7° SEMINARIO:

LA SCUOLA DI TUTTE/I:

INTERCULTURA, INTEGRAZIONE, DIRITTI DI CITTADINANZA

 

Una considerazione: a occhio i presenti in sala stamane sono meno della somma dei partecipanti ai seminari di ieri. Leggo questo dato come segnale di un desiderio di confronto, di scambio di esperienze, di approfondimento, di costruzione di rete a partire dalle pratiche.

 

Il gruppo dei partecipanti al seminario che ho coordinato era assai composito: docenti di vari ordini di scuola e dell’università, mediatrici culturali, operatori di ONG, sindacalisti, membri di amministrazioni locali, esponenti dell’associazionismo di genitori, di immigrati, del mondo ambientalista.

Dai lavori del seminario riporterò alcuni flash, poiché i tempi non consentono una trattazione più articolata del quadro di temi, di problemi e di esperienze emerso.

 

·        diritti di tutti

Partiamo dai diritti: i diritti o sono di tutti oppure mutano natura, virano: da diritti diventano privilegi.

Allora il problema dell’integrazione non riguarda solo i figli di migranti, profughi, nomadi, ma tutti e si declina nel diritto a buoni servizi per  la fascia da 0 a tre anni,  a una scuola per l’infanzia pubblica, generalizzata (e, secondo alcuni partecipanti, esclusivamente statale); in generale nel diritto ad una scuola di qualità che sappia leggere e  affrontare il disagio e il malessere (di chi la frequenta e di chi vi opera), che sappia e possa praticare l’integrazione dei ragazzi handicappati (e invece vengono tagliati risorse e insegnanti di sostegno), che sappia e possa contrastare efficacemente la dispersione.

 

·        diritti di ciascuno/a

I diritti sono di tutti solo se sono di ciascuno/a.

Allora emergono domande ineludibili:

-         come garantire a tutti non solo l’accesso a scuola, ma un reale esercizio del diritto all’istruzione?

-         Come accogliere a scuola corpi, memorie, esperienze, competenze, saperi quotidiani, bisogni, modi di essere e di vedere il mondo diversi?

-         Come ascoltare  e decifrare  il silenzio in  cui a volte per lungo tempo i figli dei migranti si chiudono, si rifugiano o semplicemente si attestano per  osservare, capire, ri-collocarsi in un contesto ancora non famigliare?

-         Come organizzare gli interventi? Il rischio, che spesso è anche tentazione diffusa, è quello di rimuovere il problema, di delegare, di cercare soluzioni fuori dal gruppo classe e perfino fuori dalla scuola. Ci vuole attenzione perché processi di emarginazione e di ghettizzazione possano passare anche attraverso strade,  progetti e iniziative al di sopra di ogni sospetto. E accade che  si traducano in pratiche che mettono insieme ragazzini di varie provenienza per insegnare loro l’italiano in spazi separati, sottratti alla full immersion, linguisticamente ricchissima,  nel contesto della classe.

 

·        cultura non è folclore

Occorre distinguere la diversità culturale, la conoscenza delle diverse culture e il loro riconoscimento da quello che è folclore, cultura morta, ipostatizzata, fuori dalla storia, costume obsoleto.

E se da un lato, gli alunni e gli studenti di provenienza non italiana, non vanno visti come privi di cultura: nessuno lo è poiché ogni individuo è al tempo stesso portatore, interprete e produttore di cultura, dall’altro va senz’altro evitato di chiedere al figlio/a di migranti di fare da testimone (o peggio da rappresentante) di una presunta cultura d’origine: magari quello/a è nata e vissuta in Italia, sta facendo di tutto per essere ed essere considerato come tutti gli altri, magari è una ragazza che in famiglia cerca di opporsi a qualche rigidità dei precetti della cultura o della religione d’origine dei genitori (che non necessariamente sono tout court le sue…)

 

 

·        oltre le radici identitarie

Né possiamo continuare a pensare all’identità intesa solo come origini, come radici più o meno  aggrovigliate. L’identità sempre, ma tanto più oggi nella società multiculturale, globalizzata, complessa è un processo aperto, dinamico, mutevole che accompagna tutto l’arco della vita degli individui e si compone, scompone e ricompone nel gioco delle esperienze di vita, degli incontri, delle relazioni che danno corpo alla soggettività.

 

·        e allora che cos’e’ “intercultura”?

E’ emersa per prima una definizione in negativo: “intercultura”, come anche ciò che per brevità indichiamo con “integrazione”, non è assimilazione, né micro o macro neocolonialismo culturale.

Nel gruppo abbiamo detto che è fare insieme, fare con più che fare per, dialogare, condividere, scambiare. A partire da quello che Ernesto De Martino chiamava “l’elementarmente umano”.

In una prospettiva di questo tipo, allora, il cibo condiviso, la festa preparata insieme, la cura per gli spazi e i tempi delle narrazioni reciproche non è folklore, ma costruzione comune, perfino embrione di nuove ritualità intese come produzione di modi per condividere collettivamente eventi e passaggi significativi. “Tradizioni orizzontali” le ha chiamate Maurizio Bettini,  modalità nuove di segnare relazioni di appartenenza  che non si radicano nel passato, in una dimensione diacronica, ma nell’orizzontalità del territorio abitato insieme nella dimensione sincronica della contemporaneità e della compresenza di culture diverse.

Non è facile, né scontato.

La prospettiva dell’interculturalità ci sfida e spesso ci mette in scacco. Vi siete mai trovati a spiegare Dante davanti a una classe che comprende tre ragazzi moldavi e due rumene? Ha chiesto un’insegnante che, per l’appunto,  ci  si è trovata.

Assumere l’intercultura come progetto ci sollecita a ripensare complessivamente la scuola e il modo di farla:  come ne vengono ridefiniti  l’organizzazione del lavoro in classe, i   contenuti e i metodi, i curriculi e la didattica delle discipline? Come cambia ad esempio la didattica della lingua italiana quando si confronta con l’insegnamento dell’italiano come lingua 2 o con l’esigenza  (e l’opportunità) della valorizzazione delle lingue madri d’origine? E la storia potrà continuare ad avere come oggetto esclusivo l’Occidente e ignorare la multilinearità dello sviluppo storico, le contaminazioni, i tanti processi di acculturazione (intesa come incontro/scontro tra culture diverse) che caratterizzano, nel passato e nel presente, la storia del mondo?  Sorvoliamo, ma solo per esigenze di tempo, sulla totale, grave, inadeguatezza delle indicazioni nazionali anche su questi aspetti.

Non basta: la prospettiva dell’interculturalità interroga la professionalità docente e i suoi limiti. Che cosa comporta il passaggio da una funzione di mediazione culturale ad una funzione, ineludibile soprattutto nelle classi multiculturali,  di mediazione interculturale?

La questione non riguarda solo i docenti: il personale ATA ad esempio si trova a svolgere un ruolo importante per quanto riguarda l’accoglienza e il primo orientamento tra gli spazi e i modi di funzionare della scuola.

E riguarda anche altre funzioni e figure. Mediatore culturale e/o interculturale, traduttore, facilitatore linguistico, testimone privilegiato… non sono sinomini. Quale il loro ruolo di ciascuna di esse? Quale riconoscimento e quale rapporto di lavoro?

Ancora. L’intercultura ci fa fare i conti con i pregiudizi, gli stereotipi, con i luoghi comuni. Quelli nostri sugli altri e quelli degli altri su di noi, dentro al gioco delle immagini reciproche.

Ci fa fare i conti con la dimensione del conflitto, sempre presente nei contesti multiculturali (conflitti cognitivi, relazionali, valoriali, conflitti tra individui e comunità…); ci mette in contatto  con la pluralità dei punti di vista. E con la parzialità di ciascun punto di vista. Parzialità che nel seminario è stata vista come risorsa, come “antidoto agli ismi”: fondamentalismi, integralismi…

 

·        stare in ricerca per una cultura di pace

Insomma, la prospettiva interculturale ci fa stare in ricerca, senza fretta di arrivare alle soluzioni e alle conclusioni (sembrava di sentire le parole di Marianella Sclavi “…Non avere fretta di arrivare alle conclusioni. Le conclusioni sono la parte più effimera della ricerca…”). Atteggiamento necessario per non cadere nella logica dell’emergenza.

Emergenza non fa rima con intercultura e tantomeno con educazione.

Sono tutte questioni da affrontare in rapporto al progetto educativo della scuola nel suo complesso. Una scuola  che di quel progetto deve avere responsabilità e titolarità.

E per farlo ci vuole cooperazione, ricerca, responsabilità  professionale, capacità progettuale.

Ci vogliono risorse e rete per socializzare buone pratiche, scambiare strumenti, elaborare i problemi. Quella rete che anche qui abbiamo cominciato, o meglio,  continuato a tessere. Ma bisognerà pensare ad altre occasioni e appuntamenti per allargarla e consolidarla.

 

Tutto ciò è proprio quello che il disegno della maggioranza di governo vuole distruggere. Anche per questo quel disegno va fermato e tolto di mezzo.

Perché le scuole possano essere terre di mezzo, luoghi della risonanza delle diverse storie e culture, luoghi dell’accoglienza di tutti dove esercitando il diritto all’istruzione, nell’incontro quotidiano fra diversità e nella condivisione di esperienze significative non ci si limita a trasmettere cultura, ma si produce nuova cultura. Intercultura appunto.

E cultura di pace perché viene elaborata attraverso il riconoscimento dei conflitti e la loro gestione con modalità non distruttive ma creative.

 

               Diana Cesarin, Movimento di Cooperazione Educativa