Prima e dopo la strage di stato
[Il '68] non fu un allegro festino. Lo stato non tardò a metter mano alla pistola. In Italia e in Europa. La tanto esecrata «società permissiva» colpì duro fin dall'inizio. E nel 1969 arrivò la bomba di Piazza Fontana
 

Sous le pavé, la plage !, recitava un poetico e famoso slogan francese. Chissà se anche sotto il selciato dell'Università di Roma - allora ne esisteva una sola, La Sapienza - i giovani della fotografia hanno trovato la loro spiaggia?
Una foto del '68: ci sono sassi, bastoni e assembramenti di giovani. Il clima non sembra particolarmente teso, ma di certo non ci troviamo in una strada della San Francisco della Summer of Love.
Il '68 fu anche violento: non soprattutto, come dicono i suoi detrattori, quelli per cui chiunque si ribelli, tanto più se decide di farlo nella strada, è un terrorista in erba. Ma non fu neanche un movimento pacifista, composto solo da giovani gentili, ma un po' inquieti, che chiedevano ai gruppi dirigenti di svecchiare la società, di farsi un po' più in la. Non fu un movimento pacifico che solo l'ideologia (e la ripresa del marxismo) rovinò e portò verso gli oscuri anni '70, come dicono alcuni ormai attempati personaggi, nostalgici della loro gioventù, quelli del breve '68, un movimento che durò lo spazio di un mattino. Il '68, la rivolta mondiale, iniziata anni prima in alcuni paesi, e poi continuata in altri, al di là dell'anno mirabile, fu anche violenta: fin dall'inizio. Ebbe la sua fascinazione per "il lato oscuro della forza", come la definisce Augusto Illuminati nel suo interessante (e divertente) libro sul '68 (Percorsi del '68. Il lato oscuro della forza, Derive Approdi, 2007). Fu un movimento di chi rispondeva "yes, we can", a chi gridava "ribellarsi è giusto".
Una violenza insieme politica e impolitica: la ribellione contro gli ordini costituiti, ma allo stesso tempo il rifiuto radicale dell'intero ordine del discorso, dei ruoli assegnati a ciascuno nella società, come individuo e come gruppo sociale. Una rivolta anche esistenziale, nella quale confluirono quelle subculture giovanili conflittuali emerse in diversi paesi a partire dalla fine degli anni '50.
Una rivolta nella quale il gesto simbolicamente pregnante, la radicalità dell'atto, in molti casi slegato dalla materialità delle sue conseguenze pratiche, assunsero una dimensione comunicativa e in alcuni casi ricca di una carica quasi erotica, come ricorda la testimonianza di uno studente americano sugli scontri nel campus dell'University of Wisconsin, vicino alla fabbrica di napalm della Dow Chemical, il 16 ottobre 1967.
"There was a strane surge of excitement, an aura of tremendous romantic upsurge in that terrifyng moment. I wouldn't call it erotic, but somehow you were in a new relation with all kind of people immediately around you. Women and men. It was so exciting that, to a degree, you lost your fear. Maybe because you were so angry about the war. Maybe because you would have missed the most important exciting moment in your life if you didn't"" (Ronald Fraser, 1968 A student Generation in Revolt, Chatto & Windus, 1988).
La violenza: fiumi di parole, pentimenti, la riscoperta delle canzoni dell'epoca, di vecchi documenti, di un linguaggio carico di aggressività e grondante, metaforicamente, sangue. In tutto questo però anche delle sorprendenti assenze, quasi che i movimenti di quegli anni esercitassero una violenza solipsistica, fuori da un contesto sociale e da una relazione concreta con altri attori sociali.
I poteri costituiti, quelli autorizzati a esercitare il monopolio dell'uso della forza. La usarono subito, spesso senza mezze misure. Spararono, quei poteri costituiti, già durante il '68, senza aspettare gli anni di piombo: a Avola, uccidendo due braccianti che scioperavano per poche lire nel paese del boom economico; oppure a Viareggio davanti a un locale notturno, La Bussola, per proteggere l'opulenta borghesia che si recava al cenone di fine d'anno, mentre alcuni giovani manifestanti ricordavano che per molto meno di quello che poteva costare quella festa i due braccianti siciliani erano stati ammazzati. Ma in questo l'Italia non rappresentò un caso straordinario. In Germania già l'anno precedente a Berlino, per proteggere la visita dello Scià di Persia, uno dei tanti sanguinari dittatori al potere per conto delle multinazionali occidentali del petrolio, la polizia aveva fatto uso di armi da fuoco, uccidendo lo studente Benno Ohnesorg; nel '68, invece fu un giovane imbianchino neonazista a ferire gravemente il più noto leader del movimento tedesco, Rudi Dutschke, dopo una forsennata campagna stampa di odio lanciata dai giornali dell'editore conservatore Axel Springer contro Dutschke e il movimento degli studenti. In Francia, il teatro del joli mai, della rivolta violenta e delle barricate, che però tutti ricordano come un conflitto miracolosamente concluso senza spargimenti di sangue, registrò davanti alle fabbriche occupate, a Flins e Sochaux, tre manifestanti uccisi. L'elenco potrebbe continuare a lungo, passando dai paesi occidentali a quelli orientali, per giungere infine in Messico, dove alla vigilia delle Olimpiadi si perpetrò la più selvaggia mattanza di quell'anno con la strage di Piazza delle tre culture.
Ma la violenza del potere non può ridursi alla drammatica contabilità dei morti : la politica del manganello fu una costante bipartisan, diremmo con lo stupido linguaggio politico odierno. Che si trattasse della polizia dei regimi "comunisti" [stalinisti] dell'Est o di quella delle "levigate e democratiche" società occidentali, la mano fu da subito pesante.
Ancora più pesante lo divenne in Italia l'anno dopo. Il 12 dicembre 1969, Piazza Fontana: l'assenza più imbarazzante quando si parla della violenza politica in Italia nella stagione dei movimenti. La vera anomalia, il vero caso italiano, non fu tanto quello di una conflittualità esasperata protrattasi per oltre un decennio, ma la bomba di Piazza Fontana: la strage delle 16.37 per la quale, già alle 22, il Prefetto di Milano, Mazza, può inviare un telegramma alla Presidenza del Consiglio e al Ministero dell'interno, "(...) Ipotesi attendibile che deve formularsi indirizza indagini verso gruppi anarcoidi et comunque frange estremiste. Est già iniziata previa intesa autorità giudiziaria vigorosa azione rivolta at identificazione et arresto responsabili. Nulla sarà trascurato in tal senso da polizia et arma carabinieri che agiscono stretta collaborazione per far luce su grave episodio".
Una strage, e dei colpevoli pronti, per chiudere quel biennio che aveva visto un livello di conflittualità senza eguali nel paese.
L'anomalia non sono i conflitti, sono le stragi che insanguinano l'Italia, quelle stragi per le quali esiste una sola certezza dal punto di vista giudiziario, confermata nei vari gradi dei processi, la responsabilità di apparati dello Stato nell'impedire l'accertamento della verità.
E poi, a quel tempo, c'erano i fascisti nelle strade, specialmente in quelle italiane. Quei fascisti che due anni prima, nella primavera del 1966, avevano già causato all'università di Roma, la morte del giovane studente Paolo Rossi; quei fascisti che allo scoppiare del movimento rimasero in alcuni casi interdetti, perfino affascinati, di fronte a quell'ondata di ribellione. Poi vennero i mazzieri di Almirante e Caradonna a ricordare, anche a quei giovani dubbiosi, che il posto dei fascisti era, come sempre, a fianco dell'ordine costituito: ordine e disciplina contro la marmaglia filocinese.
A proposito dei fascisti è curioso come nessuno faccia notare che nella storia italiana del dopo '68, il banale e falso luogo comune su una generazione di rivoluzionari che è andata al potere, andrebbe applicato, invece, a una buona parte di quella destra ex/post/a fascista che, senza essere mai stata rivoluzionaria, in ogni caso è riuscita nell'impresa di passare dalla violenza di strada alle poltrone ministeriali.
E' piena di sampietrini la foto: cubetti di porfido utilizzati per il rivestimento delle strade. Furono uno dei simboli del maggio francese quando, nella notte delle barricate, gli studenti con pazienza e metodo cartesiano disselciarono le strade del Quartiere Latino per prepararsi alla battaglia contro la polizia. I muri parigini erano pieni di manifesti che ricordavano come il pavé fosse la scheda elettorale per quelli che, minori di 21 anni, non potevano cadere nella "trappola per coglioni" delle elezioni.
I sampietrini, poi vennero le molotov e più tardi ancora le armi da fuoco nei cortei: a quel punto non restò che cantare, insieme a Gianfranco Manfredi: "Ultimo mohicano / sampietrino in mano / non c'è più polizia / ora a chi lo tiro? / vado a fare un giro, / entro in un caffè" (Ultimo mohicano).

Marco Grispigni, "il manifesto", 5 aprile 2008