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modifica 2005-01-20 18:28
Contributo
di NICO HIRTT (École démocratique, Belgio) al convegno "La scuola che
vogliamo" - Genova, 27 novembre 2004
Affronterò,
nell’ordine, tre questioni. Innanzitutto, mi propongo di approfondire e di
specificare la natura delle trasformazioni economiche che si celano dietro
l’eufemismo “globalizzazione”; in seguito, cercherò di chiarire le implicazioni
che tali mutamenti comportano sulle politiche educative dei paesi
industrializzati in generale e dell’Unione Europea in particolare; infine,
concluderò evidenziando le conseguenze di tali politiche, soprattutto
nell’ambito della democratizzazione dell’insegnamento.
Il
tempo limitato a mia disposizione mi costringe mio malgrado a formulare tesi
senza poter articolare né affinare gli argomenti trattati per mezzo di
un’analisi contraddittoria né, tanto meno, arricchirle con citazioni o esempi
concreti. Per questo, rimando a mie pubblicazioni recenti.
LA
GLOBALIZZAZIONE COME ESPRESSIONE DELLA CRISI DEL CAPITALISMO
Alcuni
ritengono – e più volte abbiamo potuto ascoltare questa opinione persino alle
riunioni del Forum Sociale Europeo – che la globalizzazione sarebbe
l’espressione di una forza rinnovata del capitalismo, l’espressione di un
neoliberalismo trionfante proiettato verso una conquista irreversibile
dell’economia mondiale e sostenuto da rapporti di forza estremamente
favorevoli.
Nulla
di più falso. Al contrario, la globalizzazione è soprattutto il segnale e la
conseguenza della crisi internazionale del capitalismo, dell’esasperazione
delle contraddizioni al suo interno. Tale crisi è molteplice e conviene
analizzarne i vari aspetti.
Si
tratta, in primo luogo, di una formidabile crisi di sovracapacità produttiva,
nel senso più classico dell’analisi marxista. Se si considerano la durata di
tale crisi (oltre 25 anni), le conseguenze economiche e sociali nonché
l’estensione mondiale, si osserva che si tratta della più lunga, più profonda e
più vasta crisi di sovrapproduzione nella storia del capitalismo. A partire
dalla fine degli anni settanta, le capacità produttive sono state ampiamente
sottoutilizzate. Negli Stati Uniti, per esempio, si valuta che tali capacità
vengano sfruttate per non oltre il 70%; ciò significa che l’economia
capitalistica sarebbe oggi in grado di aumentare la propria produzione di beni
e di servizi di almeno il 40%, ma che non lo fa per l’impossibilità di trovare
un mercato a tale produzione supplementare.
La
forma più visibile di tale crisi è rappresentata dalla caduta generale dei
tassi d’interesse, quindi del rendimento dei capitali. Per una quindicina
d’anni, gli investitori si sono rifugiati in investimenti speculativi; per un
periodo limitato essi hanno potuto approfittare di tassi d’interesse elevati
strappati agli stati debitori e alle imprese che speravano di “rifarsi” grazie
al prestito. La bolla di sapone finanziaria, però, è scoppiata, svelando il
carattere fittizio dei profitti accumulati.
La
causa e, al contempo, il motore di tale crisi è l’innovazione tecnologica.
Quest’ultima costituisce, dal punto di vista dell’impresa, il mezzo per
eccellenza per migliorare la produttività – maggiore produzione a minor costo –
e per conquistare nuovi mercati in settori a basso utilizzo di manodopera
(informatica, comunicazione, energia, insegnamento a distanza.....). Tuttavia,
lo smantellamento dell’impiego che ne deriva a livello “globale” ridimensiona
il potere d’acquisto e impedisce di trasformare i guadagni provenienti dalla
produttività in profitti durevoli.
Per
ritrovare tassi di rendimento in grado di giustificare la propria sopravvivenza
agli occhi degli investitori, l’impresa non ha altra soluzione se non quella di
ricorrere alla ricerca costante di profitti derivanti dalla produttività, quindi
all’innovazione tecnologica. L’insieme, però, di tali ricerche individuali ha,
sul piano macroeconomico, l’effetto esattamente opposto all’obiettivo previsto:
i tassi d’interesse crollano in maniera irrimediabile. Questa contraddizione
fondamentale del capitalismo oggi è esasperata e autoalimentata a livelli senza
precedenti.
Del
resto, essa colpisce con la stessa forza e la stessa determinazione a livello
di entità territoriali. I poteri pubblici di ogni continente, paese, regione o
comune cercano in vano di privilegiare una propria attrattiva agli occhi degli
investitori, soprattutto praticando una politica di riduzione fiscale.
Considerato però che tutti sono costretti ad operare la medesima scelta, si è
venuta a creare una spaventosa spirale di defiscalizzazione competitiva in cui
si trovano coinvolti tutti gli Stati, così come i poteri locali o regionali.
Di
conseguenza, la crisi del capitale si somma a una crisi delle finanze
pubbliche. Il ricorso alla privatizzazione di attività pubblica crea certamente,
in maniera temporanea, risucchi d’aria in cui vengono inghiottiti una parte dei
capitali eccedenti, ma la privatizzazione si accompagna nuovamente a ulteriori
razionalizzazioni, quindi perdite di posti di lavoro che, alla fine, rafforzano
la sovracapacità produttiva generalizzata.
La
crisi, lo si è capito, è anche di tipo sociale. La contraddizione è ormai
totale tra, da una parte, le promesse di benessere di cui sembrano portatori
gli ammirevoli progressi tecnologici e scientifici e, dall’altra, la miseria in
cui il sistema rinchiude masse crescenti di abitanti del pianeta. Una forma
particolare di tale contraddizione è quella che oppone l’immagine fittizia di
una società detta della “conoscenza” e la realtà di un mercato del lavoro che
reclama paradossalmente sempre più manodopera poco o per nulla qualificata.
Infine,
il capitalismo si è anche “incagliato” in una crisi ideologica, in una crisi di
valori. Per assicurare la viabilità delle società e l’accettazione, da parte
degli oppressi, del proprio destino, il sistema capitalistico si era dotato, un
tempo, di un gioco complesso di valori morali e sociali: obbedienza
all’autorità, disciplina, patriottismo, educazione, igiene, “buona istruzione”
dei bambini, religione, rispetto della proprietà, amore per la scienza e per il
progresso, venerazione delle belle arti e della cultura elitaria ecc. Ma tutto
questo pantheon idealista si trova ormai soppiantanto dall’unico vero dio della
società capitalistica: il profitto, immediato e individuale. Che i giovani
vengano subissati di immagini violente, pornografiche, che venga presa in giro
ogni forma di autorità che non sia la forza brutale, ogni valore che non sia la
felicità individuale ed immediata... tutto ciò non ha molto peso rispetto agli
imperativi di reddittività degli inserzionisti pubblicitari, delle
multinazionali dell’audiovisivo e dell’industria del gioco.
LA POLITICA EDUCATIVA
EUROPEA, TENTATIVO DISPERATO DI SALVARE IL CAPITALE CON LA SCUOLA
Ora
che abbiamo chiarito il contesto, possiamo cercare di collocarvi e inserirvi la
politica educativa europea comune emersa a partire dall’epoca di transizione
degli anni ’80-’90. L’espressione “politica educativa europea” è d’altronde,
probabilmente, eccessiva. Se esiste effettivamente una politica comune, non è
tanto il frutto di una volontà di convergenza europea (che comunque
effettivamente esiste) quanto il risultato della profonda identità delle
condizioni oggettive enumerate più sopra e della loro forza preponderante
nell’evoluzione delle politiche d’insegnamento.
Tuttavia,
lo studio dei documenti prodotti da diverse istanze europee in materia
d’istruzione – la Commissione e il Consiglio ma anche alcune lobby come la
Tavola Rotonda Europea degli industriali – è particolarmente illuminante. Non
essendo tenuti a rendere conto ad alcuna opinione pubblica, tali organismi, di
fatto, affermano spesso forte e chiaro ciò che altri possono soltanto
permettersi di suggerire in privato. Grazie alla propria posizione
sovranazionale, essi sono così indotti a dettare le direttive comuni, quindi
centrali, sulle politiche educative, astraendole dai vincoli e dalle
specificità nazionali. Citiamo, tra i più importanti, alcuni di tali documenti:
§
Istruzione
e competenza in Europa, Studio Tavola Rotonda Europea sull’istruzione e la
formazione in Europa, 1989
§
Un’istruzione
europea. Verso una società che impara, seconda edizione, Tavola Rotonda
degli Industriali Europei (1995)
§
Insegnare
e apprendere, verso la società cognitiva, Libro bianco sull’istruzione.
Bruxelles, Commissione delle Comunità Europee (1995)
§
Portare
a compimento l’Europa tramite l’Istruzione e la Formazione, rapporto del
Gruppo di Riflessione sull’istruzione e la formazione, Riassunto e
raccomandazioni, Commissione Europea (1996)
§
Apprendere
nella società dell’informazione, Piano d’azione per un’iniziativa europea
nell’istruzione 1996-1998, Bruxelles, Commissione delle Comuinità Europee
(1996).
§
Per
un’Europa della conoscenza, Comunicazione della Commissione Europea Commissione
Europea (1997).
§
Memorandum
sull’istruzione ela formazione nell’arco di tutta la vita, SEC(2000) 1832.
Bruxelles, Commissione delle Comunità Europee (2000).
§
Gli
obiettivi concreti futuri dei sistemi di istruzione, Rapporto della
Commissione Europea (2001).
Quali
sono le linee principali che emergono dalla lettura di tali documenti ?
1..
Si osserva una volontà manifesta di strumentalizzare l'insegnamento al servizio
della competizione economica. I riferimenti alle implicazioni economiche
dell'istruzione sono costanti. Qualsiasi riflessione sulla scuola deriva da
questa premessa ossessiva: "aiutare l'Europa a diventare l'economia della
conoscenza più competitiva al mondo". Qui, evidentemente, si trova la
conseguenza maggiore della crisi generalizzata del capitalismo: quest'ultimo
impone ai poteri pubblici di porre al centro di ogni intervento la ricerca
costante della competitività economica, e ciò a scapito di qualsiasi altra
considerazione. L'insegnamento deve essere al servizio della competitività e, a
tal fine, deve adattarsi alle esigenze dell'ambiente economico attuale.
2..
Malgrado i bisogni impellenti che appaiono agli occhi di chi opera nell'ambito
dell'insegnamento - carenza generalizzata di locali, di supporti didattici e
soprattutto di possibilità di carriera - nessuno dei testi sopra menzionati
perora la causa di un maggiore finanziamento dell'istruzione. Ciò si
"comprende" facilmente se inserito nel contesto esplicitato più
sopra: gli stati sono impegnati in una riduzione generalizzata della pressione
fiscale e nessuno di loro prevede seriamente di aumentare le tasse per offrire
più servizi alle scuole elementari, medie, superiori né alle università. Pur
rilevando una contraddizione tra la volontà di disporre di un insegnamento di
alto livello (in termini di sostegno all'economia) e la ristrettezza dei
finanziamenti in cui lo si confina, tale contraddizione tende a scomparire
quando si prendono in considerazione le altre caratteristiche della crisi del
capitalismo.
3..
La richiesta frenetica di innovazione tecnologica e di reddittività comporta
una instabilità estrema dell'ambiente industriale, economico e sociale. Le
imprese nascono e spariscono, i lavoratori alternano momenti di occupazione ad
altri di disoccupazione, i mercati nascono e muoiono ad un ritmo senza precedenti.
Pertanto, la capacità di prevedere i bisogni futuri e quindi di pianificare i
flussi provenienti dai sistemi educativi, è pressoché inutile. Nessuno può
sapere di quanti ingegneri, saldatori, analisti di sistema, tecnici biologi
l'economia avrà bisogno tra cinque anni. Nessuno può prevedere quale bagaglio
scientifico o tecnico dovranno possedere questi lavoratori. Ed ecco dunque
apparire nuove parole chiave nei documenti pedagogici consacrati
all'istruzione, per esempio "flessibilità" e "adattibilità".
L'insegnamento deve essere più flessibile e, quindi, si rende necessario
abbandonare le vecchie strutture burocratiche, in cui lo Stato è il dirigente
centrale di tutto il sistema, a favore di reti di istituzioni scolastiche in
"sana concorrenza" tra loro. La certificazione e il passaggio dalla
scuola all'impiego devono essere "flessibilizzati", abbandonando i
diplomi nazionali a favore di certificazioni di competenze modulari e
transnazionali. I prodotti che escono dalla scuola devono anch'essi essere resi
più flessibili: meno saperi - giudicati troppo velocemente obsoleti - e più
competenze - che possono essere messe in atto in maniera morbida, in un
ambiente in continua evoluzione. La scuola deve insegnare meno rispetto ad
"insegnare ad imparare". Non deve istruire bensì preparare alla
"formazione lungo tutto l'arco della vita".
4..
Questo sfilacciamento del tessuto educativo non rischia di provocare profonde
disuguaglianze? Di ciò non ci si preoccupa, o meglio, si preferisce che
avvenga, in quanto è esattamente ciò che reclama l'evoluzione duale del mercato
del lavoro. In Francia, il numero delle occupazioni non qualificate è passato
da 4,3 milioni a 5 milioni nel corso degli anni '90, numero che rappresenta
ormai un quarto dell'impiego totale. I giovani sono soprattutto costretti, in
massa, ad accettare lavori precari, mal remunerati e per i quali non si
pretenda da loro alcuna qualifica particolare se non una quantità di
microcompetenze: saper pronunciare una mezza dozzina di frasi in maniera
educata in una lingua straniera, sapersi connettere ad Internet, capire o
essere in grado di disegnare un piano d'accesso, spiegare come utilizzare un
cellurare ecc; essi devono anche saper leggere, ma non certo Goethe o Zola;
devono saper scrivere, ma non importa se commettono errori; devono saper fare i
conti, ma non per forza calcoare una derivata o un'equazione di secondo grado.
Allora, perché pretendere di investire in un insegnamento di alto livello per
tutti quando è ormai chiaro che l'economia potrà assorbire non più del 20 o 30%
dei laureati?
5..
Tutti i documenti europei, soprattutto quelli redatti negli anni che vanno dal
1995 al 2000, hanno dedicato estrema attenzione all'introduzione delle
tecnologie informatiche e della comunicazione (TIC) a scuola. L'ambizione non
era, come taluni hanno creduto, quella di promuovere l'utilizzo di tali
apparecchi caratterizzati da forte potenziale di innovazione didattica al fine
di migliorare l'accesso ai saperi, bensì, più banalmente, di favorire la
necessità di un mercato europeo di tali tecnologie. Ecco un altro modo per
stimolare l'economia attraverso la scuola: preparando e formattando il
consumatore.
6..
I documenti citati più sopra non dicono mai che converrebbe privatizzare
l'istruzione e trasformarla in mercato. Ma ci spiegano che altri stanno
pensando a questo e che dunque ci si dovrà preparare. Come, impedendo questo
mercato? Finanziando meglio la scuola pubblica? No, mettendola in condizioni di
competere con le "offerte di istruzione" private. La strategia europea
in materia d'insegnamento superiore - il settore più appetibile dagli
investitori privati in quanto potenzialmente il più redditizio - è
particolarmente illuminante a tale proposito. Il processo di Bologna mira
ufficialmente a creare uno "spazio europeo d'insegnamento superiore"
armonizzando i cicli, introducendo certificazioni modulari e internazionali
(gli ECTS), favorendo la mobilità degli studenti, agevolando la fusione e/o la
specializzazione delle università europee e stimolando l'attuazione di sistemi
di controllo di qualità europei. Ora, a ben guardare, tali obiettivi rispondono
puntualmente alle raccomandazioni formulate nel 1998 da una commissione
dell'OMC, incaricata di esaminare i mezzi per stimolare il mercato mondiale dei
servizi educativi (in preparazione al vertice di Seattle). Allora, quando ci
parlano di "spazio europeo" dell'insegnamento superiore, non si deve
forse leggere "mercato europeo"?
UNA
CATASTROFE EDUCATIVA IN PREPARAZIONE
Le
conseguenze di una simile politica educativa sono già ben visibili. In tutti i
paesi, si assiste ad una recrudescenza delle disuguaglianze sociali a scuola.
Il fossato, sempre più ampio, separa le scuole cosiddette di élite, che
preparano i figli della borghesia alle “alte funzioni” che toccano a loro per
eredità sociale, dalle scuole del popolo, cosiddette scuole “spazzatura”, gli
istituti di insegnamento tecnico e professionale, che si accontentano di
trasmettere vaghe competenze “trasversali” e “sociali” che l’economia ormai
esige.
Non
si è fatto in tempo ad assistere alla massificazione dell’insegnamento –
avvenuta tra l’altro in maniera molto parziale in numerosi paesi europei – che
già si abbandonano tutte le promesse di democratizzazione di cui tale
massificazione era portatrice: si ghettizzano i figli del popolo in un
insegnamento svuotato della propria sostanza emancipatrice. Nelle formazioni
tecniche e professionali, ma anche nella maggior parte dell’insegnamento
superiore, l’evoluzione in corso si traduce in una subordinazione totale al
controllo e ai diktat degli ambienti padronali.
Questa
politica educativa – se così ancora la si può chiamare – è pensata come un
tentativo di salvare il capitalismo mondiale dalla crisi in cui si trova
soffocato. Ma si tratta di un tentativo disperato, una fuga in avanti in un
sistema imprigionato nel proprio corpo di contraddizioni insuperabili.
La
missione degli insegnanti e degli educatori progressisti è quella di opporre a
tutto questo una visione emancipatrice della scuola. Dobbiamo aprirci
all’avvento di un insegnamento che apporti a tutti i futuri sfruttati, a tutti
i futuri oppressi, le armi della conoscenza e della comprensione del mondo.
Affinché se ne possano appropriare per poterlo cambiare.
Traduzione dal francese di Laura Bellandi