Beppe Lopez, "La Scordanza", Marsilio, pp. 380, euro 19,50
 

"La scordanza" è il secondo romanzo di Beppe Lopez
La sconfitta politica e personale di un "ragazzo degli anni Sessanta"
Viaggio nella vita di Niudd deluso e disilluso dalla Storia
 

Intervista di Silvana Mazzocchi a Beppe Lopez, "la Repubblica", 14 marzo 2009
 

Storia personale "La scordanza", eppure anche racconto comune, che riguarda quelli di noi che sono stati ragazzini curiosi e gonfi di speranze in quegli anni Sessanta e Settanta che tanto promisero, prima di tradire sogni e aspettative. Un romanzo che accompagna, anche grazie a un linguaggio originale e immaginifico, che mischia con naturalezza italiano e dialetti e che arricchisce la narrazione con sfumature sorprendenti. E' nato nel primo dopoguerra, Niudd, il protagonista di "La Scordanza", il secondo romanzo di Beppe Lopez, giornalista e direttore di quotidiani e riviste, da decenni una voce importante nel dibattito sull'informazione. Ed è divisa in due parti, "andata" e "ritorno", la trama, scandita dalle date che si snodano lungo mezzo secolo.
Semplice il filo degli eventi: quando Niudd emigra da Bari a Roma con Iagatedd, la sua ragazza, si lascia alle spalle una madre che non è la madre, un padre che non ha avuto il coraggio della verità e una compagnia teatrale dilettantesca, nata sulle inquietudini sessantottine. Nella capitale, Niudd s'immerge nel lavoro e nell'amore. E ha una figlia, Saverin. E' giornalista politico, crede nel processo di democratizzazione, scopre la libertà, il sesso, l'ebrezza di non avere vincoli e orari. Nel '78, però, è già tutto finito. L'assassinio di Aldo Moro e il buio che il terrorismo ha portato con sé, spezzano il cammino per un futuro migliore e rimandano indietro il Paese, in una crisi che sembra aver cancellato ogni ideale e fatto perdere la memoria di sé. Niudd non ha più illusioni, il suo matrimonio si rompe.
Vent'anni dopo, Niudd lascia la sua casa, abbandona gli oggetti, i libri, i giornali collezionati per tanti anni, testimoni del suo lavoro che lo ha portato al Sud e poi di nuovo a Roma. E torna a Bari, sconfitto e perduto. Solo con il suo cane, va a vivere nella casa dove era stato ragazzo e affronta il passato, mentre non riconosce il presente. Vuole rivedere Savarin, vuole raccontare a sua figlia di sé. Ma una notte ha un sogno e...

Quanto c'è di autobiografico in La scordanza?
"Ritengo da sempre che scrivere un romanzo abbia un senso - al contrario di quello che avviene per la gran parte dei libri di narrativa italiana contemporanea, spesso bellissimi ma perfettamente inutili perché incentrati su vicende artificiali, artificiose e ripetitive - se racconta una storia che solo tu puoi raccontare. E sono d'accordo con Angelo Guglielmi: oggi la narrativa, se non vuole correre il rischio giustamente denunciato da Antonio Scurati nella "Letteratura dell'inesperienza", deve raccontare storie vere, biografie e autobiografie. Io questo ho fatto, sin dal 2000, con il mio primo romanzo "Capatosta" (Mondadori). E questo, sì', ho fatto anche con "La scordanza". Ho avuto la ventura di vivere esperienze personali e professionali in un periodo straordinariamente ricco di passaggi d'epoca, di speranze generazionali, di grandi conquiste sociali ma anche di sconfitte e arretramenti. Come me, il protagonista della "Scordanza" è passato dal medioevo ai processi di democratizzazione e socializzazione degli anni Sessanta e Settanta. E come me non ha scordato ciò che c'era prima della brutale interruzione di quei processi, alla fine degli anni Settanta. Poi, nel libro, ci sono anche mie specifiche vicende personali. Anche molto intime".

Niudd, il protagonista del romanzo, vive l'età dell'illusione e dell'entusiasmo, poi lo sperdimento per la profonda crisi morale della nostra società, "ubriaca di scordanza". E' dello scorso anno il suo saggio La casta dei giornali. Quanto pesa la delusione professionale nei suoi libri?
"Io ho avuto molto dalla vita. Ho osato molto, anche sul piano professionale; ho pagato molto alla mia incapacità di partecipare a intraprese di cui non condividessi la separatezza dagli interessi diffusi e in particolare da quelli delle persone più indifese, e comunque di consentire che mi si mancasse di rispetto, ma ho preso e fatto parecchio. No, non sono deluso. Per qualche aspetto sono sconfitto: per esempio, ho perduto nella mia personale, trentennale battaglia per un'informazione decentrata, articolata su forti giornali locali, travolto (insieme al Paese) dalla potenza e prepotenza editoriale dei grandi gruppi editoriali che hanno desertificato l'infomazione libera e regionale, omologato l'informazione e concentrato in poche mani (di finanzieri e affaristi) il controllo dei meccanismi democratici e della loro stessa percezione da parte dei cittadini. Sconfitto, ma non vinto. Sono ancora qui, in piedi. A fare libri, a scrivere articoli, a mandare in rete ogni giorno un sito, Informazione e democrazia, con la passione e l'entusiasmo di sempre, e con la voglia e la certezza (di sempre) di essere dalla parte di chi non ha voce, di chi subisce ingiustizie, di chi non è libero di esprimersi.

La scordanza è scritto con un linguaggio molto "contaminato", perché?
"Sin dal mio primo romanzo, non solo racconto storie che solo io posso raccontare, ma anche una lingua che solo io posso usare. Anzi, che io ho inventato: un idioletto ottenuto intrecciando italiano parlato e materiale dialettale meridionale, in particolare di Bari, la mia città di origine. Una lingua che è stata accolta con straordinario interesse dai più noti critici letterari (Brevini, Canali, Augias, Onofri, Cotroneo, ecc.), trovandola pertinente e particolarmente suggestiva, forte e ricca di stimoli. In "Capatosta" descrivevo un mondo di emarginati dalla storia: e certamente non poteva esso esprimersi ed essere raccontato, paradossalmente, proprio dalla lingua dell'integrazione per eccellenza, l'italiano formale. "La Scordanza" racconta un processo di regressione del protagonista, che non solo scava nella propria storia e nelle proprie radici, facendo il bilancio della propria vita, ma addirittura va a rintanarsi fisicamente, a isolarsi nella città, nel quartiere, nella via, nella casa dove aveva trascorso la fanciullezza e l'adolescenza. E il dialetto è appunto la lingua degli istinti, dei bisogni primari.