LA SCUOLA NEGLI ACCORDI INTERNAZIONALI

(comunicazione all’iniziativa dell’Osservatorio sui diritti nella scuola di Firenze- 6 maggio 2003)

Se si parla di accordi internazionali di questi tempi viene immediatamente in mente il GATS.

Il GATS

GATS è un acronimo inglese che sta per Accordo Generale per il Commercio nei Servizi ed è un pezzo degli accordi mondiali sul commercio gestiti dal WTO. Per essere precisi fin dall’accordo di Marrakesh del 1994 si prevedeva per il 2000 un accordo anche sui servizi. L’accordo era un po’ complesso, constava di 29 articoli e riguardava vari aspetti come le forniture transfrontarliere, il consumo all’estero, l’istituzione di filiali e il libero esercizio all’estero da parte di persone fisiche.

Trattandosi di servizi la cosa riguardava anche la sanità e l’istruzione. Ed entro il mese di marzo 2003 anche l’Unione Europea doveva decidersi a fare la sua offerta. Già parlare di offerta fa un po’ venire in mente un’asta pubblica. E’ evidente che la cosa apre un problema su quanto istruzione e sanità attengano alla sfera dei diritti e quanto attengano alla sfera delle merci. Pensate che nell’insieme dei due settori si parla di un volume di affari di circa duemila miliardi di dollari, vale a dire due volte il mercato dell’auto a livello mondiale.

Naturalmente su ciò c’è stata una mobilitazione: il tema è stato oggetto dello stesso Forum Sociale che si è tenuto qui a Firenze. Contro questa ipotesi di commercializzazione dell’istruzione si sono mossi anche la Confederazione europea dei sindacati e l’Internazionale dell’Educazione.

Tenete presente che su terreni di questo tipo abbiamo un’Europa più restia, mentre 46 paesi a livello mondiale, tra cui Stati Uniti, Australia, Giappone e Nuova Zelanda, non si sono fatti troppi problemi.

Dire che l’Europa è restia non vuole però dire che tutto fili liscio, sia per le pressioni che subisce sia perché, per così dire, l’Europa predica bene, ma razzola male, soprattutto con le ex colonie dei paesi europei. Voglio dire: le ex colonie, prive di infrastrutture, cercano l’istruzione dove la trovano, anche sul mercato e di solito la trovano nelle metropoli ex-coloniali, soprattutto se si tratta di istruzione superiore. Ciò spinge questi paesi a non sviluppare sistemi educativi propri o tutt’al più a limitarli al settore primario. Viene qui fuori tutta l’ambiguità della globalizzazione.

Vi sono inoltre problemi circa la trasparenza di questi accordi e del modo in cui le commissioni incaricate li assumono.

Con la delibera del Parlamento Europeo, che il 21 marzo scorso ha deciso di non accedere a questi accordi commerciali nei campi di istruzione e sanità, il pericolo per ora l’abbiamo scampato. La delibera non a caso dice alcune cose precise: mette il dito nella piaga della trasparenza, dice "niente sanità e istruzione", sottolinea la diversità dei servizi culturali e pone l’attenzione sui rischi per i paesi del terzo mondo.

Non solo GATS

Però, perché dico per ora? Perché il fenomeno è comunque più vasto di quello che può essere contemplato da un accordo, ha una sua oggettività, prende le mosse da lontano nel tempo e nello spazio e quindi può riproporsi a tempi anche non lunghi.

Infatti a monte del GATS ci sono altri accordi internazionali, ad esempio quelli che sovrintendono alla costituzione dell’Unione Europea. Inoltre dentro alla globalizzazione ci si confronta di più. Dentro alla stessa europeizzazione ci si confronta di più.

Naturalmente non c’è nulla di male a confrontarsi ma ciò crea anche modelli, tendenze, dinamiche. Non tutto ciò di cui si discute viene rigidamente codificato ma è innegabile che si possano ritrovare codici di fondo. Così sul piano degli accordi possiamo trovare almeno tre livelli:

  1. quello degli accordi scritti, pochi, per fortuna, più o meno prescrittivi, come poteva essere quello del GATS;
  2. quello delle indicazioni di riferimento, che non sono prescrittive, ma che determinano tendenze comuni o convergenti ( ne sono un esempio le direttive europee o alcune indicazioni dell’Ocse)
  3. quello dei fenomeni di imitazione o di emulazione che hanno vari vettori: le indicazioni di cui sopra, il gruppi organizzati (associazioni, sindacati, confindustrie, Ocse, centri studi ministeriali, riviste), le motivazioni di fondo che stanno alla base.

E quali sono queste motivazioni di fondo? Ne individuerei almeno tre:

  1. La spinta alla concorrenza globale spinge all’emulazione ("La scuola, come l’erba, del vicino è sempre più verde")
  2. Il passaggio alla società della conoscenza e i suoi pesanti costi da ripartire tra i vari soggetti pubblici e, se possibile, anche sui privati (con una precisazione: quando si parla di società della conoscenza occorre pensare non solo ad un contesto economicamente più favorevole, perché, appunto, più colto, ma a una situazione in cui l’istruzione diventa essa stessa un settore per così dire produttivo oltre che il sapere una merce).
  3. Il passaggio dalla massificazione dell’istruzione alla sua mercificazione, secondo un’espressione che lo studioso belga Nico Hirt ha usato felicemente a Porto Alegre due anni fa.

Massificazione e/o mercificazione.

Che cosa è stata la massificazione dell’istruzione lo sappiamo, da Jules Ferry che alla fine dell’ottocento dava ordine ai suoi sindacai di aprire una scuola in ogni comune della Francia anche a costo di dover mettere a disposizione i propri uffici municipali fino al boom della scolarizzazione nostrana negli anni sessanta e settanta. Non c’è dubbio: la massificazione è legata all’idea dell’estensione di un diritto, dell’espansione di un diritto.

La mercificazione invece ha elementi espansivi e restrittivi al tempo stesso. Essa segue tre vie:

  1. formare in maniera più adeguata soggetti adatti al mercato del lavoro;
  2. educare e stimolare un consumo culturale ( una cosa un po’ più ampia e pervasiva della "vecchia" trasmissione di un’ideologia);
  3. aprire la scuola stessa alla penetrazione del mercato.

Va notato che il passaggio tra questi due stadi non è subitaneo, anzi è piuttosto lento e all’inizio poco consapevole. In quasi tutti i paesi industrializzati a partire dalla crisi petrolifera del 1974 e per tutti gli anni ottanta ci sono tagli episodici all’espansione scolastica, un calo complessivo della spesa pubblica.

E’ il riflesso prima della crisi economica, poi di quella occupazionale. Da noi in Italia dà luogo ad una politica contraddittoria: per tutti gli anno ottanta c’è ancora una pratica di statalizzazione ( pensiamo alla istituzione della Doa nel 1982 o alla riforma elementare nel 1985 con team tutti a personale statale) che convive con politiche di taglio (fine delle gratuità, straordinari obbligatori ecc.).

L’altro aspetto riguarda la formazione di forza lavoro più adeguata al mercato del lavoro. Orbene nel 1998 una ricerca del Ministero del Lavoro degli Stati Uniti ha fatto questa previsione per il 2008:

Si assiste cioè a una polarizzazione. Pensiamo che ciò non c’entri nulla con l’idea della Moratti di dividere la scuola secondaria in due tronconi: uno destinato ai saperi teorici e uno alla formazione lavoro? Voglio dire: non so se la Moratti conosca la ricerca del Ministero del Lavoro americano, ma è certo che questa tendenza alla polarizzazione l’abbiamo sotto gli occhi tutti giorno per giorno.

D’altra parte la stessa dualizzazione della scuola costituisce un fenomeno internazionale. Ha al suo interno anche spinte spontanee. Per esempio l’aumento delle iscrizioni ai licei ai danni degli istituti tecnici è un fenomeno a cui in Italia assistiamo da anni. In Belgio sono crollate le iscrizioni all’università. Il Francia calano le iscrizioni nei licei professionali a favore dell’apprendistato, in Germania succede il contrario.

In forma cosciente o inconscia anche gli stessi gruppi industriali ne sono investiti. Le Confindustrie europee chiedono al tempo stesso più formazione generale, per un bisogno di flessibilità futura, e più formazione specifica, per le esigenze produttive immediate. E questa schizofrenia corrisponde ormai solo in parte al dualismo tra grande industria e piccola industria o artigianato.

Va notato infine che con queste cifre la stessa polarizzazione è almeno quantitativamente diversa dalla vecchia divisione in classe dirigente e classe lavoratrice.

Gli accordi europei

Più che gli accordi GATS quelli che hanno avuto finora rilievo nei sistemi educativi sono gli accordi europei. Anche qui con la precisazione che si diceva prima: non un vero e proprio accordo ma una serie di indicazioni, perché i sistemi scolastici europei sono troppo diversi tra loro per poter azzardare in tempi brevi un unico sistema scolastico europeo.

Alcune tappe di questi accordi:

Questa relazione costituisce tra le ultime cose il punto di approdo più importante. Presenta due elementi chiave:

Quest’ultimo è solo uno slogan o un vero diritto (come dice un bel libro edito dal sindacato francese Fsu)? Perché dietro il long life learning si cela un terzo elemento chiave: la flessibilità. E per di più intesa come flessibilità totale: cambiamenti nell’organizzazione del lavoro, cambiamenti di posto di lavoro, adattabilità del lavoratore, modalità di certificazione delle competenze del lavoratore. Quest’ultimo aspetto a sua volta col duplice scopo di facilitare le assunzioni o l’idea che basti poco per averle e di privilegiare l’idea di una preparazione efficace piuttosto che i una preparazione efficiente, di una scuola efficace più che ben funzionante.

Gli obiettivi della relazione

Quali sono gli obiettivi individuati dalla relazione è presto detto:

  1. Migliorare la qualità e l’efficacia: migliorare la formazione degli insegnanti; sviluppare l’alfabetizzazione e il suo livello operativo; aggiornare le competenze di base, mantenere la capacità di apprendimento; garantire a tutti l’accesso alle TIC, attrezzando le scuole, coinvolgendo gli insegnanti e utilizzando le reti; incentivare gli studi scientifico-tecnici, soprattutto compensando i punti deboli (matematica, studi pedagogici) e incentivando le scelte femminili in tal senso; sfruttare meglio le risorse misurando la qualità e valutando.
  2. Facilitare l’accesso a tutti i sistemi di istruzione: aprire gli ambienti di apprendimento (accoglienza, orientamento, flessibilità, nvestimenti, risorse umane); rendere l’apprendimento attraente (incentivi, convalida competenze), promuovere la cittadinanza attiva ( riduzione insuccesso, occupazione).
  3. Aprire i sistemi educativi al mondo esterno: collegamento con la vita lavorativa (laboratori, alternanza, stages); sviluppare spirito di impresa (nel doppio senso di capitalismo e problem solving); migliorare l’apprendimento delle lingue straniere, soprattutto in giovane età; aumentare mobilità e scambi (progetti Socrates, Leonardo, Gioventù, Erasmus); incrementare la cooperazione europea.

Si fa presto a dire scuola aperta. Il tema si collega a quello dell’autonomia inteso come strumento di iniziativa e di apertura. Ma che cosa sono diventate tutte questa cose nel contesto liberista. Negli anni settanta uno diceva scuola aperta e veniva in mente un’organizzazione sociale, il quartiere, le grandi istituzioni della società civile. Oggi uno dice scuola aperta e viene in mente l’azienda, il mercato, lo sponsor.

Dalla età degli anni novanta su questi temi si è registrata una brusca frenata dei sindacati della scuola in molti paesi dalla Nuova Zelanda al Canada, dalla Svezia all’America Latina. E il caso italiano? E’ sotto gli occhi di tutti. Senza pregiudizi consiglio un libro di Norberto Bottani: "Insegnanti al timone?". E’ un po’ un’analisi impietosa di come l’autonomia possa diventare da strumento di democrazia strumento del liberismo.

Le indicazioni dell’Ocse

Sul medesimo terreno degli accordi non scritti ma impliciti si collocano le indicazioni dell’Ocse, che per la particolar natura dell’organismo, non saprei se definire più o meno istituzionali.

In questo momento dire Ocse vuol dire Pisa, vale a dire il programma di valutazione sul rendimento scolastico dei ragazzi quindicenni in matematica, scienze e lettura. Ebbene questa inchiesta ha dato grosso modo questi risultati:

Si tratta di un’inchiesta, non di un accordo: ma fa tendenza. Presenta problemi di lettura complessi: ma fa tendenza. In Germania, che è conciata peggio dell’Italia, è stato uno shock, ma anche lì manca il coraggio di affrontare il problema: il dualismo del sistema educativo mostra la corda, ma il comprensivismo non convince. Il titolo professionale per tutti è pagato con un basso livello di preparazione che diventa abissale nei settori più poveri della popolazione.

Sui bassi livelli di reddito l’Italia è meglio, è quasi in media Ocse. In Italia questa inchiesta un po’ viene usata dal Governo per invocare il cambiamento, un po’ viene nascosta perché una delle parole d’ordine della Moratti era "fare come la Germania" ( nel senso del sistema duale), ma si è visto che la Germania sta peggio di noi.

E qui siamo di fronte ad un caso paradossale: l’inchiesta boccia il modello duale, ma i governi, non solo quello italiano, ne traggono la conseguenza opposta. Andreas Schlecher , a capo del progetto ha detto testualmente che l’inchiesta mostra l’efficacia dei sistemi non selettivi e non segregazionisti contro quelli selettivi e segregazionisti, soprattutto in Europa, come dimostra il buon andamento di Finlandia e Svezia.

Dunque anche dall’Ocse non arriva un messaggio univoco!

Le tendenze comuni in Europa.

Dicevamo prima che siamo molto lontani da un sistema scolastico unico in Europa. Nondimeno come per il resto dello stato sociale vi sono alcuni elementi che accomunano l’Europa. Fra tutti l’elemento che rende la scuola europea più coriacea al neoliberismo e al mercantilismo è il suo carattere pubblico, anzi, il più delle volte, statale.

Per quello che riguarda i sistemi scolastici l’Europa può dividersi storicamente grosso modo in tre aree (sottolineo storicamente perché ultimamente sono intervenute alcune modifiche, ma dal momento che la scuola è un sistema vitale le modifiche ci mettono molto a essere metabolizzate):

  1. L’area britannica comprendente le isole, ma anche Olanda e Belgio, caratterizzata da scuole piuttosto autonome, dove sembrano prevalere rapporti di lavoro di tipo quasi commerciale, anche con molte scuole private: è l’area più vulnerabile al mercantilismo.
  2. L’area mediterranea-latina a tradizione centralista e statalista, caratterizzata da forme di lobbysmo politico, più forte e redditizio in Francia, meno in Italia: è l’area probabilmente più conflittuale col mercantilismo
  3. L’area germanico-nordica dove le scuole dipendono prevalentemente dalle autonomie locali (lander o comuni), sono a gestione aziendale-industrialista: è l’area forse più immobile, ma anche più resistente al mercantilismo.

L’era mediterranea è quella più in trasformazione. Negli ultimi anni si sono avuti parecchi cambiamenti: la scuola spagnola si è regionalizzata sul modello tedesco, in Italia è stata introdotta l’autonomia scolastica e in Portogallo è stata introdotta la valutazione dei docenti, anche se in forma soft. La Francia è rimasta un moloch centralista che finora ha decentrato solo l’edilizia scolastica e solo ora tra mille contraddizioni e tensioni parla di "decentralisation": nondimeno il sistema ha ovviato al rischio dell’inflessibilità con l’accentuazione delle articolazioni segmentali sia nel sistema che nella professione docente.

Comunque dentro tutte queste differenze ci sono tendenze comuni che lasciano intendere quanto i diversi ministeri oggi "si parlino" (soprattutto poi se appartengono ad un medesimo schieramento politico). Queste tendenze comuni sono:

Le dinamiche comuni.

Queste tendenze comuni provocano reazioni comuni soprattutto nel corpo docente. Christian Morrison dell’Ocse aveva scritto nel 1996: "La riforma più spesso necessaria e la più pericolosa è quella delle istituzioni pubbliche, che si tratti di riorganizzarle o di privatizzarle. Questa riforma è molto difficile perché i salariati di questo settore sono spesso ben organizzati e controllano settori strategici. Si batteranno con tutti i mezzi possibili, senza che il governo sia sostenuto dall’opinione pubblica. Quanto più un paese ha sviluppato un grande settore parapubblico, tanto più questa riforma sarà difficile da mettere in piedi". E’ esattamente ciò a cui stiamo assistendo in Italia e in altri paesi europei. In Italia dal 1994 gli insegnanti costituiscono il settore più refrattario al neoliberismo della destra e del governo: nonostante le fortune democristiane del passato nel 1996 il 70% votò Ulivo e la fine della luna di miele col governo di centro sinistra ha spostato nel 2001 solo il 10% di questo elettorato ma non sulle posizioni governative bensì sulle liste intermedie.

Il culmine di queste reazioni in Europa si è avuto tra la metà di ottobre e quella di novembre quando con quattro scioperi in Italia, Francia, Spagna e Portogallo è sceso in sciopero circa un milione e e mezzo di insegnanti e lavoratori della scuola. Un movimento che è stato sottovalutato e che dura ancora oggi. Proprio oggi in Francia la scuola fa il quinto sciopero dall’inizio dell’anno con buona pace di Barbiellini Amidei che sul Corriere di ieri attribuiva gli aspri toni della polemica in Italia ad un vezzo polemista tutto nostrano.

Ecco, forse più che il GATS sono queste misure che meritano la nostra attenzione, perché esse sono la premessa perché il GATS possa passare: rompere, modificare l’incrostazione statalista, dividere, scacciare, sradicare gli insegnanti sotto diverse amministrazioni. C’è anche un fine diretto e strumentale in tutto ciò,quando un governo come questo, diversamente da tutti quelli che lo hanno preceduto, sa che per lui presso gli insegnanti "non c’è trippa pe’ gatti!".

Dobbiamo sapere che ognuno ha ragioni particolari per resistere a tutto ciò: il docente di storia a cui vogliono controllare i testi per difendere le libertà accademiche, il ricercatore perché la ricerca non sia sottoposta alla redditività economica, l’insegnante tecnico perché si sente declassato, l’insegnante di cultura generale o di matematica perché lo si vuole convincere a tollerare un basso livello di preparazione degli alunni, i maestri elementari perché rischiano di ridursi ad animatori. Tutte queste ragioni devono trovare una unificazione. Il sindacato deve dare loro i motivi e gli strumenti per trovarla.

Firenze 6 maggio 2003 PINO PATRONCINI