Silvia Casilio,  “Il cielo è caduto sulla terra”. Politica e violenza politica nell’estrema sinistra in Italia (1974-1978), Roma, Edizioni Associate, 2005, pp. 413, euro 18,00

Silvia Casilio ha avuto “coraggio”. Ha messo le mani fra le carte e le foto e le canzoni e le emozioni, per raccontare e tracciare percorsi periodizzanti di storie accadute in Italia nel cuore degli anni Settanta. Il libro condensa quattro anni fittissimi di storie, che vanno dal 1974 al 1978 e che hanno per protagonisti: i movimenti giovanili, i gruppi politici nati dal “biennio rosso” del ’68-’69 (Lotta Continua, Avanguardia Operaia, il Manifesto), quelli dell’autonomia, dopo lo scioglimento di Potere operaio nel 1973, le formazioni terroristiche, dalle Brigate Rosse a Prima Linea. Si tratta di soggetti politici e sociali che vivono e provocano eventi da cui, alla fine, sono travolti. Non a caso il libro (e con lui il periodo) si chiude col rapimento Moro per opera delle Brigate Rosse e il suo assassinio nel 1978.
Da buona storica in formazione, questo è il suo primo libro, mette al lavoro concetti che guidano l’opera e tengono le fila di un discorso e di tante storie che solo apparentemente sono sparpagliate, frammentate e divise. C’è, forte, la presenza del concetto di generazione che spacca e divide l’Italia in due fronti d’età, contrappone i giovani studenti e i giovani operai agli istituti degli adulti: lo Stato repubblicano, la scuola, l’università, i partiti costituzionali, i sindacati. Una generazione che genera, alla ricerca d’istituti capaci di rompere la gabbia esistenziale e politica di chi si sente di vivere in una società bloccata, nuove organizzazioni politiche (molto più simili ai gruppi che non ai partiti tradizionali), alcune delle quali sfociano nella pratica della lotta armata e del terrorismo, che produce cultura e controcultura, solidarietà, amicizia partecipazione, inseguimento di speranze e di utopie in un contesto nel quale, finalmente, il “regno dei cieli” sembra a portata di mano perché sta precipitando sulla terra (di qui le ragioni del titolo immaginifico del libro).
Una generazione che produce rivolta, speranza e rabbia, che stimola la lotta di classe nelle fabbriche e costruisce i consigli di fabbrica, e che sa leggersi, decisamente e pervicacemente, per la prima volta nella storia, al femminile, dando vita a quel singolare e secondo fronte della lotta per la rivoluzione sociale dato dal movimento delle donne e dal femminismo. Infine, presente e costante nell’analisi è il concetto di estremismo, senza il quale ben poco si comprende di quel periodo e di quei movimenti, inteso come atteggiamento di azione sociale o politica che rifiuta le regole del gioco stabilite da una società-stato, non riconosce i suoi valori e finalità, agisce per trasformarle radicalmente.
Prima ancora che una linea politica compiuta, lo si avverte in molte delle citazioni prodotte dall’autrice, l’estremismo è, innanzi tutto, un atteggiamento, un modo di porsi verso l’attività politica di cui rifiuta, per varie ragioni e contingenze, la gradualità e la parzialità degli obiettivi, tende a non porsi nell’ottica del negoziato, della trattativa, del compromesso con l’avversario. Quindi, prima ancora che un movimento o una corrente politica dotata di un progetto e di un’ideologia, l’estremismo è un modo di porsi verso la società e le istituzioni, che accomuna comportamenti di gruppi, ceti sociali, organizzazioni politiche con scopi, matrici ideologiche e programmatiche anche diverse. E davvero, questo aspetto esistenziale, di insofferenza per una vita che non si vuole accettare, caratterizza uomini e donne di quella generazione; davvero per loro l’esistenza precede la coscienza, la rivolta esistenziale li accomuna, le scelte politiche coscienti li proiettano in un caleidoscopio di ideologie e gruppi politici diversi. Tutti però sono agitati dall’immanenza dell’azione, dall’impazienza rivoluzionaria vogliono cambiare il mondo, i rapporti tra gli uomini e quelli tra uomini e donne.
Il quadro storico entro cui queste speranze travolgenti si manifestano e si compiono, anche in modo efferato, è quello, colto con efficacia e pertinenza, dell’inversione del ciclo che aveva caratterizzato la famosa età dell’oro del capitalismo occidentale; infatti, la recessione economica generalizzata, la crisi, del 1974-75 chiude una fase e ne apre un’altra, del tutto nuova. La gioiosa, rumorosa ed esuberante sinistra extraparlamentare, nata da pochi anni, è costretta a ridefinire impostazioni e percorsi: da un lato la “triplice” (Avanguardia Operaia, Partito di Unità Proletaria e Lotta Continua) e dall’altra i comitati autonomi, l’area dell’autonomia e poi, terzo fattore, che comincia proprio in quel frangente ad acquisire visibilità per le sue azioni prima eclatanti e poi sanguinose, il terrorismo di sinistra. La violenza politica è, evidentemente, uno dei temi discussi e all’ordine del giorno, non fosse altro che per il susseguirsi, via via sempre più frenetico, degli attentati e delle azioni violente. Ma sono anche gli anni della vittoria del referendum per il mantenimento della legge sul divorzio (1974), della grande avanzata elettorale delle sinistre istituzionali (PCI e PSI) nel 1975 e nel 1976 e poi dei governi di solidarietà nazionale, prima con astensione comunista e poi con adesione del PCI alla maggioranza. Tutto è raccontato e documentato, come tale susseguirsi di eventi fu vissuto, considerato, analizzato, dalla stampa della sinistra alla sinistra del PCI, con particolare attenzione, e questa è una novità interessante, del rapporto critico che un’area del movimento e dell’autonomia operaia cominciò a manifestare anche verso il gruppi della nuova sinistra, quelli della “triplice”. Molto interessante è la lettura e la comparazione tra il movimento del ’77 e quello del ’68. Si segnalano giustamente le differenze, più che le somiglianze, a partire da una valutazione della mutata composizione del soggetto sociale che si fa promotore di quel movimento. Si colgono elementi interessanti di critica feroce della politica che sfociano nell’abbandono della politica, nella valorizzazione estrema del personale, del "fai da te", della ricerca della libertà individuale, senza aspettare quella collettiva, che inizia ad assumere i toni di una ritirata da un modo che non si ama e che non si ha la forza o la pazienza di cambiarlo. E, infine, ultimo merito: quello di averci restituito, anche nei suoi aspetti cruenti o inattuali, lo “spirito di un tempo”, cioè le speranze, i desideri, le ingenuità che muovevano l’agire di quei soggetti. Il mondo lo volevano cambiare, rivoltandolo a fondo, non modernizzare come troppo spesso, col senno del poi ci viene ripetuto.

 Diego Giachetti