Andrea Rapini, "Antifascismo e cittadinanza. Giovani, identità e memorie nell’Italia repubblicana", Bologna, Bononia University Press, 2005, pp. 246, euro 19.00

Il libro di Andrea Rapini lascia un bisogno compulsivo di ragionare, riflettere, pensare, costruire ipotesi di ricerca e stabilire correlazioni inedite fra fenomeni storici e sociali. Il tema, sviluppato intersecando la metodologia storica con gli strumenti concettuali in uso presso la sociologia e la scienza politica, è “intrigante” e avvincente. La ricerca propone un escursus sui modi di interpretare il passato (la Resistenza) da parte di due segmenti giovanili costituiti da coloro che parteciparono attivamente ai movimenti sociali del luglio 1960 e del ’68. L’idea, suggestiva nonché ricca e prolifica di implicazioni, è quella della giuntura stretta tra memoria e generazione. Ogni generazione ricostruisce il passato a secondo dei bisogni e dei contesti storici politici nella quale si trova ad operare. La memoria storica non è un lascito da museo, ma è una scoperta-ricostruzione da parte della nuova generazione da cui attingere qualcosa di utile, per affrontare i problemi e le situazioni nelle quali si trova a vivere; è quindi una memoria storica che serve innanzi tutto alla vita.
Storicamente, precisa l’autore, l’antifascismo nasce alla fine della Grande Guerra, contemporaneamente al fascismo, dopo l’8 settembre 1943 esso assume le caratteristiche della Resistenza, per concludersi con la liberazione. Nella storia lunga dell’antifascismo la Liberazione appare come un’esperienza bifronte, segna la chiusura della lotta partigiana e con essa dell’antifascismo storico; inaugura il capitolo inedito del rapporto stringente tra antifascismo e cittadinanza democratica. La prima pagina di questo nuovo capitolo è rappresentato dalla Costituzione, la quale, secondo Piero Calamandrei, altro non è “che lo spirito della Resistenza tradotto in formule giuridiche”. Se la Costituzione sostanzia la frattura con il passato totalitario, la situazione storica del secondo dopoguerra, che vede l’inserimento dell’Italia nel blocco Atlantico e nel mondo occidentale, con una democrazia preventivamente “protetta” dal pericolo comunista, congela, relegandola al suo aspetto formale, la carta costituzionale e lascia prevalere la moltiplicazione di elementi di continuità col vecchio regime statuale su più piani: amministrativo, giuridico, politico.
Negli anni Cinquanta la memoria della Resistenza è congelata malgrado essa sia viva tra gruppi di giovani nati attorno alla seconda guerra mondiale. Si tratta per lo più di una memoria individuale, non socializzata e collettiva, che unendosi ai significati simbolici del consumo giovanile, concorre a definire e a esprimere l’identità dei giovani dalle magliette a strisce nel corso delle lotte contro il congresso del Msi a Genova e il governo Tambroni nei mesi di giugno e luglio del 1960. Quell’evento evidenziava due potenzialità nuove. Emergeva sulla scena un soggetto politico giovanile con stili di vita e bisogni autonomi dagli adulti, alla ricerca di spazi di socializzazione con i propri pari, di canali autonomi di comunicazione, di linguaggi originali. Quel soggetto giovanile si apprestava a rileggere e a ridare significato nuovo alla Resistenza e all’antifascismo. Prendeva corpo un antifascismo che andava oltre il problema del fascismo come fenomeno storico per innervarsi con le domande di riconoscimento dei propri diritti da parte dei giovani. Una minoranza di questi giovani s’impegnò direttamente nell’antifascismo, dando vita all’associazione Nuova Resistenza che chiedeva lo scioglimento del MSI, l’insegnamento della Resistenza nelle scuole, il riconoscimento degli organismi studenteschi. In quegli anni si ebbero nuove raffigurazioni della Resistenza: celebrata, tradita, fallita, incompiuta. Per il centro sinistra, appena salito al governo, essa diventava elemento legittimante e fondativo. E’ in quegli anni che il 25 aprile assume un ruolo celebrativo centrale e che il ministero estende lo studio della storia nelle superiori fino al 1947.
La maggioranza della nuova generazione degli anni Sessanta però rimase escluso da questa esperienza, crebbe nel disinteresse alla tematica antifascista e alle narrazioni della Resistenza. Era come se l’antifascismo fosse incapace in quegli anni di penetrare nell’immaginario, di entrare nel patrimonio attivo della generazione del boom, dello sviluppo modernizzante, del consumo. Così, i giovani che scoprirono la politica col movimento studentesco sembravano ignorare la tematica antifascista. Altri furono infatti i valori e i riferimenti del movimento del ‘68: l’antiautoritarismo, l’antimperialismo, il terzomondismo e l’anticapitalismo operaista. Cert, nell’ambito della denuncia dell’autoritarismo, ricomparve la parola fascista, ma era completamente destoricizzata, sinonimo di autorità senza autorevolezza, repressiva. Fascista era il Rettore che chiedeva l’intervento della polizia nell’università occupata, il Preside che impediva l’assemblea o sospendeva gli studenti più “agitati”, il padre che non lasciava uscire la figlia la sera.
Le cose cambiarono nettamente dopo la strage alla banca dell’Agricoltura in Piazza Fontana a Milano il 12 dicembre 1969. Quella strage e la seguente strategia della tensione contribuirono alla riscoperta da parte dei movimenti giovanili ed extraparlamentari dell’antifascismo, nella versione militante come fu chiamato in polemica con quello istituzionale e il suo carattere retorico ed impotente di fronte al dilagare della violenza fascista. Esso ebbe due caratteristiche peculiari: il richiamo alla componente di classe, riconducibile all’incontro con la tradizione storica dell’antifascismo operaio, che aveva coniugato la lotta al fascismo con quella al padrone; la tematizzazione e il ricorso a forme varie di uso della forza che potevano contemplare la protezione dei cortei e dei militanti da parte dei servizi d’ordine, lo scontro frontale con i fascisti, il sabotaggio dei comizi del Msi, l’espulsione dei sindacati fascisti dalle fabbriche. Detto questo, sarebbe sbagliato però, come oggi si tende a fare in servizi giornalistici frettolosi, ridurlo unicamente ad un fenomeno di manifestazione di violenza esagerata e gratuita. Quell’antifascismo ebbe sempre, come giustamente sottolinea Rapini, una dimensione sociale, nel senso di allargamento della democrazia e dell’inclusione sociale, di riduzione dei privilegi e conquista dei diritti per i subalterni.
 L’effetto sulla storiografia di questo antifascismo ritrovato fu notevole. Crebbe una nuova leva di giovani estranei alla stagione dei fascismi, severi tanto verso il presente quanto verso il passato della società dei padri, spinti a rileggere l’esperienza storica della lotta al fascismo alla ricerca delle zone oscure di quel passaggio, delle sue contraddizioni e aporie. Una nuova storiografia filtrò nelle accademie, negli istituti di ricerca, nelle fondazioni, nelle riviste di storia. La storia traeva dalla politica, dalla lotta, dalla ribellione giovanile importanti sollecitazioni e le restituiva ad essa con argomenti e arnesi culturali che si inserirono con autorevolezza nel discorso pubblico sull’antifascismo e andarono a rafforzare le identità culturali.
Fu soprattutto l’Istituto Nazionale per la storia del Movimento di Liberazione in Italia ad investire con decisione sullo svecchiamento anagrafico e storiografico. Dal 1973 l’Istituto, sotto la presidenza di Guido Quazza, che aveva appena sostituito Ferruccio Parri, decise di rivolgersi ad un pubblico di giovani e di studiosi cresciuti attraverso le sollecitazioni politiche e culturali dell’ultimo decennio. Si focalizzò l’attenzione sul passaggio dal fascismo alla democrazia, per segnalare gli elementi di continuità dello Stato e per calare le vicende del 1943-45 nell’intera storia nazionale. Lo studio della Resistenza uscì profondamente rinnovata nei metodi, nelle fonti, negli oggetti, nella didattica. In questo brodo di cultura nacque, ad esempio, la riflessione di Claudio Pavone.
Quel tipo di antifascismo fini quando si esaurì il ciclo di lotte degli anni Settanta, riassunti da Rapini come uno dei pochi momenti della storia italiana in cui strati significativi della popolazione parteciparono attivamente alla costruzione della politica e della storia. Già nella seconda metà di quel decennio, quando l’antifascismo segnava il suo apogeo, cominciò a stemperarsi nel significato linguistico. Si perse in una babelica lotta di definizioni, di citazioni incrociate e contraddittorie, fino a produrre un “vero e proprio crack semantico”, dato dall’incapacità di indicare un orizzonte di senso chiaro e nitido. Nuovamente depotenziato, anodino, distante, l’antifascismo tornò ad essere, negli anni seguenti, un rituale per i partiti e le istituzioni, un elemento inespressivo per le nuove generazioni e i nuovi movimento sociali, attratti da altri bisogni, desideri e da altri codici.

Diego Giachetti