Tre quinti di essere umano
Dal 1956 a Obama, la lunga lotta degli afroamericani per riscrivere la parola «umano» spezzando i confini della loro esclusione. E dimostrando che è nella parzialità che stanno le radici dell'universale
 

Se questo è un uomo... Frederick Douglass, uno dei grandi americani dell'800, nato schiavo, diceva: «della mia età ne so quanto ne sanno i cavalli della loro...». Nato al livello degli animali, era catalogato come uno di essi: «Fummo messi tutti in fila insieme per l'inventario. Uomini e donne, vecchi e giovani, sposati e celibi, in fila insieme coi cavalli, le pecore e i maiali. C'erano cavalli e uomini, buoi e donne, porci e bambini, tutti messi sullo stesso piano nella scala dell'essere, e tutti sottoposti la stessa accurata ispezione...». Nella Costituzione americana, gli afroamericani non sono mai nominati esplicitamente, ma la loro presenza aleggia ad ogni riga: dopo tutto, il genio del compromesso dei cosiddetti Padri fondatori consisteva in gran parte proprio nel mediare fra libertà e schiavitù, tenendo in piedi la «peculiare istituzione» senza nominarla mai. Così, il calcolo della popolazione dei singoli stati ai fini della rappresentanza nel Congresso prevedeva che al numero dei cittadini liberi si aggiungessero «tre quinti di tutte le altre persone». Come dire che nell'atto di nascita degli Stati uniti gli afroamericani equivalgono a tre quinti di essere umano. E appena prima della Guerra civile, Frederick Douglass doveva ancora dibattere contro gli «antropologi» che sostenevano che gli afroamericani non erano pienamente umani, ma solo una via di mezzo fra l'umano e la scimmia.
I cartelli che i picchetti alzano in questa foto, perciò, fanno parte di una lunga protesta afroamericana per ottenere che la propria umanità sia riconosciuta e rispettata. L'immagine viene da Memphis ed è del '68, pochi giorni prima dell'assassinio di Martin Luther King. Ma potrebbe anche essere precedente, del '58 o del '63. Perché se è vero che il '68 studentesco americano comincia almeno nel '64 a Berkeley, è anche vero che la grande stagione delle lotte sociali emerge con gli afroamericani a Birmingham, Alabama, nel 1956. E magari sta continuando, a modo suo, anche con Barak Obama: il suo tentativo di definirsi come «postrazziale» può essere ingenuo e in parte ambiguo, ma rinvia anche alla celebre risposta di Alfred Einstein - «Razza? Umana».
Io ero cresciuto senza mai avere un'idea politica in testa. Ma sul finire degli anni '50, le immagini in bianco e nero delle ragazzine afroamericane che entravano a scuola a Little Rock, impassibili e dignitose sotto la pioggia di insulti, sassi, bastoni dalla folla inferocita di bianchi che gli facevano ala, mi lasciò un segno incancellabile. Non solo per sé gli afroamericani hanno indicato una strada di liberazione, di impegno, di passione, una politica in cui metterci anche l'anima.
In questa foto invece dei razzisti urlanti a fargli ala ci sono le inquietanti baionette venute non si sa bene se per proteggerli o per intimidirli, o per intimidirli proteggendoli (e la stessa su quel blindato sembra Praga!). Ma ci voleva comunque coraggio a sfilare sotto quegli sguardi non amici senza perdere la calma, non solo senza fuggire, ma anche senza lasciarsi andare a reagire. Perché oltre al coraggio ci voleva un senso alto della propria dignità e della propria umanità.
Perché una volta affermato «I a man», bisogna anche definirlo: che signfica essere uomo, agire da uomini? Sul finire del '68, a New York, intervistai Matt Jones, uno dei Freedom Singers originali, il gruppo di militanti del movimento dei diritti civili che oltre ai loro corpi portavano nelle manifestazioni, nei picchetti, nelle chiese, nelle carceri (ma anche nei teatri e nei concerti) anche le loro voci. Matt Jones mi fece capire che la loro resistenza non violenta era stata possibile proprio perché era una prova della loro intatta umanità. Guardateli, nella foto, come stanno eretti, come guardano avanti.senza voltarsi. Sanno dove stanno andando.
A differenza di Martin Luther King e dei filoni più religiosi del movimento, Matt Jones non attribuiva un particolare significato morale alla non violenza: per lui, si era trattato semplicemente di una scelta pragmatica, l'unica alternativa praticabile data la sproporzione di armi fra la repressione e il movimento. Eppure, in un certo senso, ci voleva ancor più autocontrollo, per lasciarsi trascinare di peso, picchiare e maltrattare senza reagire, e senza nemmeno essere sostenuti da un senso di superiorità morale. La grande teorica femminista nera bell hooks ha scritto una volta che nella cultura nera esiste un modello di uomo che non esercita potere, che non pretende di sovrastare e che - come i personaggi di Amatissima di Toni Morrison - esprime la sua «virilità» nel piangere con le donne e nella non aggressione. Ecco, questa forse è la figura che sostiene l'indistruttibile passività ricettiva del movimento dei diritti civili.
Ho detto uomo, e ho detto «virilità»: perché dire «sono un uomo», «I am a man», contiene un'ambivalenza, può essere tanto un'affermazione della propria umanità quanto una proclamazione della propria identità di genere (non mi pare di vedere donne, in questa fotografia - eppure, quante ce n'erano, e quanto contavano, nel movimento! D'altronde, non ci sono donne neanche dietro quelle baionette). E allora il discorso della resistenza non violenta, della indistruttibile passività ricettiva, si capovolge e si complica.
C'è un racconto di Richard Wright, scritto intorno al 1940, che si chiama L'uomo che era quasi un uomo. Il protagonista è un ragazzo nero che rischia di interiorizzare l'immagine subumana di sé (tre quinti di uomo?) che gli proietta il mondo circostante. Crede di trovare il proprio riscatto nel possesso di un'arma, e finisce tragicamente. Più meno negli stessi giorni in cui conobbi Matt Jones, incontrai anche Habib Tiwoni, un ragazzo afroamericano del Sud degli Stati uniti che si era dato un nuovo nome africano per sottolineare la sua identificazione coi nuovi movimenti rivoluzionari e nazionalisti neri. Habib mi fece conoscere la sua Harlem e quando ci salutammo mi regalò una sua fotografia, in posa, su uno sfondo esotico, con il berretto nero dei ribelli in testa e un fucile in mano. La posizione somiglia a una famosa foto di Malcolm X, col fucile in mano, di guardia dietro le finestre della sua casa dopo che un attentato razzista per poco non gli distruggeva la famiglia. Ma mentre l'immagine di Malcolm rinvia all'autodifesa «con ogni mezzo necessario», quella di Habib Tiwoni sottolinea il simbolismo dell'arma come completamento di un'umanità che si definisce nel recupero di un'Africa mitologica e di una maschilità molto tradizionale. Non credo che Habib (come Malcolm X) abbia mai sparato un colpo; finché ho avuto sue notizie, non gli era successo niente di tragico. Ma non si conta il numero di militanti delle Pantere Nere, con tutta la loro messa in scena militare, ammazzati dal piombo tutt'altro che simbolico della repressione. In un long playing pubblicato dal Black Panther Party, c'è una canzone che dice «we'll just have to get guns, and be men» - dobbiamo prendere le armi, ed essere uomini. E' con le armi che si diventa uomini. Il paradosso è che è scritta e magistralmente cantata da una donna, Elaine Brown - che fu anche presidente del BPP negli anni '70, e nel 1992 scrisse poi un libro assai critico sull'ideologia e i ruoli di genere nel partito rivoluzionario nero.
Ricordavo all'inizio Primo Levi perché, come Frederick Douglass, ci aiuta a capire che coloro la cui umanità è aggredita e messa in discussione sono costretti per necessità a sforzarsi di ridefinire che cos'è un essere umano - non fosse altro che spezzando i confini di una definizione di umanità che si era fondata sulla loro esclusione. E più specificamente, le donne nere, da Fannie Lou Hamer a bell hooks a Toni Morrison si fanno carico di proporre anche una definizione alternativa di che cosa vuol dire essere «uomo» in termini di genere. In un caso e nell'altro, nel farlo per sé, inevitabilmente lo fanno per tutti: non credo di essere il solo, bianco e maschio europeo, che deve a quelle bambine nere di Little Rock, Arkansas, la scoperta che un altro modo di essere umani è possibile. Ancora una volta, come con Primo Levi ad Auschwitz, è nella minoranza, nella parzialità, nel margine che affondano le radici dell'universale.

Alessandro Portelli, "il manifesto", 24 maggio 2008