Luigi Di Lembo, "Guerra di classe e lotta umana. L'anarchismo in Italia dal biennio rosso alla guerra di Spagna (1919-1939), Bfs, 2002

Gigi Di Lembo è uno storico dell’anarchismo che rifugge dalle accademie e dai luoghi comuni fiorenti nell’ambiente universitario, dove insegna, e che vanno attecchendo anche nel movimento a cui dedica da decenni il suo impegno militante e i suoi consigli di buon senso “malatestiano”. Gigi è anche per molti giovani storici e compagni un “amico” nel senso profondo e polisemico della parola: consulente, confidente, critico benevolo, contraddittore, alleato prezioso e, non ultimo, di piacevole compagnia. Queste qualità umane si riflettono nel suo ultimo libro, Guerra di classe e lotta umana. L’anarchismo in Italia dal biennio rosso alla guerra di Spagna (1919-1939), apparso recentemente per i tipi della BFS di Pisa, che solo riduttivamente può essere definito un capolavoro della storiografia sull’anarchismo italiano (e scusate se è poco!), ma che è soprattutto espressione di una grande disponibilità al confronto e allo scambio comunicativo su un terreno, quello storico, che sembrerebbe negarli. Ne emerge un’opera “aperta”, fertile, discontinua ma armonica, e letterariamente suggestiva: miracolo occorso a pochissimi storici di vaglia. E qui il pensiero va subito a Pier Carlo Masini, della cui Storia degli anarchici italiani, che s’interrompe alla vigilia della prima guerra mondiale, il libro di Di Lembo costituisce il naturale prolungamento.
Guerra di classe e lotta umana regge brillantemente il confronto con la Storia di Masini. Quest’ultimo era un inarrivabile e forbito narratore, cesellatore del dettaglio preciso, razionalista meticoloso, erudito compiaciuto e compiacente, finanche a scapito della completezza dei fatti e delle idee che tratteggiava. Ben pochi avrebbero potuto competere con lui su quei terreni. Ma talvolta egli si dimostrava uno scrittore partigiano (di quella tendenza politica o di quel personaggio che più lo attraeva). Di Lembo non lo imita in questo: accanto alle proprie, infatti, riporta e discute le convinzioni di altri. Magistrali in tal senso le pagine sul “fronte unico rivoluzionario” e particolarmente la critica che vi svolge in rapporto al fallimento del movimento delle occupazioni nelle fabbriche (pp. 89-92).
Masini di tanto in tanto sfornava giudizi apodittici, considerazioni definitive, lì dove Di Lembo avrebbe posto e pone efficaci interrogativi. Come quando tenta di spiegare (p. 94 ma più avanti vi tornerà sopra) la tenuta del movimento anarchico dopo l’arresto di Malatesta e della redazione di “Umanità Nova” al completo, con l’abitudine «ad agire sulla base dell’iniziativa individuale e su quella dei contatti personali tra elementi che si conoscevano a fondo, e non sulla base di organismi che comunque lasciano tracce». In tal modo rimette in discussione quell’opinione, prevalente tra gli storici dell’anarchismo, che attribuisce all’organizzazione strutturata quei benefici che nega invece alla libera iniziativa dei singoli e dei gruppi. Di Lembo preferisce tenersi lontano dalle dispute tra le varie tendenze; punta piuttosto a evidenziare le responsabilità comuni. Come, ad esempio, per la rottura consumata al congresso di Ancona del 1921 tra l’Unione Anarchica Italiana e l’”Avvenire Anarchico”, il maggiore organo degli antiorganizzatori: pur considerando l’iniziativa come “formalmente legittima”, egli non manca di definirla politicamente “dissennata” (p. 124).
Il confronto con la Storia di Masini consente di mettere a fuoco quello che, a mio avviso, è il pregio maggiore del libro di Di Lembo. Masini era alla ricerca di una linea evolutiva dell’anarchismo italiano, alla quale sacrificava sovente i frammenti di alternative marginali eppur congeniali alla stessa comprensione. Di Lembo, se lo spazio glielo consentisse, non smetterebbe di raccontarci degli infiniti rivoli e delle innumerevoli storie “minime” che rendono il movimento anarchico inafferrabile alla morsa di qualsivoglia potere e impermeabile alle facili classificazioni: rivoli e storie che spesso racchiudono tesori di concreta utopia, che attendono oggi d’essere riscoperti, studiati e reimmessi nel dibattito politico. Egli pure focalizza l’attenzione su di una possibile linea evolutiva dell’anarchismo italiano che trae origine dall’”anarchismo realizzatore” dell’ultimo Malatesta, così felicemente sintetizzato: «1) Tutte le istituzioni vigenti sono una risposta, sia pure in chiave di potere, a necessità reali. Si possono quindi sostituire con successo solo avendo concrete alternative.
2) All’anarchismo non si arriva con una rivoluzione ma con un succedersi di rivoluzioni che gradualmente approssiminino ad una società anarchica. 3) Ogni rivoluzione si avvicinerà tanto più all’ideale quanto più gli anarchici riusciranno ad immettere soluzioni libertarie alle necessità della società in cui vivono, da ricercare e da sperimentare» (p. 145). A tale concezione affianca quelle di Gigi Damiani, secondo cui gli anarchici avrebbero dovuto farsi «portatori di lotte per la libertà. Quella libertà, in quel momento, si traduceva concretamente nella lotta per il federalismo più ampio, sociale, economico, politico» (p. 146), e di Camillo Berneri, che «cercò di rompere il dualismo urbano proletariato-borghesia, in cui si era cacciato anche l’anarchismo, ridando importanza agli strati intermedi e a quelli popolari e contadini» e individuando il potere dello Stato nella funzione amministrativa «che lo Stato pretendeva di assolvere, e in verità assolveva, ma nel modo più accentrato. La distruzione dello Stato implicava quindi l’assunzione delle insopprimibili funzioni amministrative da parte della società dei produttori» (p. 180). L’anarchismo insurrezionalista e classista ottocentesco si trovò tutto d’un tratto messo alle corde. Quelle idee fornivano infatti al comunismo antistatalista degli anarchici, emancipato dagli influssi marxisti, una nuova base teorica e progettuale, imperniata sull’autonomia dei liberi comuni e sull’autogestione delle fabbriche. Non riusciranno tuttavia ad imporsi e con esse sfumerà, nel secondo dopoguerra, gran parte della presunta evoluzione dell’anarchismo. Come ricorda lo stesso Di Lembo, a proposito del federalismo di Berneri, «non è che queste idee convincessero tutti né che passassero tranquillamente … né che Berneri fosse la guida spirituale dell’anarchismo dell’epoca». Gigi da un lato giunge a relativizzare (e umanizzare) il pensiero di giganti come Malatesta, Damiani e Berneri, sottoponendolo alla prova dei fatti e al giudizio impietoso della storia, dall’altro lato però lo ripropone criticamente all’attenzione dei compagni e degli studiosi. Quanto queste due formule, lotta di classe e lotta umana, corrispondono all’essenza stessa dell’anarchismo? Quanta influenza hanno avuto nella storia degli anarchici italiani? È possibile ed auspicabile una convivenza fra loro? Questi sono nodi non solo storiografici ma culturali e politici che il movimento anarchico esita a riconoscere e a sciogliere ancora oggi..
È quella dell’attenzione ai temi interni e alle prospettive di sviluppo dell’anarchismo di ieri e di oggi, un’altra delle costanti del lavoro di Di Lembo, che si stacca pertanto non solo più da Masini ma da tutti quegli storici che tendono a relegare la storia … ai libri di storia, e limitarne il suo uso sociale e politico, con la scusa ch’essa sia irripetibile o che trascenda inevitabilmente in letture faziose e inattuali. «La storia – disse Franco Della Peruta in un convegno tenutosi a Palermo nel 1995 – non serve a niente, perché non è maestra di vita, non riesce a far evitare gli errori che si sono compiuti nel passato, aiuta come dice un mio amico storico a fare le parole incrociate, questo sì, se volete, può però aiutare a dare la coscienza della propria identità, un senso critico, ad affrontare il mondo che ci circonda che è fatto di politica, di economia, di rapporti sociali, con un maggiore tasso di applicazione della ragione». Sono parole che hanno ricadute notevoli sul mestiere di storico. Inducono tra l’altro ad abbandonare le superfici levigate e ad addentrarsi nei labirinti del pensiero e dell’agire umano. Se ne colgono talvolta delle perle di saggezza, come a p. 37 del nostro libro: «Le guerre, se hanno sempre portato idee nuove e spesso di libertà, non hanno mai portato pratiche di libertà. Come si andavano accorgendo con allarme gli anarchici, spinta ribellistica e propensione alla delega non sembravano in contrasto …» Oppure ispirano osservazioni critiche di notevole spessore, come quando Di Lembo lamenta in campo anarchico l’insufficienza di analisi e di previsione del fenomeno fascista (pp. 124-128), seppur non comparabile con la miopia costituzionale di altri movimenti politici, il comunista in primo luogo; e come quando indugia, divertito e indispettito a un tempo, sui “granchi” presi da Armando Borghi di nuovo sul fascismo, sulla rivoluzione russa, sul mito dell’unità operaia, ecc. Ma neanche Damiani, per il quale Di Lembo nutre una trasparente simpatia, viene risparmiato: si noti quella frase lapidaria («In realtà, a osare di lì a qualche giorno sarà Giolitti») con la quale liquida una lunga e retorica tirata dello stesso Damiani (pp. 85-86) che chiamava gli anarchici, provati dal fallimento delle occupazioni, a “osare” nuovamente, mossi da «una forza che essi stessi hanno il torto di non voler riconoscere»(?).
Possiamo in conclusione affermare che questo libro sia privo di difetti? Ma nemmeno per sogno. Tra le numerosissime e vistose lacune, occorre segnalare qui quella che riguarda le vicende dell’anarchismo nel Meridione d’Italia, che di suo già sconta una carenza di bibliografia specializzata e di ricerche locali; e soprattutto deplorare il silenzio sugli episodi d’incessante seppur sotterranea resistenza al fascismo da parte degli anarchici rimasti in Italia durante il ventennio. Lacune imperdonabili, se Di Lembo avesse avuto la pretesa di “esaurire” l’argomento e la predisposizione mentale a farlo. Trascurabili invece per un’opera che tra i suoi principali obiettivi, oltre a indicare un indirizzo metodologico coinvolgente e rispettoso delle diversità, contempla quello di suscitare nuove e più accurate indagini che un’affrettata e onnicomprensiva ricostruzione avrebbe potuto inibire. Non è forse anche questa una scelta di campo nel segno della lotta per la libertà?

Natale Musarra, da "A rivista anarchica", N. 284, ottobre 2002