Il 68 ha perso perché rifiutava le riforme? Ma no, era la sua forza
 

Una precisazione, prima di tutto. Di Sessantotto ce ne sono stati tanti, ognuno con le proprie specificità. Sarebbe un'impresa ardua voler ridurre a unico fenomeno il movimento studentesco dei College negli Usa assieme a quello francese del Maggio o al lungo '68 italiano o, ancora, a quello tedesco, per non parlare di quello che succedeva nei paesi dell'Est a socialismo reale. Ieri, però, in una tavola rotonda organizzata dal Centro studi Livio Maitan si è parlato soprattutto del caso Italia, delle grandi occasioni mancate, di una rivoluzione attesa e fallita.
Due giorni di discussione, "Cosa vogliamo? Vogliamo tutto!", divisa per temi, l'Europa dell'est, il lungo ciclo di lotte studentesche e operaie in Italia, la rivolta in Occidente - con studiosi italiani, Antonio Moscato, Emanuela Vita, Diego Giachetti, Augusto Illuminati, Massimiliano Tomba, Marco Scavino, Lidia Cirillo, Marica Tolomelli e, per gli ospiti stranieri, Zbigniew Kowalewski e Daniel Bensaid.
Altra precisazione. Quando parliamo del '68 non ci dilettiamo solo con una esercitazione accademica di storia. Ne va invece di un'occasione mancata - tanti hanno usato questa definizione - che ci proietta inevitabilmente sul confronto con la nostra attualità, con la debolezza della sinistra, con la perdita di radicalità della politica e con la crisi della rappresentanza sociale. E allora la domanda che sorge spontanea è: perché il '68 ha perso? Hanno provato a rispondere nella tavola rotonda di cui si diceva prima, Paolo Flores d'Arcais, Franco Piperno, Alan Krivine e Franco Russo, tutti protagonisti in prima persona delle contestazioni studentesche e operaie di quarant'anni fa.
Chiaro, non si arriverà mai a un'unica diagnosi del fallimento del '68. Anzi, ci si divide persino sul giudizio se quel movimento abbia davvero perso e se abbia fallito per limiti propri o per la forza dei suoi avversari. Paolo Flores d'Arcais, attuale direttore di MicroMega, è convinto per esempio che quel movimento non abbia saputo sfruttare la propria forza per incidere politicamente e chiedere riforme della società. La stragrande maggioranza dei gruppi dirigenti sessantottini veniva dalle culture del marxismo eretico e avrebbero continuato a trascinarsi dietro le categorie di quelle eresie e con quelle avrebbero insistito a leggere la realtà. Certo, la storia della sinistra extraparlamentare è piena di divisioni - operaisti, troskisti, maoisti - e le scissioni si riproducevano all'infinito all'interno di ogni gruppo. «Ma tutti - sostiene d'Arcais - avevano in comune un'unica ossessione: quella di non essere "recuperati", di non essere manipolati e riassorbiti dentro il sistema del riformismo. E di conseguenza il '68 non poteva e non voleva per la sua matrice politica porsi obiettivi per i quali lottare fino alla loro realizzazione». E' come se il Sessantotto abbia dissipato la sua forza, l'accumulo di cultura e di penetrazione nella società italiana, per paura di essere inglobato nella normale logica delle cose che si riproducono così come sono. Se questo è vero, i sessantottini non avrebbero capito una cosa essenziale, che per quanto forte un movimento possa essere non può sottrarsi dal rivendicare riforme, diritti, modifiche di struttura della società. Come dire: o la conquista di casematte, di roccaforti o l'inevitabile destino di ritrovarsi, alla lunga, con un pugno di mosche in mano. Non è un caso che in questi anni di offensiva liberista la destra si sia scagliata contro quelle conquiste che ai sessantottini apparivano come cascami trascurabili del riformismo: lo Statuto dei lavoratori, l'autonomia della magistratura, la libertà dell'informazione, solo per fare pochi esempi di diritti civili che oggi sembrano sovversivi. Non solo, questa incapacità del movimento di allora di porre rivendicazioni - dice ancora d'Arcais - ha avuto un retroeffetto sugli stessi gruppi extraparlamentari, ne ha inibito la capacità di fare politica e ha finito per decretarne la trasformazione in piccoli partiti ossificati. «Il '68 non è stato sconfitto. Piuttosto si è lentamente estinto. Sartre lo aveva profetizzato. Quei gruppi erano riusciti all'inizio a staccarsi dalla tradizione burocratica dei partiti del movimento operaio, avevano realizzato, in termini sartriani, il "gruppo in fusione". Ma se poi non ti inventi qualcosa di nuovo, si finisce daccapo nella burocrazia. Noi non ne fummo capaci».
Altro Sessantotto, altra storia, altra versione, quella di Franco Piperno, uno dei leader della contestazione studentesca, poi fondatore del gruppo Potere Operaio. Agli antipodi. Spiega che non si può leggere il '68 con gli occhi di oggi, con il punto di vista delle «persone che oggi siamo diventati». Il Sessantotto «non ha mai prodotto una tematica della presa del potere. Non è stata la sua debolezza. E' stata la sua forza, al contrario». Semmai, sostiene Piperno, il Sessantotto squadernò il modo di fare politica e questo suo non chiedere riforme ai rappresentanti istituzionali mise in crisi i partiti di allora, il Pci, il governo, il sindacato. Era l'affermazione immediata di sé e della propria autonomia, indisponibile alle mediazioni e a farsi rappresentare da qualcun altro. «I partiti cercano subito soluzioni, vogliono rappresentarti, agiscono nel parlamento e nel governo. Noi no, i nostri problemi volevamo risolverceli da soli. Non chiedevamo leggi ma affermavamo pratiche senza mediazioni. Sul modello di quello che poi avrebbe fatto il movimento femminista. La nostra forza non è stata quella dichiedere, ma di fare».
E starebbe nella natura di tutti i movimenti di preoccuparsi, in prima istanza, della propria autonomia, di fare assemblee, di autorganizzarsi e di nominare i propri delegati. «Lo sbocco del '68 - continua Piperno - non era e non poteva essere il parlamento. Noi abbiamo prodotto soprattutto relazioni soggettive, civili, sociali. E abbiamo un immenso, faticoso lavoro culturale nella società». Li elenca, Piperno, i fronti della battaglia culturale. Persino gli scontri di piazza, gli scontri "militari", erano parte di un lavoro simbolico. Valle Giulia è il simbolo per eccellenza del nuovo soggetto, degli studenti che per la prima volta non ci stanno a essere pestati senza reagire e si difendono affermando il proprio diritto a esistere. C'è poi il lavoro culturale della critica al regime di produzione capitalistico, allo sfruttamento della fabbrica. Ma c'è anche l'altro fronte della critica culturale, quella diretta contro «l'opposizione istituzionale», contro il marxismo ingessato del Pci e del sindacato. «Siamo andati a cercare un Marx alternativo negli scritti della maturità, nella Critica al programma di Gotha , o all'opposto, negli scritti giovanili». E poi, ancora, la critica allo "sviluppismo", all'idea che per rivoluzionare la società bisognasse semplicemente fare più fabbriche - idea da cui non era immune il Pci. E last but not least, la critica alla non neutralità della scienza che «è complice della guerra nella sua stessa struttura».
Insomma, il '68 è stata una grande occasione mancata, lo ripete anche Franco Russo. Ma è dipeso dalla «nostra incapacità di inventarci categorie nuove, di riarticolare il problema della rappresentanza, del rapporto tra politica e società, come ha saputo invece fare il femminismo. Il movimento si è arenato nei gruppi politici che si sono richiusi nelle vecchie categorie alla ricerca di sicurezza».
Di una cosa, però, non si può dubitare. Oggi come allora - dice Alain Krivine, fieramente troskista - abbiamo di fronte un capitalismo temibile. Anzi, forse più potente, un capitalismo che ha dichiarato guerra al movimento operaio e ai popoli della terra. «Non è vero che la classe operaia è scomparsa, oggi è addirittura più nnumerosa ma è molto più eterogenea che allora. Guai a chiuderci in una nicchia. Dobbiamo pensare a un'unità d'azione anche con la sinistra riformista. E persino il problema di andare al governo non deve essere un tabu. Ma bisogna vedere a quali condizioni».

Tonino Bucci "Liberazione", 2 febbraio 2008