Il mito nella storiografia

AB URBE CONDITA
( Tito Livio )


 

Livio adottò per la sua opera il metodo della narrazione annalistica, che consiste nell’esporre i fatti secondo ordine cronologico, metodo in voga tra gli storici di età repubblicana, e comunque il modo più semplice di esporre une tale raccolta di fatti della storia romana.

Per l’organizzazione del racconto dei primordi della storia romana, fece un raggruppamento in pentadi, decadi e unità di quindici libri.
Le fonti da cui attinse Livio erano le più varie, ma occupandosi di così vasta parte della storia di Roma, fu costretto a servirsi delle opere di coloro che avevano già affrontato questo argomento e dei documenti che poteva materialmente reperire a Roma, ma mai ricorrendo al metodo dell’autopsia e alla verifica personale di dati e documenti riportati, ma in caso di diverse interpretazioni dello stesso avvenimento, optando per quella più sensata o credibile, o lasciando insoluta la questione. Per questo motivo molti storici hanno messo spesso in dubbio la credibilità dell’opera di Livio e la sua professionalità di storico. Vero è che lo stile di Livio garantisce una perfetta coesione tra tutti i documenti da cui ha attinto: un vasto e colorito dizionario, mobilità dell’adattamento sintattico, e soprattutto una grande capacità descrittiva.

Sappiamo solo che, veritiera o meno, l’opera di Livio si proponeva come fine quello di, come dichiara l’autore stesso, spostare l’attenzione del suo popolo dagli spettacoli funesti della sua epoca all’esaltazione dei valori che avevano permesso a quel piccolo agglomerato di capanne sul Tevere di diventare quell’enorme potenza che fu Roma.

 


LA MORTE DI ROMOLO

 

"Grosso modo furono questi i principali avvenimenti politici e militari durante il regno di Romolo. Nessuno di essi impedisce però di prestar fede alla sua origine divina e alla divinizzazione attribuitagli dopo la morte, ne al coraggio dimostrato nel riconquistare il regno degli avi, né alla saggezza cui fece ricorso per fondare Roma e renderla forte grazie alle guerre e alla sua politica interna.Fu proprio in virtù di quanto egli le aveva fornito che Roma di lì in poi conobbe quarant’anni di stabilità nella pace. Tuttavia fu più amato dal popolo che dal senato e idolatrato dai suoi soldati come nessun altro. Tenne per se, e non solo in tempo di guerra, una scorta di trecento armati cui diede il nome di Celeri. Portati a termine questi atti destinati alla posterità, un giorno, mentre passava in rassegna l’esercito e parlava alle truppe vicino alla palude Capra, in Campo Marzio, scoppiò all’improvviso un temporale violentissimo con gran fragore di tuoni ed egli fu avvolto da una nuvola così compatta che scomparve alla vista dei suoi soldati. Da quel momento in poi Romolo non riapparve più sulla terra. I giovani Romani, appena rividero la luce di quel bel giorno di sole dopo l’imprevisto della tempesta, alla fine si ripresero dallo spavento. Ma quando si resero conto che la sedia del re era vuota, pur fidandosi dei senatori che, seduti accanto a lui, sostenevano di averlo visto trascinato verso l’alto dalla tempesta, ciò nonostante sprofondarono per un attimo in un silenzio di tomba, come invasi dal terrore di esser rimasti orfani. Poi, seguendo l’esempio di alcuni di essi, tutti in coro osannarono Romolo proclamandolo dio figlio di un dio, e re e padre di Roma. Con preghiere ne implorano la benevola assistenza e la continua protezione per i loro figli. Allora, credo, ci fu anche chi in segreto sosteneva la tesi che i senatori avessero fatto a pezzi il re con le loro stesse mani. Ma fu resa nota anche l’altra versione, sia per l’ammirazione nei confronti di una simile figura, sia per la delicatezza della situazione. Si dice anche che ad aumentare la credibilità contribuì l’astuta trovata di un singolo personaggio. Questi - un certo Giulio Proculo - mentre la città era in lutto per la perdita del re e nutriva una certa ostilità nei confronti del senato, con tono grave, come se fosse sto testimone di un grande evento, si rivolse in questi termini all’assemblea : "Stamattina, o Quiriti, alle prime luci dell’alba, Romolo, il fondatore di questa città, è improvvisamente sceso dal cielo ed è apparso alla mia vista. Io, in un misto di tale confusione e rispetto, l’ho pregato di accordarmi il permesso di guardarlo in faccia e lui mi ha risposto: "Va, e annuncia ai Romani che la volontà degli dei celesti è che la mia Roma diventi la capitale del mondo. Quindi si impratichiscano nell’arte militare e sappiano e tramandino ai loro figli che nessuna potenza umana è in grado di resistere alle armi romane." Detto questo," egli concluse, "è scomparso in cielo". E’ incredibile quanto si prestò fede al racconto di quell’uomo e quanto giovò a placare lo sconforto della plebe e dell’esercito per la perdita di Romolo l’assicurazione della sua immortalità."

Haec ferme Romulo regnante domi militiaeque gesta, quorum nihil absonum fidei divinae originis divinitiatisque post mortem creditae fuit, non condendae urbis consilium, non bello ac pace firmandae. Ab illo enim profecto viribus datis tantum valuit ut in quadraginta deinde annos tutam pacem haberet. Multitudini tamen gratior fuit quam patribus, longe anta alios acceptissimus militum animis; trecentosque armatos ad custodiam corporis quos Celeres appellavit non in bello solum sed in pace habuit. His mortalibus editis operibus cum ad exercitum recensendum contionem in campo ad Caprae paludem haberet, subito coorta tempestas cum magno fragore tonitribusque tam denso regem operuit nimbo utagno fragore tonitribusque tam denso regem operuit nimbo ut conspecto eius contioni abstulerit; nec deinde Romulus in terris fuit. Romana pubes sedato tandem pavore postquam ex tam turbido die serena et tranquilla lux rediit, ubi vacuam sedem regiam vidit, etsi satis cradebat patribus qui proximi steterant sublimem raptum procella, tamen velum orbitatis metu icta maestum aliquamdiu silentium obtinuit. Deinde a paucis initio facto, deum deo nato, regem parentemque urbis Romanae saluere universi Romulum iubent; pacem precibus exposcunt, uti volens propitius suam semper sospitet progeniem. Fuisse credo tum quoque aliquos qui discerptum regem patrum manibus taciti arguerent; manvit enim haecquoque sed perobscura fama ; illam alteram admiratio viri et pavor praesens nobilitavit. Et consilio etiam unius homini addita rei dicitur fides. Namque Proculus Iulius, sollicita civitate desiderio regis et infensa patribus, gravis, ut traditur, quamvis magnae rei auctor in contionem prodit. ‘Romulus,’inquit, ‘Quirites, parens urbis huius, prima hodierna luce caelo repente delapsus se mihi obvium dedit. Cum perfusus horrore venerabundusque adsistissem petens precibus ut contra intueri fas esset, "Abi, nuntia" inquit "Romanis, caelestes ita velle ut Roma caput orbis terrarum sit; proinde rem militarum colant sciante et ita posteris tradant nullas opes humanas armis Romanis resistere posset." ‘Haec’ inquit ‘locutus sublimis abiit.’ Mirum quantum illi viro nuntianti haec fides fuerit, quamque desiderium Romuli apud plebem exercitumque facta fide immortalitis lenitum sit.

Da I Grandi Libri Garzanti ‘LIVIO ; storia

 


 

TITO LIVIO (Riflessioni)

Storico romano ( Padova 59 a.C. 17d. C.) poco si sa della sua vita: a Roma, dove si recò da giovane e dove passò la maggior parte della sua vita, entrò nel circolo letterario imperiale, apprezzato da Augusto nonostante i suoi sentimenti repubblicani. La sua storia di Roma ( ab urbe condita ) iniziata intorno al 27 a. C. e rimasta interrotta dalla morte al libro 142, narra, secondo gli schemi analistici, gli avvenimenti dalla fondazione della città alla morte di Druso ( 9 d. C.). L’opera è andata in gran parte perduta: ci rimangono per intero i libri dal I al X e dal XXI al XLV oltre a numerosi frammenti, ma si può riconstruire il contenuto grazie alle periochae e agli epitomatori e ai numerosi estratti.

Fonti storiche di Livio sono, per il periodo più antico, soprattutto gli analisti; per le guerre puniche, Celio antipatro e Polibio ; ancora polibio fino al XLV libro e più tardi Posidonio, Sisenna, cesare e gli archivi imperiali. Secondo l’usanza del tempo, l’autore non cita però le sue fonti se non in caso di discordanze, e si limita ad elaborarle letterariamente e ad adattarle non sempre correttamente. Se a questo si aggiunge la scarsa conoscenza delle istituzioni romane, dell’arte militare e delle condizioni dell’Oriente si avrà una conferma del metodo prevalentemente letterario con cui Luciano affronta la storia. Suo scopo era quello di fornire a Roma, nel momento culminante della sua potenza e della sua gloria, un’esposizione artisticamente valida del suo passato.

La sua grandezza non si manifesta quindi nel rigore del metodo storico, ma nella visione organica della storia di Roma e nella vivida rappresentazione dei fatti. Il suo stile, a intense coloriture poetiche, per lo più solenne, vivace nella descrizione dei moti popolari e delle battaglie, si fa drammatico nelle orazioni poste in bocca ai personaggi per caratterizzarli e per esporre le idee, le tendenze, i sentimenti di un momento storico. Non mancano deviazioni dal latino più puro e già Pollione vi notava delle inflessioni dialettali padovane.

 


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