Il movimento francese contro i CPE (contratti di primo impiego) ha rappresentato
il punto più evidente della battaglia contro la precarietà e le
logiche liberiste nel mercato del lavoro. Marzo ha scosso la Francia e un po’
anche l’Europa. L’attenzione si è rivolta lì e in
qualche altro paese europeo c’è stata anche qualche “imitazione”
( in Grecia ad esempio).
Il fatto è che un movimento così non sembrava ai più una
cosa più possibile. Sembrava una cosa di altri tempi, una cosa da 1968.
E ci si richiama sempre al Maggio quando si muovono giovani e studenti francesi.
Il movimento anti-CPE e il ‘68
E’ stato invece un fenomeno diverso dal ’68. In molti si sono affrettati
a dirlo, chi per paura, chi per nostalgia: sociologi come Dubet o Touraine (non
molto tenero col movimento) o ex-leader del movimento studentesco come Cohn-Bendit,
tutti intervistati con dovizia da Le Monde e altri giornali. (In marzo a tarda
serata c’è stata, per inciso, anche una bella trasmissione su La
Sette, praticamente “live”)
Il Maggio ’68 fu ideologico e offensivo, il Marzo 2006 è stato
invece a-ideologico (che non vuol dire apolitico, come si è dimostrato)
e difensivo.
Nel 1968 nessuno temeva la disoccupazione, oggi questa è la minaccia
principale che ha prodotto la reazione dei giovani francesi.
Però è servito alla strategia del movimento richiamarsi al ’68.
Il movimento non è nato dal nulla.
Ma la Francia non ha visto solo il Maggio ’68. Ha avuto molti altri sussulti
studenteschi, forse non così incisivi come il Maggio ( anche per ragioni
storiche) ma altrettanto ampi. Periodicamente ce ne sono stati alla metà
degli anni settanta, negli anni ottanta. Intorno al 1990 ci fu la vicenda dello
Smic, il salario minimo. E ci furono anche agitazioni sindacali rilevanti: gli
cheminots, i ferrovieri, ad esempio.
Nella scuola ci fu il grosso movimento del 2000 contro il ministro dell’istruzione
Allegre, socialista, ma accusato dagli stessi sindacati degli insegnanti e dalle
associazioni studentesche di sinistra di voler americanizzare il sistema educativo.
La protesta spaccò i socialisti e alla vigilia delle europee Allegre
fu costretto ad andarsene. Un parallelismo politico e temporale con la vicenda
nostrana di Berlinguer e del concorsone, di cui molti non sono al corrente.
E questi movimenti sono andati accentuandosi e moltiplicandosi in questi ultimi
anni.
Nell’anno scolastico 2002-2003 è partito dalla scuola un forte
movimento contro la “decentralisation”, cioè il processo
di passaggio delle competenze scolastiche alle regioni (anche qui c’è
un’analogia con l’Italia), Questo movimento è poi confluito
in un movimento più complessivo contro la riforma delle pensioni che
ha scosso la Francia nella primavera del 2003 e che è passato alla storia
come “Primtemps” così come il ’68 per i francesi è
il “Mai”. Insomma in quell’anno si sono avuti nella scuola
almeno tre scioperi generali e cinque manifestazioni nazionali e tra aprile
e maggio il blocco di numerose scuole (oltre ad ospedali, ferrovie, uffici ecc.).
Questo per altro dovrebbe fare giustizia della diceria che solo in Italia, patria
di guelfi e ghibellini, gli scontri sulle varie questioni sono aspri fino a
diventare veri psicodrammi sociali!
Tornando alla Francia, ancora nel febbraio 2005 era esploso un altro forte movimento
di stuedenti delle scuole secondarie. La causa stavolta era stata una tentata
riforma degli esami di maturità e l’abolizione di alcuni spazi
didattici negli orari della scuola secondaria. Quel movimento, molto ampio si
è arenato nel giro di un mese, a causa di una vicenda strana e, come
vedremo, profetica: le manifestazioni finirono col caratterizzarsi per i violenti
scontri tra manifestanti e casseurs. Questi ultimi erano ragazzi delle periferie,
prevalentemente di famiglie immigrate, che si associavano alle manifestazioni
per sfasciare vetrine e aggredire i passanti o persino gli stessi manifestanti
a scopo di rapina. Un anticipo di quello che sarebbe stato alcuni mesi dopo
l’incendio delle banlieues.
Studenti anti-CPE e proletari delle banlieues.
Ed eccoci arrivati ad un altro fenomeno, decisivo: i tumulti nelle banlieues
esplosi a novembre. Un moto spontaneo quasi endemico senza caratterizzazione
politica né organizzazione. Un fenomeno assai diverso dal movimento anti-CPE
ma ad esso direttamente connesso.
A proposito di quest’ultimo Touraine, Dubet e altri sociologi si sono
affrettati a mettere in guardia: il movimento anti-CPE è la ripetizione
tra i ceti medi del moto delle banlieues, l’unica differenza è
che i giovani delle banlieues sono già nella situazione disperata in
cui gli studenti dei licei e delle università francesi temono di precipitare.
Ma non è l’unica connessione: si può dire che i moti della
banlieues hanno dato a tutta la Francia il senso della profondità della
crisi e hanno dato agli studenti la consapevolezza che il peso della situazione
consentiva loro di portare in porto una rivendicazione corposa e al potere la
paura di qualcosa di incontrollabile.
Il movimento e la violenza.
E qui merita attenzione il rapporto con la violenza. Di violenze ce ne sono
state di vari tipi: quella più politica delle occupazioni o dei blocchi
stradali e degli sgomberi della polizia (simbolico quello della Sorbona), quella
dei gruppi estremisti ai margini delle manifestazioni (limitata per la verità)
e quella endemica dei casseurs ( più problematica, ma tenuta a bada abbastanza
dall’accordo fra servizi d’ordine sindacali e polizia, anch’essa
sindacalizzata).
Ma c’è da dire che questo tema della violenza è stato più
sollevato dai giornali italiani che da quelli francesi. Neppure quelli di destra
hanno insistito tanto su questo tasto: una differenza di clima “propagandistico”
con l’Italia. Basti pensare che da noi dove la battaglia sull’art.18
è stata combattuta con una manifestazione pacifica di 3 milioni di persone,
un referendum e una raccolta di firme, Berlusconi ha gridato per 5 anni alla
contiguità tra lotte sociali e terrorismo, mentre in Francia dove pure
tumulti e violenze si sono ripetuti più volte tutti hanno pensato di
andarci cauti con certe affermazioni. Forse perché lì è
diverso il senso civile (il diritto montesquieuiano all’insurrezione della
società civile contro una società politica indegna) o forse perché
lì tutti sapevano che stavano giocando col fuoco e che non era proprio
il caso di fare gli apprendisti stregoni.
Le fasi del movimento.
Il movimento dunque non è nato dal nulla. La causa sicuramente è
stata questa legge sui CPE e soprattutto due clausole: quella che prevede, per
i nuovi assunti con meno di 26 anni di età, 2 anni di prova contro i
sei mesi ordinari degli altri rapporti di lavoro e quella che permetteva al
datore di lavoro di licenziare arbitrariamente senza causa o spiegazione. Ma
la valenza è stata quella di un movimento contro la precarizzazione del
lavoro e della vita.
E si è trattato nella sua continuità di un movimento pressoché
esclusivamente studentesco, prima di universitari e poi anche di studenti liceali,
tutt’al più appoggiati dai loro insegnanti sindacalizzati, in cui
gli operai e gli impiegati sono entrati solo nelle grandi giornate di mobilitazione.
Si può dividere in almeno quattro fasi.
La fase della gestazione inizia il 16 gennaio quando viene annunciata la legge,
si costituisce il collettivo per il ritiro della legge che raccoglie quasi tutti
i sindacati e le principali associazioni studentesche, passa per la prima grande
mobilitazione nazionale del 7 febbraio (400.000 persone in tutto il paese) e
approda alla seconda grande mobilitazione del 7 marzo (500.000 persone). La
legge viene comunque approvata dal parlamento.
La seconda fase è segnata dallo svilupparsi delle occupazioni e dei blocchi
delle università che arriveranno a essere oltre 60 su 80, con anche alcuni
sgomberi violenti da parte della polizia. Ma fino alla mobilitazione del 14
marzo (1.000.000 di persone) il movimento è quasi esclusivamente universitario.
Solo dopo il 14 marzo entrano in scena anche i licei, con numerose occupazioni
e manifestazioni nei dintorni delle scuole. E si arriva al 22 marzo con ancora
1.500.000 persone in piazza e i sondaggi che danno oltre il 60% dei francesi
contro l’intransigenza del governo.
Inizia il periodo delle mobilitazioni studentesche che più o meno si
susseguono al ritmo di una ogni due giorni. Il 28 marzo scendono in piazza 3.000.000
di persone e la cosa si ripete il 7 aprile. Nel frattempo il ministro dell’interno
Sarkozy prende le distanze dal primo ministro De Villepin e secondo i sondaggi
il 45% dei francesi auspica una crisi di governo.
Dopo il 28 marzo gli studenti bloccano strade ferrovie e accessi alle città.
Siamo alla quarta fase quando i\l movimento sceglie la via dell’agitazione
diffusa mentre scuole e università sono bloccate.
Il 10 aprile, dopo vari tira e molla, la legge viene infine sospesa.
Il movimento può cambiare la politica.
Il movimento contro i CPE è stato dunque significativo in primo luogo
per la sua portata e per il raggiungimento dell’obiettivo che era il ritiro
della legge. Ma è stato importante anche per altre ragioni.
Innanzi tutto ha fatto ritirare una legge già approvata dal parlamento.
E questo non è cosa da poco. Normalmente infatti, come capita anche da
noi, le battaglie sociali contro un provvedimento reggono fino all’approvazione
del provvedimento, poi di solito l’energia espressa viene tradotta in
un risultato da spendersi in un possibile cambio di maggioranza che rimetta
in discussione quella legge.
La Francia ci ha insegnato dunque che anche una legge già approvata può
essere fermata da un moto sociale.
Il movimento può rilanciare il sindacato.
In secondo luogo ha prodotto un risultato diretto, sindacale potremmo dire.
In Francia come in Italia le lotte di questi anni contro il liberismo avevano
prodotto scarsi risultati sull’obiettivo. Avevano però contribuito
a successi politici. Per esempio in Francia il forte movimento contro la riforma
delle pensioni del 2003 non aveva fermato la riforma, ma ha contribuito ad un
cambiamento delle coscienze politiche dei cittadini francesi e alla vittoria
delle sinistre nelle successive elezioni regionali, dove tutte le regioni tranne
l’Alsazia sono finite nelle mani delle sinistre. Qualcosa di simile è
successo in Italia se guardiamo alle ultime elezioni amministrative e politiche
e alla loro relazione alle lotte contro le leggi Moratti, Biagi, Bossi-Fini
e contro la guerra in Irak.
Col movimento anti-CPE si è andati oltre: si è ottenuto direttamente
il risultato.
Questo fatto rappresenta un evento molto importante, soprattutto se si pensa
che chi ha ottenuto ciò è stato soprattutto un movimento di giovani.
Di una generazione, cioè, che non ha le stesse ragioni di quelle precedenti
per confidare nella forza delle lotte e delle organizzazioni sindacali.
In altre parole erano anni che non c’erano risultati così significativi
sul piano sindacale. E mentre per la generazione dei giovani degli anni sessanta
e settanta, avvezza a lotte cha hanno potato a innegabili avanzamenti sociali,
lotte e sindacato avevano finito per essere valori in sé, lo stesso non
si può dire per le generazioni successivi.
E ciò è tanto più significativo in Francia dove la sindacalizzazione
è appena al 9%, contro il 35%. per esempio, dell’Italia. In Francia
infatti abbiamo un sindacato forte istituzionalmente (grazie a leggi sociali
varate all’indomani della Liberazione sulla rappresentanza dei corpi intermedi
che enfatizzano la partecipazione sindacale) ma debole come adesioni.
Questo fatto stesso può spiegare altre due caratteristiche del fenomeno
che si è prodotto.
Il primo è il fatto che il sindacato sia intervenuto subito a sostegno
della lotta da un lato vedendovi un’occasione da non perdere per recuperare
consensi, dall’altro osservando il rituale di una storia sindacale come
quella francese che sembra essere poco avvezza alle pratiche concertative (
alla tedesca o, se si vuole anche all’italiana) e sembra piuttosto procedere
a strappi.
Il secondo è il fatto che la lotta sia stata condotta dagli studenti
prima che dai lavoratori e dai loro sindacati.
Il movimento e la scuola.
Ma su quest’altra caratteristica vale invece la pena di considerare come
fatto determinante la forte proiezione civile che ha la scuola francese, la
cosiddetta Scuola della Repubblica, messa tra l’altro sotto accusa dopo
i fatti delle banlieues. In pratica resta difficile pensare per il cittadino
francese, e a maggior ragione per lo studente, che uno debba stare a scuola
fino a 18 o a 23 anni per poi finire a fare un lavoro precario. In altre parole
nello statuto implicito del lavoro a cui si arriva dopo un lungo ciclo di studi
c’è la sicurezza di questo lavoro.
Si aggiunga che anche a coloro che sono più inclini ad un ruolo formativo
del lavoro giovanile non può sfuggire il carattere sanzionatorio e non
educativo di un licenziamento di cui non si conoscono le ragioni: un insuccesso
che non si può spiegare si trasforma in una condanna a vita nel curriculum
di un giovane in cerca di impiego, ha giustamente osservato Daniel Cohn Bendit.
Insomma una regalia ai datori di lavoro, laddove questi e l’intero Paese
(e come la Francia tutti paesi europei, Italia compresa) avrebbero invece il
dovere di dimostrare di voler investire sui giovani, non di volersene sbarazzare
più facilmente.
Pino Patroncini, 4 luglio 2006.