CIVIS ROMANUS SUM

Cicerone, Actio in Verrem (1) (II, V, 162-163)


Cicerone, scrittore latino, vissuto nel I secolo a.C. scrisse numerose opere, fra cui "Actiones in Verrem" da cui è tratto il testo "Civis romanus sum", in cui si esalta la condizione di civis. A Roma lo status di civis permetteva di avere un certo numero di diritti e si basava sulla libertà dell’individuo. In questo brano, Cicerone, rimasto fortemente colpito dinanzi al supplizio cui Verre, governatore della Sicilia, aveva sottoposto Gavio, cittadino romano, denuncia questo abuso.

Portato in mezzo alla Piazza di Messina e seviziato sotto gli occhi di tutti, Gavio implora inutilmente i suoi giustizieri di liberarlo, invocando la sua appartenenza alla civitas romana. Ma più implora e cerca di affermare i suoi diritti, più aumenta il numero delle bastonate. Cicerone accusa Verre non solo di avere agito ingiustamente contro un cittadino romano, ma anche di avere ignorato i suoi doveri di magistrato, atti a garantire l’incolumità per i cittadini romani. È evidente inoltre la grande fiducia che il cittadino romano nutre nei confronti della legge, nata per assicurare i suoi diritti in ogni parte dell'Impero. Come conclusione al proprio discorso, Cicerone invoca la libertà, in quanto diritto e applicazione della legge romana, in particolare di quel tipo di leggi che garantiscono il cittadino contro i soprusi.

162. Caedebatur virgis in medio foro Messanae civis Romanus, iudices, cum interea nullus gemitus, nulla vox alia illius miseri inter dolorem crepitumque plagarum audiebatur, nisi haec: "Civis Romanus sum". Hac se commemoratione civitatis omnia verbera depulsurum cruciatumque a corpore deiecturum arbitrabatur. Is non modo hoc non perfecit, ut virgarum vim deprecaretur, sed, cum imploraret saepius usurparetque nomen civitatis, crux, crux, inquam, infelici et aerumnoso, qui numquam istam pestem viderat, comparabatur.


163. O nomen dulce libertatis! O ius eximium nostrae civitatis! O lex Porcia legesque Semproniae! O graviter desiderata et aliquando reddita plebi Romanae tribunicia potestas! Hucine tandem omnia reciderunt ut civis Romanus in provincia populi Romani, in oppido foederatorum ab eo, qui beneficio populi Romani, fascis et securis haberet, deligatus in foro virgis caederetur? […] In crucem tu agere ausus es quemquam qui se civem Romanum esse diceret?

162. Veniva percosso a bastonate in mezzo alla piazza di Messina, un cittadino romano, giudici, e intanto, nonostante il dolore, non si udiva nessun gemito, nessun’altra parola di quel misero, se non questo: "Sono cittadino romano", tra il crepitare delle bastonate. Pensava che ricordando di essere cittadino romano, potesse evitare ogni flagellazione e allontanare ogni supplizio dal proprio corpo. Non solo egli non raggiunse questo scopo, ovvero di allontanare da sé le bastonate, ma, mentre più implorava e ripeteva di essere cittadino, la croce, la croce – dico – veniva preparata per quell’infelice, quel disgraziato, che mai aveva visto quell’orrore.

163. O dolce nome della libertà! O diritto supremo del nostro Stato! O legge Porcia (2) e leggi Sempronie! O potere dei tribuni, così fortemente desiderato e infine donato alla plebe romana! Tutto è dunque precipitato così in basso che un cittadino romano è stato picchiato con verghe e poi legato in una piazza pubblica di una città alleata, in una provincia romana, da colui che deteneva fasci e scuri per interesse del popolo romano? […] Tu hai osato mettere sulla croce uno che affermava di essere cittadino romano?

 

 

Note

(1)
Nel 70 a.C. Cicerone fu chiamato dagli abitanti della Sicilia a sostenere l’accusa nel processo che essi avevano intentato contro l’ex governatore Verre, il quale aveva approfittato della propria carica per dissanguare la provincia. Cicerone scrisse due "Actiones in Verrem", ma poté pronunciare solo la prima, visto che Verre, poco dopo essere stato condannato, fuggì. Pubblicò in seguito la seconda, che, divisa in cinque libri (praetura urbana, de praetura Siciliensi, de frumento, de signis, de supliciis), dal solenne proemio, in cui è ribadita l’importanza politica della causa come prova suprema dell’onestà giudiziaria dell’ordine senatorio, all’invocazione finale agli dei perché illumino le menti dei giudici, rappresenta la più grande opera oratoria di tutti i tempi. In questo testo, ricordando il supplizio cui Verre aveva sottoposto Gavio, un cittadino romano di Conza, l’autore esalta il valore ed il prestigio che la cultura romana attribuiva allo status di cittadino attraverso l’uso di tutti i toni dell’ironia, fino ad una veemenza acre che sfiora il tragico.

(Ettore Paratore, "La letteratura latina dell’età repubblicana e augustea".)

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(2)
Lex Porcia: la legge Porcia del 199 a.C. e le leggi Sempronie (proposte da Gaio Gracco) del 123 avevano ribadito i diritti, già preesistenti, dei cittadini romani e in particolare il diritto d'appello al popolo (provocatio)

 

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(E. Bonafé, F. Guaraldi, K. Macdonell, E. Russo, A. Tinti, G. Zorzi.)