Il viaggio come fuga dalla realtà

 

Nella seconda metà dell’800, mentre si afferma l’industrializzazione e molti sono i progressi tecnici e scientifici, gli intellettuali colgono gli aspetti negativi di una società materialista e spietata ed esprimono il senso di angosciosa alienazione e di oppressione che provano.

Il tema del viaggio è frequente nelle poesie dei simbolisti e rappresenta il desiderio della fuga da una realtà ostile e insopportabile per trovare rifugio in un mondo di piena libertà e autenticità.

Nelle poesie di Charles Baudelaire appare spesso il tema del viaggio verso mari tropicali e foreste esotiche dove potersi abbandonare al sogno, cosa impossibile nelle fredde e corrotte città industriali dove domina la noia, lo "spleen" e dove

"il cielo basso e greve pesa come un coperchio
sullo spirito che geme in preda a lunghi affanni"

Il sogno di fuga di Baudelaire è, però un sogno letterario, un mito; il vero viaggio è puro desiderio di vagare verso mete senza forma e senza nome e alla parola è affidata, ancora una volta, la funzione di trasporto e di evasione per "viaggiare senza vele e senza vapore".

Baudelaire dedica al tema del viaggio il poemetto "Le voyage", in cui le immagini di astri, sabbie e onde sono presentate come simboli di sogni, perché, anche andando lontano, il poeta proverà la stessa noia di sempre.

La famosa lirica "Albatros" è costruita su immagini di viaggio; l’albatros è allegoria del poeta e della sua diversità, del suo "volare alto", principe delle nubi, che lo rende però esule e impedito al suolo fra gli uomini. Il viaggio è rappresentato da questo "volare alto", dal desiderio del poeta di spingersi lontano da una realtà da cui si sente rifiutato, lontano da quegli "amari abissi" su cui scivola la nave.

Anche Stephane Mallarmè esprime nella sua "Brezza marina" il desiderio di rompere per sempre con la realtà quotidiana, triste e meschina e di assaporare la libertà.

"La carne è triste, ahimè! E ho letto tutti i libri
Fuggire! Laggiù fuggire! Io sento uccelli ebbri
d’essere tra l’ignota schiuma e i cieli!
Niente, né antichi giardini riflessi dagli occhi
terrà questo cuore che già si bagna del mare"

Arthur Rimbaud nei versi del "Bateau ivre" (1871) esprime questo puro desiderio di partire e di vagare senza meta, verso luoghi privi di forma, cangianti, senza nome; la lirica termina con l’invocazione al naufragio del battello, che rappresenta il poeta, unico esito possibile di questo errare sfrenato dell’io.

Anche Giovanni Pascoli dà al viaggio un chiaro valore simbolico: non si può raggiungere la felicità neppure andando lontano e spingendosi sempre oltre.

Nei "Poemi Conviviali", nella lirica "Alexandros", il protagonista, nella sua vittoriosa avventura, è ormai giunto al limite della terra conosciuta, ed esprime la stanchezza e il senso di limite del destino dell’uomo, per il quale la felicità non è mai assoluta.

"Oh, più felice quanto più cammino
mi era dinnanzi, quanto più cimenti,
quanto più dubbi, quanto più destino!"

Anche la fuga, l’andar lontano non porta al raggiungimento della felicità e della pace interiore. Pascoli, diversamente dai simbolisti francesi che cercavano la felicità nella fuga dalla realtà e nei sogni surreali, pensa che solo negli affetti familiari, nel "nido" l’uomo possa raggiungere un po’ di serenità.

Nella lirica "Le rane" che fa parte del poemetto "Il ritorno a S. Mauro", Pascoli esprime la tensione dell’uomo verso la ricerca della felicità, una felicità che è negata nel momento presente e che si accompagna a un senso di rassegnazione e delusione.

"E sento nel lume sereno
lo strepere nero del treno
che non s’allontanta e che va
cercando, cercando mai sempre
ciò che non è mai, ciò che sempre
sarà……"

Il treno è il simbolo del cammino dell’uomo che insegue vanamente la felicità; la realtà è espressa dal "treno che non s’allontana", in cui si cerca una felicità che è impossibile.