, è zitella, è scapolo, è signorina, è giovane, si è accasata, la mia metà, mettere su casa, amo, non amo). Esso fu sostituito, nel parlato e nello scritto, da nuovi modi di dire: il mio ragazzo, il mio compagno, il mio uomo, si è messa insieme, ha o non ha il ragazzo, è incastrato, non ha  l’uomo fisso, ha tanti ragazzi, è imbranata, mi piace, non mi piace.
La  rivoluzione e la rivolta femminile degli anni sessanta e settanta che operano questo mutamento lessicale sono il risultato del fatto che le donne, soprattutto quelle più giovani, non vollero più essere come le loro madri e nonne che avevano sostanzialmente accettato il mito della maternità, della famiglia, dell’uomo, del compagno o marito, della specificità della loro condizione diversa e diseguale da quella dell’uomo. Questo fatto della rivolta è l’oggetto dell’indagine storica che scava lungo diverse direzioni: dalla rivoluzione sessuale alla sessualità al femminile, dalla rivoluzione clitoridea  all’autocoscienza delle femministe in movimento, dal compagno-marito-operaio alle giovani donne in doppia militanza.
Il  libro ricostruisce le vicende e i diversi livelli di consapevolezza della problematica nel momento espansivo e ascendente del movimento delle donne, che sfidava un sistema sociale ben radicato. L’orizzonte del femminismo è irto di difficoltà “la liberazione della donna non può essere opera altro che della donna stessa. Solamente lottando contro la società e contro se stessa, la donna può conquistare dignità umana e quindi trasformare l’atteggiamento dell’uomo in rispetto, solidarietà, eguaglianza” (p.199); non esistendo “sul nostro pianeta altri oppressi che vadano a letto con gli oppressori, li desiderino, li amino, ci facciano insieme dei figli, ne condividano la condizione sociale, la miseria o i privilegi, i ricordi, le speranze, i timori e i linguaggi… le donne erano costrette a ricercare e inventare un possibile rapporto con l’uomo completamente nuovo, una felicità inedita”. Spesso quelle donne ponevano più problemi che soluzioni, in un contesto, tra il ’68 e il ’77, in cui il ritorno a Marx si accompagnava a una nascente e insidiosa crisi del marxismo.
Si vorrà scusare questo susseguirsi di citazioni, ma era necessario al fine di ricostruire la cornice del quadro della situazione di allora, perché la situazione attuale non lascia trapelare le lotte che ci sono state e lo storico deve ricostruire lo spirito del tempo. L’autore esplora quel mondo con fonti scarsamente considerate: le canzoni di musica leggera, la posta delle lettrici dei settimanali femminili, i documenti dei gruppi femministi, i sondaggi e le inchieste Doxa,  che fungono da tessere di un mosaico estremamente complesso, in cui si intrecciano demistificazione intellettuale, azione collettiva militante e liberazione individuale.
 Agli inizi dei anni sessanta una lettrice  chiede: “Quando bacio colui che amo devo mettergli anch’io la lingua in bocca?... Posso toccarlo anch’io?”. Nel febbraio del 1976 fu coniato il termine “femministine” per indicare le sedicenni che organizzarono il loro primo sciopero nelle scuole romane, erano ipercritiche verso coloro che avevano spianato la strada: “ l’autocoscienza non basta, è un mezzo per conoscerti e per conoscere la realtà, ma bisogna trovare degli sbocchi fuori”, oppure “non ho problemi pratici nel senso che posso uscire, posso prendere la pillola, i miei genitori me l’ho concedono (pp. 215-216)”; sono testimonianze che da un lato indicano la strada percorsa nel costume e nella mentalità dal femminismo e dall’altro il depotenziamento della sua carica dirompente.
Occorre considerare che la spinta verso una sessualità libera e consapevole si avvantaggiò della comparsa di un nuovo anticoncezionale  come la pillola e dalla regressione pressoché totale delle malattie trasmesse per via sessuale. Nel Novecento, il periodo che va dagli anni quaranta agli ottanta, dalla pennicillina alla comparsa dell’Aids, è l’unico dell’intera storia umana, in cui la sessualità fu libera dalla malattia.
Contestualmente le donne, per liberarsi dall’asservimento economico del lavoro domestico al servizio dell’istituzione famiglia, hanno cercato il lavoro remunerato. Sono entrate nel mercato del lavoro sommando il lavoro produttivo al lavoro riproduttivo, dove, però, anziché trovare la conquista della libertà di scelta e l’indipendenza della propria soggettività, hanno trovato il conflitto di classe e il conflitto di genere.
Che la rivoluzione sessuale fosse necessaria lo attesta un’inchiesta Doxa del 1973 da cui emerge che “più del 45% riteneva imperdonabile l’infedeltà femminile mentre meno del 19% giudicava allo stesso modo quella maschile, nel 1977 ben il 58% delle mogli intervistate dichiarava di avere rapporti extraconiugali; egualmente il desiderio di trovare marito, che nel 1962 era l’aspirazione dell’82% delle donne, scendeva nel 1973 a meno del 29%” e nello stesso tempo “una persona su dieci non aveva mai avuto rapporti sessuali, le donne sopra i cinquant’anni  non ne avevano quasi più, mentre i loro maschi si accoppiavano con ragazze o con prostitute e l’orgasmo femminile era ancora tutto da conquistare” (p. 70).
 Il materiale infiammabile era tale che, con la scoperta e la rivendicazione dell’orgasmo clitorideo  rispetto a quello vaginale e con la possibilità di separare il piacere femminile dall’atto riproduttivo, inevitabilmente il conflitto divenne incandescente, “politicizzando” il coito.
Questo per le rose. Per il pane le rivendicazioni erano altrettanto radicali, rese possibili dal protagonismo delle giovani operaie e stendesse che metteva in discussione la specifica divisione del lavoro del modo di produzione capitalistico, imputando ai compagni maschi di non vedere la portata dell’emarginazione della donna, funzionale ai rapporti di dominio su cui si fonda il sistema sociale: non solo  la riduzione dell’orario di lavoro per rendere possibile anche agli uomini di occuparsi della casa e dei figli, la depenalizzazione e la gratuità dell’aborto e della sterilizzazione, l’autogestione del corpo, l’accesso gratuito all’asilo nido e il salario domestico, ma anche, peculiarità di “Lotta femminista”, un’indennità per la donna costretta ad abortire, in quanto “restare incinta è un incidente sul lavoro. Fare l’amore, infatti, è un prolungamento notturno del lavoro domestico a cui siamo costrette  senza nessun dispositivo di sicurezza adeguato”.
In questo contesto emerge l’originale elaborazione teorica di Carla Lonzi che, diffidente verso la contestazione giovanile e la rivoluzione sessuale, afferma: “Contraccettivi, aborto, sterilizzazione, rivelano un’incongruenza del mondo patriarcale che, invece di porre in discussione il modello  sessuale procreativo come modello “naturale”, lo riconferma mobilitando una serie di misure  che rendono l’atto procreativo non-procreativo”.
Le carenze e l’immaturità teorica della nuova sinistra hanno impedito che questa impostazione attraversasse proficuamente lo scenario sociale dispiegando il suo potenziale di trasformazione politica. Tuttavia se oggi un’artista o una manager  può liberamente dire di essere lesbica è anche grazie alle lotte e alla militanza di tante femministe.
Non si deve dimenticare che il loro orizzonte era più ampio e merito del libro è di ricordalo oggi, storiograficamente  e politicamente. Dopo gli esiti degli ultimi referendum è necessario tornare a riflettere su quegli anni perché sorge il dubbio che realmente in molte donne normali ci sia stata ricezione di “discorsi basati sul concetto di libertà e dignità” e che il lascito della rivoluzione femminista, messosi “in moto nella testa di chi non vi aveva preso parte o vi aveva giocato un ruolo marginale” (p.218), sia stato destinato a permanere e ad agire nei rapporti sociali.
 E’ vero che l’autore è venuto meno all’ingiunzione di Carla Lonzi, ma storiograficamente  l’ha fatto con dignità, ubbidendo a quella di Engels: “Il primo antagonismo di classe che fa la sua apparizione nella storia coincide con lo sviluppo dell’antagonismo tra uomo e donna in un regime monogamico, e la prima oppressione di classe con l’oppressione del sesso femminile da parte di quello maschile”. Non si può rovesciare l’una senza l’altra: un compito difficile sia per il nuovo movimento operaio che per le femministe, ma non è escluso che, contrariamente a quanto possa apparire, si siano create le condizioni perché oggi possa essere intrapreso con esiti migliori rispetto a quelli di 25 anni fa. Si può giungere a questa conclusione tenendo presenti i contenuti radicali  rispecchiati dalle modalità narrative adottate, che aiutano a cogliere l’intenzionalità ermeneutica dell’autore e rendono il libro consigliabile come sussidiario per una auspicabile “scuola dell’obbligo di fenminismo”,  sia per il genere femminile che per quello maschile, nonché come testo per corsi universitari, magari interdipartimentali.
 

Francesco Racco