ISTRUZIONE OBBLIGATORIA: PER
FARE CHE?
Pino Patroncini
In un suo libro Regis Debray, che, lasciati i panni sfortunati del guerrigliero, oggi è docente universitario, ricorda che “istruire” secondo l’etimo latino vorrebbe dire “edificare, costruire”. Con questo significato l’aggettivo “pubblico” applicato all’istruzione non è perciò un aggettivo qualificativo, che indica solo la “proprietà” dell’istruzione, ma è piuttosto un aggettivo che indica l’oggetto di questa edificazione: la “istruzione pubblica” è, cioè, la costruzione del pubblico, della “res publica”, della “Republique”.
Milleottocentoquarantotto: l’antefatto.
E questa è sicuramente l’idea che ha animato i precursori dell’obbligo scolastico. Diceva Hippolyte Carnot, ministro dell’istruzione nella Francia rivoluzionaria del 1848:
“La differenza tra la Repubblica e monarchia non deve testimoniarsi in alcuna parte più profondamente che in ciò che riguarda la scuola primaria. Dato che la libera volontà dei cittadini deve ormai imprimere al paese la sua direzione, è dalla buona preparazione di questa volontà che dipendono la salute e il benessere della Francia.”
E infatti la repubblica nata dalla rivoluzione di febbraio, la seconda dopo quella giacobina del 1792, si sforzò di rendere obbligatoria l’istruzione primaria , concepita come “tutto ciò che è necessario allo sviluppo dell’uomo e del cittadino, tale quale le condizioni attuali della civilizzazione francese permettono di concepirlo.” (1)
“Perché un cittadino non potrà essere dispensato senza pregiudizio per l’interesse pubblico da una cultura necessaria al buon esercizio della sua partecipazione personale alla sovranità.”
Se non che il progetto di Carnot arrivò all’Assemblea Nazionale dopo la violenta repressione dei moti operai del mese di giugno, quando ormai l’aria era cambiata. E in quelle discussioni parlamentari possiamo assistere anche ai primi sofismi elaborati proprio per depotenziare il valore dell’obbligo scolastico, degni progenitori di quelli nostrani attuali sul diritto-dovere. Si distinsero nella sofistica filistea personaggi come Adolphe Thiers, allora “orleanista volteriano” ma che passerà alla storia nel 1871 come il carnefice della Comune di Parigi e F.A. de Felloux, che succederà a Carnot al ministero dell’istruzione. Ecco le scuse accampate da quest’ultimo per sostenere l’impossibilità dell’obbligo scolastico:
“Quale parte dell’insegnamento si dovrebbe rendere obbligatoria? Chiedete molto? Imporrete un rigore eccessivo. Chiedete poco? Abbasserete il livello di insegnamento generale.”
Messo in minoranza Carnot si dimise e fino al 1881, quando tornarono al potere i repubblicani, in Francia non si parlò più di istruzione obbligatoria.
Da Ferry a Ferry: un dibattito attuale
La descrizione di ciò che ho brevemente riassunto si trova in un libricino di 142 pagine intitolato “L’ecole obligatoire: pour quoi faire?” che Claude Lelievre, storico dell’istruzione e docente alla Sorbona, ha dato alle stampe quest’anno (2) , in un momento in cui oltralpe, come da noi del resto, è messo in discussione il carattere obbligatorio dell’istruzione e non solo: siccome le disgrazie non vengono mai sole, in discussione, guarda che coincidenza, è anche il carattere unitario dell’istruzione stessa e del sistema scolastico.
Infatti la Francia è stata investita recentemente da un dibattito acceso e ufficiale ( 26.000 assemblee organizzate dal Ministero dell’educazione!) sui destini del suo sistema scolastico. E questo dibattito è arrivato in seguito ad un movimento di scioperi e occupazioni di scuole sviluppatosi nel 2003 dove ai temi della previdenza sociale si è mischiato il problema della regionalizzazione del sistema educativo, la cosiddetta “decentralisation”, che agli occhi dei francesi metterebbe a rischio il carattere civile e nazionale della scuola, onore e vanto della Republique.
Tra le questioni più dibattute vi era anche quella dei destini del “college unique”, la scuola media quadriennale in vigore dalla riforma del 1975, nome che i detrattori storpiano in “college inique”, per sottolinearne la scarsa versatilità da cui dipenderebbe la forte selezione successiva e l’alto numero di insuccessi scolastici. Un gioco di parole che l’italiano non rende altrettanto bene, così come non rende bene l’idea di una scuola media quadriennale la nostra idea triennale di scuola media: in Francia vi si copre anche il ruolo che da noi è stato svolto finora dal biennio iniziale della secondaria superiore.
Il libro di Lelievre cerca di dipanare la matassa della storia scolastica francese per ritrovare il filo conduttore e il senso di quella scuola repubblicana di cui il Ministro Jules Ferry ebbe a dire nel 1881:
“Noi abbiamo sull’Inghilterra e sugli Stati Uniti questa superiorità di considerare che l’insegnamento non è affatto materia d’industria, ma materia di Stato e che gli interessi intellettuali dell’infanzia sono sotto il controllo e la sorveglianza dello Stato.”
E di cui centoventidue anni dopo persino il quasi omonimo Luc Ferry, ministro contestatissimo di un governo di centro-destra, (sostituito da Fillon dopo la sconfitta alle ultime elezioni regionali) disse:
“Da più di un secolo la Repubblica e la scuola si sono costruite l’una con l’altra. La scuola è stata il sogno della Repubblica. E rimane senza dubbio la più bella delle sue realizzazioni.”
E si tratta di una storia, quella della scuola francese, in cui il processo di innalzamento dell’obbligo si intreccia con quello di una progressiva unificazione del sistema, in cui l’innalzamento delle opportunità si intreccia con la generalizzazione dei diritti.
Infatti se Jules Ferry è passato alla storia perché obbligò i sindaci di tutta la Francia ad istituire una scuola elementare nel loro comune, se necessario istallandola nel proprio ufficio, non dobbiamo pensare che la sua scuola non riproducesse le profonde differenze di classe che nell’ultimo ventennio dell’ottocento segnavano la società francese. E in effetti le scuole comunali si rivolgevano ai figli dei contadini e degli operai. Per i figli della borghesia c’erano i licei, statali ma a pagamento, e i collegi, comunali ma a pagamento: queste scuole possedevano classi propedeutiche che iniziavano fin dall’infanzia. Sicché i rampolli delle classi ricche crescevano allora separati in una sorta di collegio che li accompagnava dai 6 ai 18 anni di età fino alle soglie dell’università.
Né Ferry, il cui repubblicanesimo non andava oltre un rigoroso laicismo razionalista ispirato ai principi della Grande Rivoluzione, ebbe mai l’idea di mettere in discussione tale distinzione. Il suo obbligo scolastico riguardava bambini e bambine dai 6 ai 13 anni, ma era riducibile all’età di 11 anni se l’alunno otteneva a quell’età il certificato di studi primari.
E anche lo studio era diverso nei due percorsi primari: tradizionale nei collegi preliceali, essenzialmente intuitivo e pratico nelle scuole comunali. Si ponevano così le basi di una separazione non solo istituzionale, ma anche didattica e di una querelle che in qualche modo dura ancora oggi. Naturalmente la possibilità di continuare gli studi passando dalla scuola comunale ai collegi o ai licei era solo teorica: l’ostacolava il fatto che i licei fossero a pagamento e lo scoraggiava il fatto che il percorso comunale fosse di sette anni mentre quello preliceale era di cinque.
Sul finire del secolo per superare tali ostacoli fu istituito un sistema di borse di studio per i più meritevoli, dando luogo a quello che Lelievre definisce l’”elitismo repubblicano”, che per dirla in breve consisteva nel sottrarre alla propria classe sociale le menti più fertili delle classi subalterne o per dirla con Ferdinand Buisson, braccio destro di Ferry , mascherava le differenze di trattamento.
In quel momento solo l’11% degli undicenni era iscritto nella prima classe del liceo inferiore o della primaria superiore, il resto era iscritto nelle primaria e rimaneva nelle classi complementari fino a 14 anni.
Secondo Lelievre dunque la democratizzazione progressiva del sistema scolastico era cresciuta oscillando tra il pagare il fio ad un modello scolastico di serie B e la cooptazione dei migliori nei ranghi della classe dominante, mediante l’allineamento alla cultura e alle modalità di apprendimento della classe dominante,
In questo contesto il libro dà una grande importanza invece al piano Langevin-Wallon elaborato in casa comunista nel 1946 ( alla fine della guerra il Pcf era il partito più forte all’Assemblea Nazionale) che cercava di rompere questa spirale sostenendo che “ la formazione del lavoratore non deve in alcun modo nuocere alla formazione dell’uomo” ( Paul Langevin) e che se finora l’emancipazione culturale era stata un fatto individuale che aveva solo scremato le classi subalterne occorreva concepirla nei termini collettivi di una elevazione totale della nazione (Henri Wallon). Il piano prevedeva l’innalzamento dell’obbligo scolastico a 18 anni e il passaggio obbligatorio dal ciclo primario a un ciclo di orientamento (11-15 anni) e da questo a un ciclo di determinazione (15-18 anni), i primi due cicli unitari, il terzo diviso in sezioni pratica ( ma non irrevocabile), professionale (commerciale, industriale, agricola, artistica per la formazione di quadri intermedi) e teorica (classica, moderna, scientifica, scientifico-tecnologica). Per i docenti non più la distinzione in maestri e professori, ma in insegnanti di materie comuni e insegnanti di materie specialistiche. L’insegnamento sarebbe stato esclusivamente di materie comuni nel primo ciclo, metà e metà nel secondo ed esclusivamente specialistico nel terzo.
Ma il piano Langevin-Wallon rimase sulla carta e per tutti gli anni cinquanta quello che avrebbe dovuto essere il ciclo medio è costituito da un insieme di corsi ripartibili in cinque tipi che potremmo definire: pre-lavorativi, pre-professionali, pre-amministrativi, pre-tecnici, e pre-liceali.
La scuola della
quinta repubblica.
Toccò paradossalmente a De Gaulle portare a termine alcuni processi con riforme parziali. Nel 1959 fu varato un biennio iniziale comune nel ciclo medio pur non mettendo in discussione, anzi ridefinendo, le cinque filiere di uscita. Nel 1963 (siamo negli stessi anni della nostra riforma della scuola media) la struttura viene compattata in tre filiere creando il College d’Einsegnement Secondaire (CES): un biennio iniziale d’osservazione a cui fa seguito un biennio di orientamento diviso in via professionale, via tecnologica e via generale. Nel 1967 infine l’obbligo scolastico viene portato a 16 anni.
In merito al CES si parla di una scelta personale di De Gaulle che impose la cosa ai suoi collaboratori: sarebbe stato premuto da esigenze poste dalla sfida russo-americana in cui i sovietici sarebbero stati avvantaggiati sul piano della formazione dei cervelli e dai dati sociologici per cui considerando solo i risultati scolatici migliori risultavano disperdersi dai percorsi formativi più importanti (generale, tecnico e commerciale) il 9% dei figli di operai e il 24% dei figli di contadini. In più De Gaulle non aveva la preoccupazione di compiacere i “corpi” degli insegnanti, comunque schierati a sinistra e distanti dalle sue posizioni politiche.
Siamo con ciò ad un anno dal maggio 1968 di cui però non si trova traccia nel libro di Lelievre, quasi non abbia avuto influenza né sull’assetto istituzionale né su quello contenutistico della scuola d’oltralpe.
Morto De Gaulle sarà Giscard D’Estaing a fare l’altro passo che porta alla situazione attuale del “collége unique” e sarà anch’esso una specie di colpo di mano rispetto ai suoi elettori di destra, che grideranno al piano di Wallon che sta per compiersi. Nel 1975 le tre vie del secondo biennio secondario inferiore diventano due filiere, generale e tecnologica, di una scuola unica.
Va notata ancora una volta la coincidenza: siamo negli stessi anni della riforma dei programmi della scuola media italiana già unificata, ma anche del varo dei tre modelli scolastici socialdemocratici, la scuola di base svedese, la “comprehensive school” inglese, e la “Gesamtschule” tedesca, tre modelli unitari.
L’interruzione di
un processo lineare.
La concrescita di obbligo e unitarietà del sistema scolastico francese si arresta lì, con una serie di ripensamenti che esplodono negli anni novanta e che riaprono il problema del senso della scuola, della sua unitarietà, del modello istituzionale, delle filiere e delle discipline, più o meno come succede da noi. Ma la filosofia della scuola della Repubblica così forte e, come abbiamo visto, anche così trasversale in Francia dà un appiglio in più ad un dibattito in cui è possibile dire e sentir dire tutto e il contrario di tutto.
D’altra parte se confrontiamo la storia della nostra scuola e di quella francese, oltre a notare una serie di scadenze pressoché coincidenti, soprattutto negli ultimi 40 anni, dobbiamo riconoscere che il processo storico francese si dimostra più lineare e meno contraddittorio del nostro, che pure in qualche caso (la scuola media unica, ad esempio ) è stato magari più veloce. La crescita della democratizzazione scolastica è stata in Francia a volte affidata a misure parziali, ma l’innalzamento dell’obbligo o si è accompagnato o è stato seguito sempre da processi di unitarietà del sistema e viceversa. In Italia non è stato sempre così, basti pensare che Casati, il primo ordinatore del sistema affidò l’istruzione tecnica al Ministero dell’agricoltura e dell’industria e che di nuovo la Riforma Gentile portò nominalmente l’obbligo a 14 anni ( realmente ciò avvenne molto dopo) ma nello stesso tempo espulse dal Ministero dell’istruzione le scuole tecniche, dopo che vi erano state riportate. Ed oggi sta accadendo pure di peggio dal momento che sotto la finzione di un obbligo formativo innalzato arretra l’obbligo scolastico e si prospetta una divisione dell’istruzione secondaria superiore nei due sistemi autonomi e indipendenti dei licei e dei professionali.
Ma la storia ragionata della scuola francese, che Claude Lelievre ci ha dato, aiuta a capire il valore di parole come obbligo e unitarietà, che non possono essere declinate solo in termini tecnici o pedagogici o psicologici, a prescindere dalla carne viva che la storia di una società e di una istituzione sociale, quale è la scuola, ci riporta. A quando anche da noi un ragionamento autentico, che parta dai bisogni ma anche dai moti profondi della nostra società, un po’ meno cronachista, tecnicista e pedissequamente “copione” di quelli che tante volte ci capita di sentire?
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Note
(1) Per la verità l’idea del servizio scolastico pubblico, non nella forma di funzione pubblica, aveva in Francia già illustri predenti e insospettabili: niente poco di meno che Guizot il quale nel 1832, ministro dell’istruzione, scriveva sull’organo del ministero parole che oggi suonano quasi profetiche distinguendo tra una scuola e una società organizzate secondo un principio commerciale e una scuola e una società organizzate secondo un principio patriottico, prendendo parte per la seconda ipotesi. Va ricordato anche che le idee di pubblicità, gratuità e obbligatorietà dell’istruzione furono iscritte nella costituzione della Repubblica Romana del 1849, che però, data la brevità dell’esperienza, non ebbe né il modo né il tempo di praticarle.
(2) Claude Lelievre, L’école obligatoire : pour quoi faire ? » Ed. Rez, Parigi 2004. Da esso sono tratte tutte le citazioni qui presenti.
(3) Per gli effetti politico-sindacali di questa rivalità vedi “Vita e morte della Fen” in VS n. 5, 2004.
Box 1
L’insegnante tra
morale e didattica
Secondo Jules Ferry l’insegnamento morale avrebbe dovuto sostituire l’insegnamento religioso. L’educazione morale era quella che derivava da una concezione comune , della gente onesta, e indipendente dai dogmi religiosi. Al massimo a Ferry sembrava naturale che i maestri difendessero l’idea repubblicana che nel 1789 e nel 1880 li aveva affrancati da controlli religiosi. E i maestri tutto sommato dimostrarono di apprezzare. Ma riteneva che oltre ciò non si dovesse andare, pena il rischio che ideologie di partito riempissero il vuoto lasciato dalla religione cattolica.
Ma così facendo non era in discussione il meccanismo di riproduzione ideologica che a sua volta si esprimeva nell’educazione più tradizionale, nei contenuti e nei metodi, impartita ai figli della borghesia nelle scuole a pagamento, e quella intuitiva e sperimentale impartita a i figli del popolo nelle scuole comunali. E se si trattava di elevare questa era verso quella che occorreva piegare sicché alla scrematura materiale dei figli migliori delle classi subalterne si accompagnava anche la loro modificazione ideologica.
La questione ha continuato a rimbalzare fino ad oggi e la si ritrova nelle discussioni sull’insuccesso scolastico.
Insomma mancava alla scuola della repubblica una metodologia didattica sia ufficiale che condivisa. E il rapporto docente alunno era comunque piuttosto cattedratico.
Nondimeno esistevano e provenivano da fonti insospettabili movimenti educativi, precedenti persino al quarantotto, come il “mode mutuel”, derivato dal “monitoring system” inglese che puntava al coinvolgimento degli alunni attraverso un gioco di ruoli rappresentati dai “moniteur”, specie di capiclasse per i vari compiti. I portavoce di questo metodo erano però esponenti della monarchia di luglio come Madame Guizot e i ruoli riproducevano un modello di gerarchie e ubbidienze.
Tra le due guerre il ministero incomincia a porsi qualche problema su una partecipazione dell’alunno all’attività scolastica un po’ meno passiva e un ispettore della scuola elementare, Barthélemy Profit, mette a punto un Office Central de la Cooperation a l’Ecole, con lo slogan: la scuola cooperativa rappresenta il passaggio dalla monarchia alla repubblica.
Negli stessi anni si colloca il lavoro e l’elaborazione di Celestin Freinet, che sostiene che un regime autoritario non può essere formatore di cittadini democratici. Ma Freinet si scontra anche con l’apparato burocratico della scuola francese, che poi abbandona, fondando l’Istituto cooperativo della scuola moderna (ICEM).
Ma è significativo anche il fatto che nel 1947 il piano Langevin-Wallon che rappresenta un po’ una risistemazione a sinistra di tutto ciò che 100 anni di storia scolastica francese avevano accumulato privilegi comunque nella formazione della coscienza civica gli insegnamenti classicamente teorici e disciplinari.
Box 2
L’originalità
francese: la laicità
Nella riforma della scuola del 1882 Jules Ferry sostituisce il vecchio art. 1 che parlava di “istruzione morale e religiosa” con un nuovo art. 1 che parla di “istruzione morale e civica”:
“Importa che le dottrine che si insegnano a scuola non appartengano ai prelati che hanno dichiarato che la Rivoluzione Francese è un deicidio e che i principi dell’89 sono la negazione del peccato originale. Importa alla Repubblica che la direzione della scuola non appartenga a dei ministri del culto che hanno opinioni separate dalle nostre da un abisso così profondo.”
La specificità di questa scuola repubblicana e laica è il suo conclamato inserimento nella sfera della politica, al centro di un progetto di costruzione di legami politico-sociali.E’ questa una delle caratteristiche trasversali dello stesso sistema dei partiti e degli schieramenti politici francesi.
Nel 1959 De Gaulle taglia la testa al toro di uno degli altri grandi problemi della scuola francese: finanziare o no la scuola privata. Nascono le scuole convenzionate, ma l’art. 1 del testo di legge recita inequivocabilmente:
“Negli istituti privati contraenti un contratto, l’insegnamento è sottomesso al controllo dello stato: l’istituto, pur conservando il suo proprio carattere, deve dare l’insegnamento nel rispetto totale della libertà di coscienza; tutti i bambini senza distinzione d’origine, d’opinione o di fede vi hanno accesso.”
Non è difficile cogliere la differenza tra questo passo ed altre legislazioni europee su scuole convenzionate (Spagna) o paritarie (Italia). E il suo ministro dell’istruzione, Debrè precisa:
“Né la Chiesa in quanto tale, né alcuna associazione nazionale può essere il partner del Ministero dell’educazione nazionale: la cooperazione di farà all’interno di un servizio pubblico pluralista grazie a dei contratti (semplici o d’associazione) che saranno siglati tra l’Educazione nazionale e le scuole.”
Anche Giscard D’Estaing manterrà questa filosofia, accrescendone gli elementi di unità nazionale, in un momento in cui vede in discussione l’unità culturale della Francia: come la scuola ha costruito in passato questa unità, dirà, così la deve assicurare oggi.
“La messa in opera di un sistema unico di college per tutti i giovani francesi dovrà essere accompagnato dalla definizione di un sapere comune, variabile col tempo e che esprima la nostra particolare civiltà.”
Non è fuori luogo pensare che col “college unique” il terzo presidente della quinta repubblica abbia pensato di fare a livello del primo ciclo secondario quello che Ferry aveva fatto con la primaria. Mitterand e la sinistra troveranno l’opera pressoché compiuta.
Box 3
Nascita e destino
delle discipline
Ah! la Francia! Beati i francesi! Verrebbe da dire. Da noi quando si parla di discipline di studio si ha spesso l’impressione di affondare le basi sempre e comunque nel trivio e nel quadrivio medievali. Almeno nella terra dei Lumi, che si presero cura di classificarli, la schematizzazione dei saperi (oggi in crisi pure quella) parte dal Settecento. Da Napoleone e dal Direttorio che aveva classificato i due grandi ambiti: quello delle scienze matematiche e sperimentali e quello delle scienze morali e politiche. Ma, ci racconta Lelievre, nel 1766 la “agregation” di lettere e grammatica (greco-latine) anticipa tutti e nel 1821si definisce quella di scienze. Nel 1825 quella di filosofia, nel 1831 quella di storia., nel 1849 quella di lingua inglese e tedesca. Nel 1841 scienze si scinde in matematica e scienze, e quest’ultima nel 1885 in scienze naturali e scienze fisiche. Nel 1900 è la volta di lingua italiane spagnola, nel 1907 dell’arabo e nel 1947 del russo. Solo nel 1960 lettere moderne e nel 1962 tecniche economiche e gestione. Nel 1968 meccanica che si scinde nel 1975 in genio civile, elettrico e meccanico. Educazione musicale nasce nel 1974, arti plastiche nel 1975, educazione fisica nel 1982 e scienze sociali nel 1977.
Nei programmi della scuola media francese l’area linguistica passa dal 66% dell’orario nel 1926 al 50% nel 1977 al 45% nel 1989, l’are scientifica passa dal 18% nel 1926 al 32% nel 1977 al 37% nel 1989, ma l’area sociale passa dal 16% nel 1926 al 18% nel 1977, quasi immobile come le discipline pratiche (disegno, musica, tecnica) tranne educazione fisica che passa da una a tre ore.
Box 4
Fra unitarietà e separazione
A conclusione del suo libro Lelievre traccia un identikit della scuola europea allo stato attuale dividendola in tre gruppi:
· un gruppo a struttura unica rappresentato dai paesi scandinavi e dal Portogallo, in cui c’è tutta una cultura dell’integrazione delle differenze, in cui fino a 16 anni mancano bocciature, filiere e classi di livello;
· un gruppo ad insegnamenti differenziati, dove sono distinti i livelli (Austria e Germania) o la formazione generale da quella professionale (Belgio, Olanda, Germania), dove si cerca l’omogeneità massima delle classi, si boccia e si va per indirizzi separati.
· un gruppo intermedio rappresentato dai paesi mediterranei e dalla Gran Bretagna dove vige il modello del tronco comune, ma con una netta separazione tra elementare e secondaria.
Nei risultati comparati (IEA, PISA) il primo gruppo risulta il migliore, i risultati medi sono più alti e non per questo mancano le eccellenze. Al contrario nel secondo gruppo i livelli bassi sono molto bassi e quelli alti non sono molto alti. Sarebbe scontata l’imitazione dei nordici, ma nel terzo gruppo le differenze sono troppo profonde e fanno propendere invece per il modello segregazionista.
Il principio dell’unitarietà della secondaria inferiore si giustifica con l’idea che esistano dei saperi comuni che a 15-16 anni debbano essere appannaggio di tutti gli studenti, mentre la politica è più incline a ragionare di dati quantitativi, strutturali e organizzativi. Lo scontro elettorale poco si addice al dibattito educativo e, parafrasando Giscard D’Estaing, si può dire che poco si addice un ministro che cerca nella scuola un guadagno politico immediato e non un confronto di posizioni.