Il viaggio come sfida estrema

 

Oggi, in un mondo in cui l’ignoto non esiste più, in cui tutto tende ad essere uniforme e globale, il desiderio dell’ "altrove" e della scoperta è annullato.

La disponibilità di mezzi di trasporto sempre più veloci e la grande diffusione della televisione che consente di "vedere" comodamente seduti, ogni luogo e ogni cosa, hanno reso assai meno misteriosa e avventurosa l’esperienza del viaggio.

Resta la possibilità per gli scrittori di raccontare le proprie esperienze di viaggio per comprendere civiltà diverse, la propria interiorità, il rapporto con gli altri e col mondo.

Questo atteggiamento, che unisce lucidità e acutezza di osservazione, volontà di comprensione e profondità di autoanalisi, ha prodotto opere che stanno fra la narrazione d’avventura e l’autobiografia, come "Le voci di Marrakech" di Elias Canetti, o "Patagonia Express" di Luis Sepulveda.

Ma quello che oggi appare l’unico viaggio ancora degno di questo nome è il "viaggio estremo" nel quale il viaggiatore, in una sfida estrema, mette alla prova tutto se stesso, le proprie capacità e risorse fisiche e intellettuali, per tornare arricchito e sicuro di sé, pronto a spostare ancora oltre il limite della sfida. Forse meglio di ogni altro, Bruce Chatwin incarna lo spirito del viaggiatore estremo ("In Patagonia" 1977 – "Le vie dei canti"): in "Anatomia della irrequietezza" sostiene che "l’uomo è uno spirito nomade" e attribuisce grande importanza alla inquietudine che contraddistingue il genere umano dal resto del mondo naturale.

D’altra parte, come dice Marguerite Yourcenar, "Chi sarebbe così insensato da non fare, almeno una volta, il giro della propria prigione?".