"La Resistenza contesa. Memorie e rappresentazioni dell’antifascismo nei manifesti politici degli anni settanta", a cura di Diego Melegari e Ilaria La Fata, Milano, Archivio “Marco Pezzi”-Punto Rosso, 2005, pp. 128, euro 12.00

Il libro raccoglie le relazioni presentate al seminario di studi La resistenza contesa, che si svolse a Parma nel 2002, organizzato dal locale Centro Studi per la Stagione dei Movimenti, un organismo che negli anni seguenti ha ancora avuto modo di manifestare la sua capacità e intelligenza nel costruire momenti di riflessione e di studio su aspetti che la storiografia dell’Italia repubblicana sta cominciando ad esaminare. Il tema centrale del convegno era il significato assunto dal riferimento alla tradizione antifascista e alla memoria resistenziale in un momento di tesa conflittualità sociale, politica e culturale quali furono gli anni Settanta. Si trattava di considerare come un evento periodizzante per la storia italiana e per la costruzione dell’identità nazionale repubblicana, quale fu la lotta di liberazione del 1943-45, fosse stato assunto e riformulato dai movimenti  e dalle formazioni politiche della nuova sinistra.
Chi si occupa di storia della storia della Resistenza sa che la memoria e la rappresentazione di quel fenomeno sono state costantemente modificate e riproposte a secondo delle fasi della storia recente del nostro paese. In particolare negli anni Settanta alla memoria della Resistenza, portata avanti dai partiti dell’arco costituzionale, come si autodefinivano gli eredi a vario titolo delle formazioni facenti parte del Comitato di Liberazione Nazionale, si affiancarono altre letture e altri atteggiamenti che comportavano un recupero che era anche presa di distanza del tema dell’antifascismo.
La nuova sinistra operò una revisione della Resistenza e dell’antifascismo. Dopo un sessantotto che poco o per niente guardò a quell’esperienza storica, perchè altri erano i suoi riferimenti (la Cina di Mao e la rivoluzione culturale, Che Guevara, il mouvenent americano, L’Africa di Lumumba, il Viet-Nam e i Vietcong), la strage alla Banca dell’agricoltura di Milano del 12 dicembre 1969, riposizionò la nascente e dissacrante cultura in formazione dei sessantottini riportandoli al tema del fascismo e dell’antifascismo. Il fascismo non fu più considerato solo un rapporto autoritario che percorreva i rapporti tra gli individui e le istituzioni repressive, come era stato riconsiderato nel ’68, divenne un pericolo reale, una possibilità storica per le classi dominati messe in difficoltà dalle rivolte studentesche, operaie, giovanili. Se questo pericolo tornava, era segno che la celebrata Resistenza dei partiti istituzionali in qualcosa aveva fallito: aveva combattuto un fenomeno, il fascismo, lo aveva vinto, ma probabilmente, si cominciò a pensare e a dire, non aveva estirpato le sue cause. Quelle cause furono ricondotte in generale al sistema capitalistico, il cui ventre era ancora sempre pronto a ripartorire il mostro, come aveva scritto Bertolt Brecht, e, nello specifico italiano, alla continuità degli apparati statali che erano passati indenni dalla monarchia a statuto albertino, al fascismo, alla repubblica costituzionale e parlamentare. In particolare il nuovo antifascismo indirizzò la sua attenzione non solo al pericolo rappresentato dal Movimento Sociale Italiano e da tutti quelli che al fascismo ancora si richiamavano, ma anche all’occupazione del potere governativo e statale operata dal partito della Democrazia Cristiana.
Se il fascismo era nuovamente un pericolo allora occorreva attrezzarsi per condurre contro di esso una lotta militante, nacque così l’antifascismo militante, reso vivo e attuale dalla pratica, da contrapporre a quello celebrativo nella ricorrenza stabilità dal calendario ogni anni il 25 aprile. Contro l’imbalsamazione dell’antifascismo e della resistenza a mera celebrazione istituzionale, con la fanfara, il prete, il vescovo, il sindaco, il vecchio reduce partigiano, avevano già protestato le sporadiche voci delle riviste del dissenso degli anni sessanta, denunciando anticipatamente l’insofferenza di una nuova generazione che non accettava di ricevere in eredita una bandiera da custodire, ma voleva sventolarla ancora nel contesto della nuova conflittualità che si manifestava allora in Italia. Si venne quindi a creare una contesa sul significato da attribuire alla Resistenza tra i partiti della sinistra storica (socialisti e comunisti) e le formazioni, a base soprattutto giovanile, della nuova sinistra. Contesa che è ben rintracciabile nei manifesti politici che richiamavano il tema dell’antifascismo e della Resistenza, prodotti in quel decennio. Questo è stato il supporto documentario (una mostra dei manifesti) che ha accompagnato il convegno di Parma del 2002, chiamando gli storici al confronto con questa fonte un po’ insolita (ma utilissima) per cogliere specificità, differenze s somiglianze. Il libro contiene quindi un discreto numero di immagini di manifesti che accompagnano le relazioni di Antonio Parisella sui diversi percorsi attraverso cui i conflitti politici degli anni Settanta si riallacciarono alla memoria della resistenza, di Andrea Rapini sul rapporto tra antifascismo e nuove generazioni colto in due momenti particolare: quello del luglio 1960 e quello dopo la strage di Piazza Fontana del 1969, di Diego Melegari sugli elementi di differenza e di continuità tra le varie declinazioni politiche dell’antifascismo a partire dalle immagini dei manifesti politici e di Gloria Bianchino sull’uso dei manifesti e dell’immagine come veicolo di memoria e di identità collettiva. Conclude il lavoro una lunga e dettagliata “cronologia su neofascismo e antifascismo dal 1960 al 1980” curata da Marco Baldassari e Diego Melegari.

Diego Giachetti