Seminario n. 3

Valore sociale della conoscenza: saperi e progetto culturale

 

La discussione, molto ricca e articolata, a tratti anche difficile da ricondurre ad un filo conduttore, può essere sintetizzata raggruppando le argomentazioni in 4 aree tematiche.

 

Prima area. Il valore sociale della conoscenza. Alla base del valore sociale della conoscenza è possibile individuare un fondamento istituzionale, che si richiama alla Costituzione e ci ricorda che istruzione e conoscenza sono due potenti strumenti per ridurre ed eliminare le differenze sociali. C’è però anche un altrettanto importante fondamento valoriale: la conoscenza, infatti, pur prevedendo un processo di acquisizione e apprendimento personale, non si può ridurre a questa sola dimensione; l’apprendimento individuale, infatti, fonda le sue radici nel riconoscimento pubblico, nella sua funzione sociale, per questo si può dire che la conoscenza è un bene pubblico, un bene comune, in quanto tale, indivisibile, che quindi per sua natura è restio ad essere trasformato in merce.

Se queste sono le premesse generali, il problema oggi si presenta sotto una veste molto definita: ovvero capire a quali condizioni il sapere e la conoscenza rimangono un patrimonio sociale, dato che ci troviamo di fronte ad una strategia internazionale molto articolata che punta a brevettare la conoscenza per ridurla a semplice merce.

Per progredire in questo ragionamento si è individuato un elemento di fondo: la necessità di distinguere con nettezza tra società della conoscenza ed economia della conoscenza, tema su cui esistono molteplici sfaccettature, che richiedono un approfondimento serio.

Certamente la società della conoscenza prevede più conoscenza per tutti, mentre l’economia della conoscenza, riducendo la conoscenza esclusivamente a merce, implica una separazione selettiva tra chi possiede la conoscenza e chi invece è solo inserito nei meccanismi produttivi con ruoli sociali subordinati. Ma questa distinzione generale non basta. Nella nostra idea di società della conoscenza deve entrare anche un ragionamento su come si configura il lavoro nella nostra civiltà, perché se per un verso è vero che oggi nel lavoro c’è più conoscenza è anche vero che le aspettative degli studenti sono continuamente frustrate perché non è così in tutti i lavori. Eppure per tutti gli anni 90 si è detto che società della conoscenza implicava un aumento dei lavori carichi di conoscenza, oggi invece ci troviamo in una situazione sociale che sta andando in senso opposto, perché si stanno separando sempre di più i lavori ricchi di conoscenza (sempre pochi) da quelli parcellizzati esecutivi e subordinati, che comunque richiedono adattabilità e flessibilità ai lavoratori stessi, che, d’altra parte possono essere fornite solo da un alto livello di cultura. Questo vuol dire che sia i lavori carichi di conoscenza sia quelli che ne sono privi, per motivi diversi, richiedono tutti una formazione di base con un ampio spettro culturale, non professionalizzante, per consentire ai giovani di orientarsi nel mercato del lavoro.

Se tutto ciò è vero, quali condizioni garantiscono oggi la funzione sociale della conoscenza? Come garantire il diritto d’accesso alla conoscenza? Sapendo che nella scuola qualcosa è già cambiato negli ultimi anni e ai processi di aziendalizzazione che interessano la società (che vuol dire accentramento delle decisioni, caduta della democrazia partecipativa, o se volete, della partecipazione con potere decisionale) corrisponde nella scuola un’accentuazione della dimensione unilaterale, sia in termini gestionali che comunicativi, quella per cui la lezione frontale rimane simbolo dell’apprendimento.

 

Seconda area. I saperi. Per approfondire il ragionamento sui saperi occorre ripartire dall’idea che la conoscenza anche se ha una dimensione individuale, perché l’apprendimento è anche un fatto personale, acquista senso e si sedimenta solo in una dimensione collettiva. Questo comporta una fortissima opposizione ai processi di personalizzazione del curricolo voluti dal ministro Moratti, mentre c’è il bisogno di valorizzare il processo collettivo di conoscenza come un processo di negoziazione, di gestione dei conflitti, di incontro tra vissuti ed esperienze diverse. In questa prospettiva grande attenzione va data ai saperi formali non formali ed informali, troppo spesso, infatti, si sottovaluta la differenza tra i saperi dei bambini e ragazzi e quelli degli adulti. Questo ultimi spesso danno per scontato che il loro impianto, il loro atteggiamento, le loro strutture epistemologiche siano le stesse dei ragazzi, o (e forse è peggio) quando non sono le stesse vuol dire che sono sbagliate. Oggi certo la divaricazione è sempre più ampia e cambia di segno di continuo nel corso del tempo. E di fronte a queste continue trasformazioni troppo bassa nella scuola attuale è la consapevolezza e la conoscenza di quali siano i processi attraverso cui bambini e ragazzi formano i loro concetti, la loro visione del mondo.

Questi sono i problemi molto seri che si incontrano se davvero si vuole costruire una scuola nuova.

Inoltre la questione dei saperi va affrontata sottolineando che i saperi sono sicuramente base della cittadinanza, sono un diritto di cittadinanza non solo in funzione del lavoro, ma anche in funzione della partecipazione sociale. Occorre quindi ragionare verso quale cittadino ci vogliamo muovere, superando quello che qualcuno ha chiamato il cittadino come erudito del passato, quello prodotto dai licei. E’ urgente, quindi, recuperare la riflessione su quali competenze di base servano per essere cittadini consapevoli.

Sul piano della ricaduta pedagogica e didattica, è stato sottolineato che il modello di trasmissione / costruzione dei saperi comunica una visione del mondo. Se si segue il modello fordista, il curricolo scolastico si configura in termini di accumulazione di segmenti di sapere e non come riorganizzazione continua della visione del mondo secondo un impianto evolutivo della costruzione di conoscenza. Solo questa seconda impostazione sembra corrispondere alla finalità di rendere le persone consapevoli del mondo in cui stanno e capaci di agire in questo mondo per cambiarlo (se si vuole).

Sul piano epistemologico è stato ricordato che oggi la caratteristica della conoscenza contemporanea è che si muove soprattutto nelle aree di confine tra le discipline, in aree interdisciplinari che richiedono una revisione profonda delle materie scolastiche ed un ripensamento profondo del pensare la scuola per materie.

Sul piano sociale è stato, infine, rilevato come oggi si stia configurando una nuova recrudescenza di episodi di analfabetismo, certamente sul piano delle capacità di base (il così detto analfabetismo di ritorno nelle capacità di leggere, scrivere e far di conto), ma anche in ambiti nuovi per cui si può parlare di analfabetismo relazionale, nell’incapacità di sostenere le relazioni ed i conflitti interpersonali, e di un pericolosissimo analfabetismo scientifico.

 

Terza area.  Come lavorare? Per rispondere a questa domanda sono state indicate due premesse fondamentali. La prima è che la scuola “produce” saperi, non è quindi solo un luogo di trasmissione e di assimilazione di saperi altrove prodotti. La seconda è che la scuola lavora sul “sistema operativo” e non sui “programmi”, quindi costruisce le strutture concettuali di base che dovranno servire per tutta la vita. Per rispondere a questi orizzonti non serve un impianto trasmissivo, la scuola pubblica deve costruire senso critico ed autonomia, non può essere nozionistica. Qui è stata individuata la pericolosità dei programmi della Moratti e si è sottolineato come sia indispensabile che la scuola lavori sulle domande e non fornisca solo risposte.

 

Quarta area. Alcune ricadute. Se il nozionismo è il nemico da battere occorre individuare le condizioni organizzative che garantiscano i tempi distesi dell’apprendimento, che valorizzino la funzione del lavoro di gruppo, che consentano, nell’impianto organizzativo della scuola, la possibilità di fare ricerca, come metodo di apprendimento. Queste sembrano essere alcune condizioni che permettono di far sì che a scuola si facciano esperienze significative.

In merito al disagio, ormai dilagante, degli adolescenti a scuola, va detto con chiarezza che viene da lontano e ha ben poco a che fare con la riforma Moratti, che ancora non ha toccato la scuola superiore, (anche se questo è solo parzialmente vero perché la finanziaria ha radicalmente trasformato la scuola superiore, e, anche senza toccare i programmi, ha rilanciato e legittimato il nozionismo): gli studenti stavano male anche prima.

Infine in più interventi è stato rimarcato come oggi non bisogna più lavorare per grandi riforme ma capire quali sono le condizioni organizzative che possono consentire alla scuola di far bene il suo mestiere, anche se occorre riflettere a fondo su quale sia oggi il mestiere della scuola.

 

Nella discussione è stata anche proposta una sorta di provocazione intellettuale in merito alla stessa ragion d’essere della scuola così come la conosciamo noi; ci si è cioè chiesto se la scuola pubblica serva ancora o piuttosto non bisogna pensare a modelli diversi, perché la scuola così come la continuiamo a pensare è un residuo ottocentesco.

 

Infine il gruppo avanza la proposta di avviare attraverso il Forum ed il Tavolo nazionale un osservatorio che censisca e metta in circolazione le buone pratiche che comunque in questi anni difficili si continuano a realizzare nelle scuole pubbliche.