ECC.MA CORTE COSTITUZIONALE

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Udienza 26 ottobre 2004

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Memoria

per LAUTSI Soile e altri, con gli Avv.ti Luigi Ficarra, Prof. Massimo Luciani e Corrado Mauceri,

nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale

promosso dal TAR del Veneto, Sez. I, con ordinanza rubricata al n. 433/2004 R.O.

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I

Hanno spiegato intervento nel presente giudizio i Sigg.ri Paolo Bonato e Linicio Bano. Questa difesa, pienamente convinta della carenza di fondamento di tutte le deduzioni degli intervenienti privati (come più avanti - si confida - si dimostrerà), si rimette al prudente apprezzamento di codesta Ecc.ma Corte costituzionale quanto alla valutazione di ammissibilità del riferito atto di intervento.

II

La questione di legittimità costituzionale che oggi perviene all’esame della Corte è certamente rilevante e ammissibile.

II.1.- La questione è sorta nell’ambito di un giudizio promosso dalla Sig.ra Soile Lautsi, in proprio e nella qualità di madre dei minori Sami e Dataico Albertin, nati - rispettivamente - nel 1990 e nel 1988, iscritti (nell’anno 2002) alla 1^ e alla 3^ classe dell’Istituto comprensivo statale “Vittorino da Feltre” di Abano Terme (PD).

Nel ricorso introduttivo di detto giudizio si chiedeva l’annullamento della deliberazione 27 maggio 2002 dell’Istituto scolastico sopra menzionato, nella parte in cui aveva determinato di lasciare esposti negli ambienti scolastici i simboli religiosi, nonostante l’opposizione della stessa Sig.ra Lautsi e del Sig. Massimo Albertin, padre dei minori Sami e Dataico Albertin. Tra i vari motivi di ricorso era presente anche la censura di violazione della Costituzione, per molteplici profili, da parte della normativa vigente in materia.

La fattispecie oggetto del giudizio principale è stata “accuratamente descritta dal remittente”, così come riconosce lo stesso Presidente del Consiglio nell’atto di intervento nella presente controversia. Per tale profilo, pertanto, l’ordinanza possiede i requisiti che sono indispensabili onde si possa validamente sollevare una questione incidentale di legittimità costituzionale (v., da ultimo, exempli gratia, ord. n. 122 del 2004).

II.2.- Gli intervenienti privati (le loro argomentazioni vengono qui contrastate nella loro oggettività, con riserva della pronuncia della Corte sull’ammissibilità dell’intervento) eccepiscono l’inammissibilità della questione in quanto, a loro avviso, sarebbero state censurate norme regolamentari e in quanto nessuna delle norme censurate disporrebbe l’obbligo di esporre il crocifisso nelle aule scolastiche, come invece ritenuto dal remittente. Entrambe queste eccezioni sono destituite di qualsivoglia fondamento.

II.2.1.- Quanto alla prima eccezione, è agevole osservare che il TAR del Veneto ha svolto un’accurata e convincente argomentazione in ordine al rapporto tra le fonti, primarie e secondarie, vigenti in materia. Secondo la limpida argomentazione del remittente, invero:

a) il fondamento dell’obbligo di esposizione del crocifisso deve essere rinvenuto in norme regolamentari che sono oggetto di rinvio da parte di norme legislative. Si tratta, quanto alle norme secondarie, dell’art. 118 del r.d. n. 965 del 1924 e dell’art. 119 del r.d. n. 1297 del 1928 (e allegata Tabella C), mentre quanto alle norme primarie si tratta del r.d. 6 maggio 1923, n. 1054, e del r.d. 5 febbraio 1928, n. 577, nella formulazione di cui al lgs. 16 aprile 1994, n. 297 (che ha approvato il Testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado);

b) le norme regolamentari, oggetto di rinvio da parte di quelle legislative (artt. 159, 190 e 676 del d. lgs. n. 297 del 1994), specificano il contenuto delle locuzioni di genere “arredi” e “arredamento”, contenute nelle norme legislative;

c) conseguentemente, la censura indirizzata alle predette norme legislative è chiaramente ammissibile. Come rileva puntualmente il remittente, “ferma, secondo l’insegnamento della Corte, l’inammissibilità del controllo diretto dei regolamenti da parte della Corte costituzionale, ne è invece ammissibile il controllo indiretto (cfr. le sentenze 30 dicembre 1994, n. 456, e 20 dicembre 1988, n. 1104), nei casi in cui una disposizione di legge «trova applicazione attraverso le specificazioni espresse dalla normativa regolamentare, i cui contenuti integrano il precetto della norma primaria» (Corte cost., 456/94 cit.)”.

Questo itinerario argomentativo è ineccepibile. Si può aggiungere, semplicemente, che la più recente giurisprudenza costituzionale conferma l’esattezza della ricostruzione operata dal remittente.

Afferma, invero, l’ord. n. 193 del 2004 che “qualora nella disciplina di determinati rapporti sia stata adottata la tecnica del rinvio da una fonte normativa ad altra di per sé inapplicabile ai rapporti stessi, «il dubbio di costituzionalità si incentra sulla norma di rinvio piuttosto che su quella oggetto del rinvio, proprio perché è questa tecnica a determinare l’applicabilità di una disciplina al di fuori della materia e delle garanzie tipiche di essa» (v. sentenza n. 239 del 1997, nonché ordinanza n. 359 del 1997 e sentenza n. 26 del 1998)”. Nella specie, come si è visto e come meglio si vedrà più avanti, le norme legislative censurate rinviano a norme regolamentari: conseguentemente, la censura investe direttamente fonti primarie e non, come erroneamente affermato dagli intervenienti privati, fonti secondarie.

Con logica consequenzialità, la cit. ord. n. 193 del 2004 ha dichiarato inammissibile una questione che si appuntava su norme legislative oggetto di rinvio da parte di norme regolamentari, con la conseguenza che vero oggetto sostanziale della questione erano, in realtà, queste ultime. Per non meno logica consequenzialità, nell’opposta fattispecie che oggi ne occupa, la conclusione non può che essere parimenti opposta, dovendosi affermare la piena ammissibilità della questione incidentale di legittimità costituzionale sollevata dal TAR del Veneto, in quanto ha ad oggetto norme di legge, sia pur connesse a norme regolamentari che ne specificano il significato normativo in forza di rinvio da parte delle prime.

Per giungere a tale conclusione non v’è bisogno di approfondire la vasta discussione dottrinale sulla nota tesi espositiana del “diritto vivente regolamentare”, secondo la quale nel giudizio di costituzionalità delle leggi non si può non tenere conto dei regolamenti che ne “abbiano determinato o specificato l’effettiva significazione” (C. ESPOSITO, Diritto vivente, legge e regolamento di esecuzione, in Giur. cost., 1962, 606). Nel caso che ne occupa, infatti, abbiamo due sicuri dati di diritto positivo:

a) così come affermato dallo stesso Consiglio di Stato nel Parere Sez. II, 27 aprile 1988, n. 63/1988 (e come – è stato osservato da G. D’ALESSANDRO, Un caso di abrogazione indiretta?, in AA.VV., La laicità crocifissa?, cit., 96 – l’Amministrazione scolastica mostra di ritenere), le norme regolamentari che sono oggetto del rinvio da parte di quelle legislative non sono mai state espressamente abrogate (sicché non vi è oggi alcuna “metempsicosi” delle norme regolamentari, come ritiene R. BIN, Inammissibile, ma inevitabile, in AA. VV., La laicità crocifissa? Il nodo costituzionale dei simboli religiosi nei luoghi pubblici, a cura di R. Bin - G. Brunelli - A. Pugiotto - P. Veronesi, in corso di pubblicazione, 75 sgg. delle bozze), né ha provveduto a farlo l’art. 676 del d. lgs. n. 297 del 1994, che, anzi, ha confermato la loro vigenza;

b) non è dubbio che, pur non menzionandole esplicitamente, gli artt. 159 e 190 del d. lgs. n. 297 del 1994 rinviino alle norme regolamentari sopra indicate. Essi, per un verso, non danno alcuna definizione di “arredo scolastico”, sicché implicano il richiamo delle fonti che tale definizione contengono; per l’altro, rinviano con tutta chiarezza a quelle stesse fonti, atteso che utilizzano l’espressione “arredi scolastici” e “arredamento”, proprio come le citate fonti regolamentari (e sì che avrebbero potuto servirsi di formule più “moderne”, come, ad es., “dotazioni scolastiche”).

In realtà, ci troviamo qui esattamente nella medesima situazione già scrutinata nella sent. n. 1104 del 1988, che ha ammesso una quaestio su una norma legislativa per come riempita di significato da un regolamento (così, esattamente, L. BRUNETTI, Questioni interpretative “minime” e dilemmi costituzionali, in AA. VV., La laicità crocifissa?, cit., 53; G. D’AMICO, Il combinato disposto legge-regolamento di esecuzione dinanzi alla Corte costituzionale (note sui profili di ammissibilità dell’ordinanza sul crocifisso, ivi, 104). Tale pronuncia, infatti, ha rilevato che la norma legislativa allora censurata “risulta in concreto applicabile attraverso le specificazioni formulate nella fonte secondaria, che, se pur temporalmente anteriore, e stata successivamente richiamata a completamento del contenuto prescrittivo della norma primaria. In proposito va rilevato come l’art. 2 del d.P.R. n. 156 del 1973, nel far salve le precedenti disposizioni regolamentari fino all’emanazione del nuovo regolamento postale, abbia recepito e convalidato i contenuti normativi di tali disposizioni, in quanto compatibili con il nuovo testo unico, determinando di conseguenza l’integrazione della fattispecie prevista dall’art. 6 dello stesso d.P.R. n. 156 con quella contemplata nell’art. 89, secondo comma, del R.D. n. 1198 del 194l”.

Oggi come allora abbiamo: a) una norma di legge il cui contenuto normativo è specificato da fonti secondarie; b) la temporale anteriorità di tali fonti secondarie; c) il loro mantenimento in vigore da parte di una norma primaria. La conclusione da raggiungere oggi, pertanto, non può essere diversa da quella raggiunta allora.

II.2.2.- Quanto alla seconda eccezione, essa appare erroneamente presentata in termini di inammissibilità: gli intervenienti, in realtà, prospettano un’interpretazione della normativa vigente diversa da quella avanzata dal giudice remittente e tale - ad avviso degli intervenienti medesimi - da rendere vano il dubbio di costituzionalità. Conseguentemente, l’eventuale accoglimento di tale prospettazione interpretativa dovrebbe condurre ad una pronuncia (di rigetto) nel merito, non ad una declaratoria di inammissibilità. Per questo, sul punto si tornerà più avanti, in sede di esame del merito della questione.

II.2.3.- Un’ulteriore eccezione è formulata dalla difesa erariale, ad avviso della quale la questione sarebbe stata sollevata da un giudice “ictu oculi” carente di giurisdizione.

Fermo restando quanto subito appresso si osserverà in ordine ai limiti del sindacato di ammissibilità delle quaestiones legitimitatis compiuto da codesta Ecc.ma Corte costituzionale, è sin d’ora agevole replicare che la carenza di giurisdizione del giudice amministrativo è tanto poco rilevabile “ictu oculi” che in altra (e ben nota) fattispecie è stato affermato l’esatto contrario, e cioè che la giurisdizione in simili controversie non sarebbe del giudice ordinario, bensì proprio di quello amministrativo.

Si legge, invero, nell’ordinanza 19 novembre 2003 del Tribunale civile de L’Aquila, in composizione collegiale, adìto con reclamo ai sensi dell’art. 669 terdecies cod. proc. civ. per la riforma dell’ordinanza cautelare del medesimo Tribunale in data 23 ottobre 2003 (proc. n. 1383/03, Giudice Montanaro), che:

a) l’art. 33, comma 2, lett. e), del d. lgs. n. 80 del 1998 affida il “servizio della pubblica istruzione” al giudice amministrativo, escludendo solo i “rapporti individuali di utenza con soggetti privati” e “le controversie meramente risarcitorie che riguardano il danno alla persona o alle cose”;

b) l’istruzione è un pubblico servizio;

c) l’eccezione alla giurisdizione esclusiva in materia di pubblici servizi “va interpretata in modo necessariamente rigoroso”, sicché “l’esclusione presuppone che si tratti di controversie che investano direttamente il rapporto individuale e le prestazioni che ne derivano, rimanendo invece attratte nella giurisdizione esclusiva le controversie nelle quali sono in discussione, oltre la fonte del potere, i precetti generali”;

d) le norme da applicare nelle controversie relative all’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche sono “di carattere generale ed organizzativo”, sicché “spiegano i loro effetti verso una platea indifferenziata di soggetti”, dovendosi così “escludere che la controversia attenga ad un rapporto esclusivamente «individuale» di utenza”;

e), in particolare, “i rapporti individuali di utenza sono quelli incentrati su un rapporto negoziale e paritetico, comune nei servizi pubblici economici quali energia, acqua, gas, telecomunicazioni”, rapporto che nella specie è carente, in quanto “il comportamento lamentato... riguarda le modalità di erogazione del pubblico servizio o, più esattamente, il potere dell’amministrazione nei rapporti afferenti la prestazione del servizio pubblico”;

f) ancor più precisamente, “nella fattispecie in esame viene proprio in discussione l’ambito del potere dell’amministrazione scolastica in ordine all’organizzazione ed alle modalità di prestazione del servizio scolastico (se essa, cioè, abbia l’obbligo o, comunque, il potere di disporre l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche)”, sicché “anche sotto quest’ultimo profilo viene in rilievo il difetto di giurisdizione di questo giudice”.

Da tali argomentazioni si evince, quanto meno, che la giurisdizione del giudice ordinario è tanto poco evidente che proprio un giudice ordinario ha adottato una declaratoria di difetto di giurisdizione in una fattispecie analoga a quella che ne occupa. La determinazione del remittente è pertanto ragionevole e meditata, né può essere oggetto di sindacato o di indiretta riforma in sede di sindacato incidentale di costituzionalità.

Non basta. Proprio alla luce della più recente giurisprudenza di codesta Ecc.ma Corte costituzionale, l’indirizzo giurisprudenziale sopra descritto si mostra fondato e convincente. Il remittente, invero, afferma espressamente, in punto di giurisdizione del giudice amministrativo, che “L’atto impugnato... si riferisce ad un arredo scolastico, seppure certamente sui generis, ed è dunque espressione di una potestà organizzativa che appartiene all’Amministrazione scolastica, a fronte della quale i singoli utenti hanno posizioni di interesse legittimo”. Quel che il remittente ha fatto, dunque, è stato qualificare come interesse legittimo la situazione soggettiva dedotta in giudizio, da ciò desumendo la propria giurisdizione.

Orbene, nella recente sent. n. 204 del 2004 il tema del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo è declinato esattamente nella chiave della distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi, sicché il TAR del Veneto non ha fatto altro che adottare una prospettiva che, già diffusa anche in dottrina e nella giurisprudenza comune, sarebbe stata di lì a poco rafforzata dalla decisiva pronuncia del Giudice costituzionale (sicché non ha il minimo senso nemmeno ipotizzare una restituzione degli atti al giudice a quo, affinché riesamini la questione alla luce della pronuncia della Corte intesa quale ius superveniens, poiché il remittente già ne ha seguito, ex ante, la logica). Nella menzionata sent. n. 204 del 2004, infatti, si legge quanto segue:

a) l’art. 33, comma 1, del d. lgs. n. 80 del 1998 è dichiarato costituzionalmente illegittimo, tra l’altro, “nella parte in cui prevede che sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo «tutte le controversie in materia di pubblici servizi, ivi compresi quelli» anziché «le controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi, ovvero relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio in un procedimento amministrativo disciplinato dalla legge 7 agosto 1990, n. 241...»;

b) la declaratoria di incostituzionalità si radica nell’art. 103 Cost., il quale “statuisce che quelle materie [ovverosia quelle di giurisdizione esclusiva] devono essere «particolari» rispetto a quelle devolute alla giurisdizione generale di legittimità: e cioè devono partecipare della loro medesima natura, che è contrassegnata dalla circostanza che la pubblica amministrazione agisce come autorità nei confronti della quale è accordata tutela al cittadino davanti al giudice amministrativo”.

Ora, nella specie, non vi è dubbio che l’Amministrazione abbia agito nel corso di un procedimento disciplinato (anche) dalla legge generale sul procedimento amministrativo, né v’è dubbio che abbia agito in veste autoritativa. Per soprammercato, l’intera ordinanza di rimessione ruota attorno alla violazione del principio oggettivo della laicità dello Stato (la questione è sollevata “per contrasto con il principio di laicità dello Stato, quale risultante dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione”), non alla lesione dei diritti soggettivi delle parti (per quanto, ovviamente, al principio di laicità si connettano taluni importanti diritti fondamentali dei cittadini), con l’effetto che anche per tale profilo risultano fuori centro le notazioni di quella parte della dottrina che ha criticato la pronuncia del TAR del Veneto per aver qualificato interessi legittimi e non diritti soggettivi le situazioni dedotte in giudizio (v., in particolare, L. COEN, La giurisdizione amministrativa tra libertà di coscienza e interesse dell’organizzazione scolastica, in AA. VV., La laicità crocifissa?, cit., 75 sgg.). In ogni caso, non può certo essere il giudice costituzionale a censurare l’utilizzo da parte del giudice a quo di questa o di quella dottrina quanto alla distinzione tra diritti e interessi legittimi.

Conseguentemente, al di là d’ogni riserva sui limiti del potere del giudice costituzionale in ordine al controllo sulla valida instaurazione del giudizio principale, è giocoforza concludere che il giudizio promosso dalla Sig.ra Lautsi spettasse e spetti alla giurisdizione del giudice amministrativo.

II.2.4.- Ancor meno fondata è l’ipotesi di un’inammissibilità in quanto il remittente non avrebbe sondato la prospettiva di un’interpretazione conforme a Costituzione delle disposizioni censurate. Qui, invero, è addirittura banale rilevare che, una volta abbracciata la (ragionevole e fondata) tesi che le norme regolamentari da esse richiamate non sono state abrogate, non vi è alcuna strada interpretativa da percorrere che non sia quella imboccata dal giudice a quo: le scuole devono essere dotate di certi arredi; tra questi arredi vi è il crocifisso. Nulla di più e di diverso.

II.2.5.- Per mero tuziorismo, e sebbene nessuno degli intervenienti l’abbia esplicitamente formulato, è bene sgomberare subito il campo dal dubbio sull’ammissibilità della questione che si colleghi al presunto vizio di mancata notificazione ai controinteressati del ricorso introduttivo del giudizio principale.

Deve considerarsi al riguardo, e in via generale, che l’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale sollevata va valutata con esclusivo riferimento ai profili della rilevanza e della non manifesta infondatezza, mentre la sussistenza di un preteso difetto di notificazione dell’atto introduttivo del giudizio a quo non potrebbe avere alcun rilievo in tale valutazione. E’ giurisprudenza consolidata, che non è nemmeno necessario, qui, menzionare, che al giudice costituzionale non spetti altro che un controllo esterno sull’itinerario argomentativo compiuto dal giudice a quo in ordine alle questioni processuali agitate nel giudizio principale, senza che alla Corte sia possibile trasformarsi in una sorte di giudice di appello.

A fortiori, dunque, deve concludersi che in nessun modo la pretesa incompletezza del contraddittorio nel giudizio a quo potrebbe avere effetti sulla ammissibilità della questione di legittimità costituzionale prospettata.

Può comunque aggiungersi, per tuziorismo, che la valutazione compiuta dal giudice remittente quanto alla completezza del contraddittorio appare ineccepibile.

Pacificamente, nella giurisprudenza amministrativa, infatti, “l’individuazione della posizione di controinteressato si basa, come è noto, su un elemento formale, quale la diretta indicazione del soggetto nell’atto o la sua facile individuabilità (tra le tante, cfr. Sez. IV, 19 agosto 1997, n. 860; Sez. V, 14 aprile 1993, n. 491)” (così, di recente, Cons. Stato, sez. V, 29 luglio 2003, n.4324, in Foro Amm. CDS, 2003, 2252), mentre deve escludersi che possano considerarsi controinteressati quei soggetti i quali, pur potendo in ipotesi subire effetti pregiudizievoli dal provvedimento impugnato, non siano di pronta e sicura individuazione.

Appare dunque ineccepibile la valutazione del giudice remittente, che ha respinto “l’ulteriore eccezione proposta dalla difesa erariale, per cui il ricorso non sarebbe stato notificato a quei genitori ed allievi dell’istituto “Vittorino da Feltre”, i quali vogliono mantenere nelle aule scolastiche il crocifisso – che è l’unico simbolo religioso colà attualmente presente - e che per questo avrebbero la qualità di controinteressati”.

Nel caso di specie, infatti, “la ricorrente (come d’altronde la stessa resistente) non era certamente in grado di stabilire, nel momento in cui ha proposto il ricorso, chi condividesse la decisione assunta dal consiglio d’istituto e qui impugnata” (così, puntualmente, nota l’ordinanza di rimessione).

Alla luce della accennata, consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato, dunque, è evidente che il giudice remittente non avrebbe potuto riconoscere agli odierni intervenienti la qualifica di controinteressati, non avendo modo di conoscere quali, fra i genitori degli alunni dell’Istituto, avrebbero preferito che il crocifisso restasse esposto nelle aule scolastiche.

III

Nel merito, la fondatezza della questione che ne occupa appare evidente.

III.1.- Come si è ricordato più sopra, il remittente lamenta il contrasto delle norme legislative censurate con il principio di laicità, desumibile dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione. Sull’esistenza, sul fondamento, sul rango e sul contenuto di tale principio la più recente giurisprudenza costituzionale ha dettato inequivocabili statuizioni.

Quanto all’esistenza, al fondamento e al rango, già la sent. n. 203 del 1989, invero, ha richiamato il “principio supremo della laicità dello Stato”, qualificandolo come uno dei “profili della forma di Stato delineata nella Carta costituzionale della Repubblica”. Quel principio non comporta “indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni”, bensì “garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione”. Sempre nella sent. n. 203 del 1989, poi, rilevato che erano stati invocati dall’ordinanza di rimessione gli artt. 2, 3 e 19 della Costituzione, si precisa che “i valori richiamati concorrono, con altri (artt. 7, 8 e 20 della Costituzione), a strutturare il principio supremo della laicità dello Stato”, con ciò chiarendo che le disposizioni costituzionali che sono a fondamento del principio di laicità sono esattamente quelle oggi invocate dal giudice a quo. Infine, nella medesima sentenza si è dato per scontato che la laicità fosse un principio supremo del nostro ordinamento costituzionale, ché solo in tal modo avrebbe potuto essere (così come, in concreto, è stato) utilizzato quale parametro in un giudizio che aveva ad oggetto norme concordatarie.

Come esattamente affermato dal TAR Veneto, insomma, il principio di laicità è riconosciuto in Costituzione, trova fondamento negli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20, e ha il rango di principio costituzionale supremo (non diversamente, sentt. nn. 259 del 1990; 13 del 1991; 421 del 1993, pur limitatamente ad un breve accenno; 508 del 2000).

Quanto al contenuto del principio, la sent. n. 259 del 1990 vi leggerà il divieto di una “penetrante ingerenza di organi dello Stato” nel “modo di essere e nelle attività” delle comunità religiose (in quella occasione: israelitiche) e affermerà che esso “implica... garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale”.

La sent. n. 195 del 1993 ne desumerà “l’esigenza di un eguale trattamento di tutte le confessioni religiose”, mentre la sent. n. 329 del 1997 ribadirà che il principio di laicità “comporta equidistanza e imparzialità della legislazione rispetto a tutte le confessioni religiose” (in senso analogo, sentt. nn. 508 del 2000 e 327 del 2002, cui si aggiunge, ancorché implicitamente, la sent. n. 346 del 2002).

La sent. n. 334 del 1996, in tema di giuramento, contiene affermazioni di notevole momento, decisive anche per il presente giudizio. Il principio di laicità, al quale la sentenza connette il diritto individuale di libertà della coscienza, risulta caratterizzato “nell’essenziale” dalla distinzione tra “ordine” delle “questioni civili” e “ordine” della “esperienza religiosa”, con la conseguenza, per l’ordinamento statale, del “divieto di ricorrere a obbligazioni di ordine religioso per rafforzare l’efficacia dei propri precetti”. In definitiva: “la religione e gli obblighi morali che ne derivano non possono essere imposti come mezzo al fine dello Stato”.

La cit. sent. n. 508 del 2000, infine, nel ribadire il dovere di equidistanza (dello Stato dalle religioni) implicato dal (supremo) principio di laicità, afferma che quest’ultimo caratterizza “in senso pluralistico la forma del nostro Stato, entro il quale hanno da convivere, in uguaglianza di libertà, fedi, culture e tradizioni diverse”.

III.2.- Si evince, dalla giurisprudenza ora sommariamente riportata, che l’obbligatoria esposizione del crocifisso negli edifici scolastici è in radicale contrasto con il principio di laicità.

In primo luogo, tale precetto viola il dovere di equidistanza dello Stato rispetto alle religioni (si tratta di un principio consolidato anche negli ordinamenti stranieri più evoluti: cfr., oltre alle pronunce che appresso si citeranno, ad es., Trib. Fed. Svizzero, 26 settembre 1990, Comune di Cadro c. Bernasconi). Il trattamento peculiare praticato, ai sensi dell’art. 7 Cost., alla Chiesa cattolica non può certo giustificare l’obbligo di esposizione. A parte ogni considerazione sulla esclusiva “cattolicità” del simbolo (sulla quale si tornerà più avanti), e a parte il fatto che tale obbligo non rappresenta il contenuto di una disposizione concordataria, è evidente che anche tali disposizioni debbono comunque rispettare il principio supremo di laicità. Lo stesso art. 7, infatti, stabilisce che lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, sicché la presenza di un simbolo religioso in un edificio pubblico destinato alla pubblica istruzione determina proprio quel rapporto di interferenza, sovrapposizione e dipendenza che lo stesso art. 7 ha voluto escludere.

Argomentare a sostegno dell’obbligatoria esposizione del crocifisso da ciò che l’art. 2, n. 1, del Concordato conferisce alla Chiesa cattolica la libertà di svolgere la sua funzione pastorale ed educativa (così R. COPPOLA, Ma la “laicità relativa” non l’ho inventata io… ovvero dell’uguaglianza delle confessioni religiose secondo Procuste, in www.forumcostituzionale.it) lascia doppiamente interdetti: perché non si vede come una libertà (della Chiesa) possa logicamente implicare e includere una necessaria imposizione (da parte dello Stato); perché in questo modo si confessa ciò che altrove si nega, e cioè che l’esposizione obbligatoria del crocifisso è un mezzo per far sì che lo Stato, per signa, induca l’attenzione degli scolari ai precetti educativi della Chiesa cattolica.

In secondo luogo, come esattamente osserva il remittente, “la presenza del crocifisso viene obbligatoriamente imposta agli studenti, a coloro che esercitano la potestà sui medesimi e, inoltre, agli stessi insegnanti”, con la conseguenza che “la norma che prescrive tale obbligo sembra così delineare una disciplina di favore per la religione cristiana, rispetto alle altre confessioni, attribuendole una posizione di privilegio...” (nello stesso senso, in dottrina, G. DI COSIMO, La forza dei simboli, in www.forumcostituzionale.it).

In terzo luogo, non si comprende come potrebbe mai essere giustificabile, alla luce del principio di laicità, l’esposizione di un simbolo religioso in un contesto per definizione pubblico e laico. Non v’è dubbio che simboli di tal genere sono marcatori di identità: qualora lo Stato intenda servirsi di simboli per marcare l’identità nazionale, e anche ammesso (e non concesso: sul punto si tornerà appresso) che il crocifisso simboleggi quella italiana, allo Stato non sarebbe comunque consentito farne uso. Se lo facesse, infatti, compirebbe proprio quanto la sent. n. 334 del 1996 ha vietato: ricorrere alla religione “per rafforzare l’efficacia dei propri precetti”, ovvero assumere ed imporre la religione “come mezzo al fine dello Stato”.

In quarto luogo, il principio di laicità si traduce necessariamente (così G. BRUNELLI, Neutralità dello spazio pubblico e “patto repubblicano”: un possibile modello di integrazione sociale, in AA. VV., La laicità crocifissa?, cit., 50) nella costruzione e salvaguardia di uno “spazio pubblico neutrale” nel quale dialogicamente confrontare le varie posizioni presenti nella società pluralista senza vantaggi posizionali determinati dall’evocativa e prescrittiva presenza di simboli: come si può parlare di neutralità se lo spazio è marcato e definito (come riconoscono proprio taluni dei sostenitori della legittimità delle norme qui contestate: P. DE MARCO, Il crocifisso, uno “scomposto coro bipartisan” e qualche sua ragione, in AA.VV., La laicità crocifissa?, cit., 110) dal crocifisso?

Si badi: spazio “neutrale” non significa affatto spazio “ateo” (come ritiene M. CARTABIA, Il crocefisso e il calamaio, in AA. VV., La laicità crocifissa?, cit., 62). Lo spazio della scuola pubblica italiana è aperto al confronto delle idee religiose, ma un conto è questa apertura pluralistica, altra cosa è l’imposizione di simboli religiosi a tutti. Non si può far altro, qui, che riportare le limpide affermazioni del Bundesverfassungsgericht nel c.d. Kruzifix-Urteil del 16 maggio 1995: “Zusammen mit der allgemeinen Schulpflicht führen Kreuze in Unterrichtsräumen dazu, daß die Schüler während des Unterrichts von Staats wegen und ohne Ausweichmöglichkeit mit diesem Symbol konfrontiert sind und gezwungen werden, «unter dem Kreuz» zu lernen. Dadurch unterscheidet sich die Anbringung von Kreuzen in Klassenzimmern von der im Alltagsleben häufig auftretenden Konfrontation mit religiösen Symbolen der verschiedensten Glaubensrichtungen. Zum einen geht diese nicht vom Staat aus, sondern ist eine Folge der Verbreitung unterschiedlicher Glaubensüberzeugungen und Religionsgemeinschaften in der Gesellschaft. Zum anderen besitzt sie nicht denselben Grad von Unausweichlichkeit. Zwar hat es der einzelne nicht in der Hand, ob er im Straßenbild, in öffentlichen Verkehrsmitteln oder beim Betreten von Gebäuden religiösen Symbolen oder Manifestationen begegnet. Es handelt sich in der Regel jedoch um ein flüchtiges Zusammentreffen, und selbst bei längerer Konfrontation beruht diese nicht auf einem notfalls mit Sanktionen durchsetzbaren Zwang”.

L’imposizione prevista dalle norme qui censurate, per ribadire quanto esattamente rilevato dal giudice costituzionale tedesco nell’analoga fattispecie ora segnalata, si traduce in ciò che gli scolari studiano “sotto la croce”, in una dimensione ben diversa da quella esterna, quando il confronto con i simboli religiosi (presenti, ad esempio, su edifici di culto o portati in pubbliche manifestazioni) è volontario ovvero passeggero. Il principio di laicità, del resto, deve trovare proprio nel dominio dell’istruzione un’applicazione particolarmente rigorosa. Come ha affermato la Commissione europea dei diritti dell’uomo (Karaduman c. Turchia, 3 maggio 1993), oltretutto in riferimento alle università e non - come qui - alle scuole medie o elementari (nelle quali l’esigenza di tutela dei discenti è ancor più vistosa : C. FIORAVANTI, Crocifisso nelle aule scolastiche e “indottrinamento”, in AA.VV., La laicità crocifissa?, cit., 132): “Notamment, dans les pays où la grande majorité... adhère à une religion précise, la manifestation des rites et des symboles de cette religion, sans restriction de lieu et de forme, peut constituer une pression sur les étudiants qui ne pratiquent pas ladite religion ou sur ceux adhérant à une autre religion”.

La neutralità dello spazio pubblico nel quale si è tenuti ad una stabile presenza, in realtà, è addirittura una delle condizioni elementari di una democrazia pluralistica (v. anche Cass., Sez. IV pen., 1° marzo 2000, n. 439, in Giur. cost., 2000, 1121). Tanto elementari, che anche in ordinamenti nei quali i confini tra legge divina e legge umana sono assai più controversi che da noi, essa viene salvaguardata con ogni attenzione. Si pensi a quanto statuito dalla Corte Suprema dello Stato di Israele nel caso Shavit v. Rishon Lezion Jewish Burial Society del 6 luglio 1999.

Si trattava, in quella fattispecie, di stabilire se fosse legittimo il rifiuto, opposto dalla Jewish Burial Society di Rishon Lezion, ai familiari di un defunto che volevano iscrivere, sulla lapide della sua tomba, il nome e le date di nascita e morte in caratteri latini e non ebraici (la tomba, è bene precisare, si trovava in un comune cimitero religioso, e non in uno dei cimiteri “laici” che la - inattuata - Right to Alternative Civil Burial Law aveva previsto). La Corte si pronunciò per la negativa, e proprio perché ritenne decisiva la differenza tra spazio pubblico e spazio privato. Il giudice israeliano non impostò la questione nei termini propri del presente giudizio, nel quale si lamenta il contrasto con il principio oggettivo di laicità dello Stato, ma nei termini del contrasto tra diritti fondamentali. Pur se in questa prospettiva, si pose la domanda: “Is the public entitled to force its religious customs on the individual who finds himself or herself in the public domain, in its midst, and thus negate that individual’s right to freedom in the public domain?”, e rispose, richiamando un proprio precedente, che “The observant population’s interests are quite weighty, perhaps even determinative, within the privacy of their own homes.  However, the further one travels from one’s home, and the closer one is to entering the public domain – or another’s private domain – or when one’s request involves one’s fellows’ rights, so too will the strength of his or her interests be weakened, because they will be balanced against the interests of his or her neighbor, in the latter’s public or private domain”. Nessun diritto del potere pubblico, dunque, di formulare imposizioni a contenuto religioso nello spazio pubblico. Nessun diritto, si badi, nemmeno quando quelle imposizioni corrispondono al convincimento della maggioranza della popolazione.

Il criterio della maggioranza, che codesta Ecc.ma Corte costituzionale ha abbandonato ormai da molto tempo (e che comunque, in genere, non può trovare applicazione quando sono in giuoco diritti fondamentali: cfr., ad es., Corte europea dei diritti dell’uomo, Young, James e Webster c. Regno Unito, 13 agosto 1981; Valsamis c. Grecia, 27 novembre 1996), non ha cittadinanza, pertanto, nemmeno in ordinamenti nei quali - come detto - il problema del rapporto tra Stato e religione è ancor più delicato che da noi (stupisce, dunque, che ancora oggi taluni dei sostenitori della legittimità dell’imposizione dell’esposizione del crocifisso invochino, a sostegno, il “principio democratico”, e cioè - né più né meno - il principio di maggioranza: M. OLIVETTI, Crocifisso nelle scuole pubbliche: considerazioni non politically correct, in forumcostituzionale.it).

Da ultimo, che l’esposizione del crocifisso sia in radicale contrasto con il principio di laicità è dimostrato (lo hanno notato in molti: v., ad es., A. PUGIOTTO, La Corte messa in croce dal diritto vivente regolamentare, in AA.VV., La laicità crocifissa?, cit., 263) dagli stessi artt. 159 e 190 del d. lgs. n. 297 del 1994, che collocano il crocifisso assieme al ritratto di Sua Maestà il Re, nel contesto di un disegno rotondamente confessionista dello Stato e della pubblica istruzione (che rende ancor meno credibile, pertanto, l’ipotesi della “neutralizzata” universalità del simbolo: G. CIMBALO, Sull’impugnabilità delle norme relative all’esposizione del crocifisso nelle scuole pubbliche, in AA.VV., La laicità crocifissa?, cit., 71).

In realtà, il contrasto tra l’obbligo di esposizione di un simbolo religioso come il crocifisso e il principio di laicità è talmente evidente che davvero non ha bisogno di grandi dimostrazioni. Anzi: la migliore dimostrazione sta nel fatto che i sostenitori della compatibilità non hanno fatto altro che tentare di affievolire e neutralizzare la valenza religiosa del simbolo, proiettandolo in una dimensione civile e (genericamente) culturale che non gli è propria (v., in particolare, il menzionato Parere del Consiglio di Stato, ove si scrive che “il Crocifisso, o più semplicemente la Croce, a parte il significato per i credenti, rappresenta il simbolo della civiltà e della cultura cristiana, nella sua radice storica, come valore universale, indipendente da specifica confessione religiosa”; analogamente, Parere Avv. Stato di Bologna, 16 luglio 2002; Nota Min. Interno 5 ottobre 1984, n. 5160/M/1). Si tratta, però, di una strada che non può essere percorsa.

III.3.- L’ordinanza di rimessione, pur nella sua doverosa sinteticità, è, sul punto, limpida ed efficace. Osserva, infatti, il giudice a quo che “il crocifisso rappresenta la massima icona cristiana, presente in ogni luogo di culto e più di ogni altra venerata: esso può bensì assumere ulteriori valori semantici, ma questi non possono comunque mai completamente elidere quello religioso, da cui traggono comunque giustificazione e fondamento”. Aggiunge, poi, che il crocifisso “mantiene comunque un univoco significato confessionale, per tale percepito dalla massima parte dei consociati”.

Queste affermazioni non possono essere fraintese: quale che sia il surplus di significati acquisito dal crocifisso, residua, in esso, un innegabile significato religioso (appartiene, infatti, a quei simboli che “hanno una valenza culturale in quanto espressivi di una esperienza religiosa”: M. CARTABIA, Il crocefisso e il calamaio, cit., 61, ma nel medesimo senso la maggior parte dei saggi pubblicati in AA.VV., La laicità crocifissa?, cit.,) ed è questo che, per rapporto al principio di laicità, conta (così, tra i molti, L. BRUNETTI, Questioni interpretative “minime”, cit., 56 sg.; C. FUSARO, Pluralismo e laicità. Lo Stato non può ridurre la fede a cultura né costruire sul fatto religioso identità partigiane, in AA.VV., La laicità crocifissa?, cit., 136). Avventurarsi nel mare della polisemia del simbolo non serve ed è del tutto improduttivo.

Anche la giurisprudenza dei Paesi di più solida tradizione nel dominio della giustizia costituzionale dimostra come sia assolutamente impossibile negare la natura religiosa del simbolo del crocifisso e postulare l’armonia con il principio di laicità della sua esposizione obbligatoria nelle scuole pubbliche.

Così, la già ricordata pronuncia del Bundesverfassungsgericht afferma che “Das Kreuz ist Symbol einer bestimmten religiösen Überzeugung und nicht etwa nur Ausdruck der vom Christentum mitgeprägten abendländischen Kultur”: per quanto si sia ampliato il suo ambito semantico, la croce e il crocifisso simboleggiano un convincimento religioso.

A sua volta, la Corte Suprema degli Stati Uniti, nel caso Lemon v. Kurtzman, 403 U.S. 602, 612-613 (1971), ha affermato il principio generale che una legge è in armonia con il Primo Emendamento e con la Establishment Clause ivi stabilita solo a tre condizioni: “First, the statute must have a secular legislative purpose; second, its principal or primary effect must be one that neither advances nor inhibits religion…; finally the statute must not foster an excessive government entanglement with religion”.

Sulla scorta di questo principio generale, nel caso Stone v. Graham, 449 U.S. 39 (1980), posta di fronte alla questione (largamente analoga a quella che ne occupa) dell’affissione dei Dieci Comandamenti nelle scuole pubbliche imposta da una legge del Kentucky, la Corte Suprema si pronunciò nettamente nel senso dell’illegittimità di tale imposizione.

A salvare la legge non valse la previsione dell’inserimento, su ogni copia dei Dieci Comandamenti, della seguente precisazione: “The secular application of the Ten Commandments is clearly seen in its adoption as the fundamental legal code of Western Civilization and the Common Law of the United States”. Anche in quel caso (come già in Abington School District v. Schempp, 374 U.S. 203 (1963), a proposito della preghiera nelle scuole pubbliche, presentata come una “secolare” forma di “promozione di valori morali”) si tentò l’operazione che si azzarda nuovamente adesso da noi, ma la Corte Suprema ebbe buon giuoco nel replicare che “The pre-eminent purpose for posting the Ten Commandments on schoolroom walls is plainly religious in nature. The Ten Commandments are undeniably a sacred text in the Jewish and Christian faiths, and no legislative recitation of a supposed secular purpose can blind us to that fact”. Nessuna operazione di “ripensamento” del significato del crocifisso potrà convincere che quel simbolo non sia esso pure “plainly religious in nature”. L’esposizione del simbolo, come nel caso dei Dieci Comandamenti, se deve avere un qualche effetto, “it will be to induce the schoolchildren to read [in questo caso: to look to], meditate upon, perhaps to venerate and obey, the Commandments. However desirable this might be as a matter of private devotion, it is not a permissible state objective under the Establishment Clause”.

Anche da noi potrebbe ritenersi desiderabile e opportuno che i giovani siano indotti a meditare sulla sacra rappresentazione del Cristo crocifisso e sul suo profondo significato morale, ma quella rappresentazione resta sacra, e la sua obbligatoria esposizione sui muri delle aule della scuola pubblica, istituita dallo Stato italiano, resta incompatibile con il principio di laicità.

V’è chi sostiene, poi, che “Il crocifisso appeso sui muri delle aule scolastiche... è da un lato il ricordo della radice delle nostre libertà e dall’altro l’immagine di un potere supremo talmente mite da essersi lasciato mettere in croce. In questo senso esso non dà luogo ad una propaganda subliminale in favore delle confessioni cristiane (al plurale), ma costituisce l’antidoto più potente contro ogni totalitarismo e contro ogni fondamentalismo” (M. OLIVETTI, Crocifisso nelle scuole pubbliche, cit.).

Anche questa posizione implica lo scioglimento, con convinta sicurezza, di nodi problematici di formidabile complessità. E’ necessario accostarsi a così terribili temi, invece, con doverosa umiltà, senza pretendere di dominare e semplificare secoli di riflessione filosofica, teologica e cristologica. Quel che si può fare qui, nella (relativamente) limitata sede di un giudizio di costituzionalità, è solo evidenziare i problemi, prospettare l’esistenza di alternative interpretative, negare le certezze storiche manifestate dalla posizione qui contestata, che nel menzionato Parere del Consiglio di Stato ha trovato la propria espressione più chiara.

Prendiamo, in particolare, l’opinione della mitezza del simbolo. Essa, invero, potrebbe essere confutata da chi rammentasse l’origine della rappresentazione simbolica del Cristo, tutt’altro che mite e pacifica, quando, a Ponte Milvio, “Commonitus est in quiete Constantinus, ut caeleste signum dei notaret in scutis atque ita proelium committeret. Facit ut iussus est et transversa X littera, summo capite circumflexo, Christum in scutis notat. Quo signo armatus exercitus capit ferrum” (Lattanzio, De Mortibus persecutorum, 44). E la polemica tra le due posizioni potrebbe proseguire all’infinito, potendo assidersi su due millenni di inesausta ricerca umana sul mistero delle cose divine. In realtà, al giurista basta, deve bastare la constatazione della natura (anche, lo si concederà!) religiosa del simbolo, ché questo è sufficiente a contrassegnare la sua incompatibilità con il principio di laicità dello Stato (analogamente, tra i molti, R. TOSI, I simboli religiosi, cit., 282).

Il tutto, senza considerare che appare un vero e sorprendente paradosso che sia in tal modo evocato quel paradigma della mitezza che dovrebbe invece condurre a tutt’altri approdi, pienamente rispettosi della natura dialogicamente paritaria dei processi cognitivi e formativi. Come potrebbe essere davvero mite l’imposizione di un simbolo, quand’anche il simbolo stesso fosse mite?

III.4.- La decontestualizzazione del crocifisso, la cancellazione della sua valenza propriamente religiosa non appare inoltre rispettosa, si consenta di dirlo, della maestà del signum. E risulta, comunque, arrischiata e immotivata.

Lo si comprende bene se sol si riflette su quale sia la possente forza evocativa di quel simbolo. La croce, anzitutto, è come l’espressione sintetica e la plastica rappresentazione del cristianesimo e della sua dottrina morale: “quo signo crucis omnis actio christiana describitur”, scriveva Sant’Agostino nel De doctrina christiana (II, XLI, 15), e certo non lo scriveva a caso, se è vero che lo stesso Agostino, poco prima, aveva ricordato che “res per signa discuntur” (I, II, 1). E’ uno dei fondatori della dottrina del cristianesimo, al quale ancora oggi non si può non guardare con sommessa ammirazione, che ci ammonisce sul significato dei signa che i cristiani debbono usare perché i precetti morali del credo meglio discantur. Come si può pensare che questo profondo significato morale ed educativo sia improvvisamente scomparso, quasi fosse stato travolto da una secolarizzazione che non avrebbe solo ridotto, ma addirittura invaso e conquistato il territorio della religione? Come non credere, invece, che quel signum serva a marcare una obbligatoria presenza religiosa nel dominio dello Stato laico? E come non concludere, allora, che quella presenza obbligatoria sia in stridente contrasto con il principio costituzionale di laicità?

Non basta. Non si tratta, qui, solo della croce, ma del crocifisso. Qui, pochi hanno notato (v., ad es., J. LUTHER, Istruire la storia del crocifisso, in AA.VV., La laicità crocifissa?, cit., 176 sg.; A. REALE, Crocifissi in luoghi pubblici: “visibilità” della Chiesa cattolica in uno Stato non confessionale, ivi, 267) come nel caso del crocifisso possa ancor meno parlarsi di un significato pretesamente solo culturale e neutralmente universale del simbolo. Eppure è cosa evidente (e accuratamente colta dal Tribunale Federale tedesco). Anche qui, i formidabili problemi che si legano a questo tema vanno solo sfiorati e al solo scopo di segnalare la loro esistenza.

Alla rappresentazione del Cristo sofferente e morente sulla croce, invero, è stata diffusamente attribuita un’origine storica precisa, legata all’esigenza di affermare, con una rappresentazione visiva e simbolica, l’errore del monofisismo e di ribadire la duplice natura, umana e divina, del Cristo. Non a caso si ricorda come prima rappresentazione plastica del crocifisso il portale di Santa Sabina in Roma: un portale del quinto secolo, di poco anteriore al Concilio di Calcedonia (451 d.C.), che si concluderà con la condanna del monofisismo, entro quel processo di affermazione della duplice natura del Cristo che implicherà anche la battaglia contro l’opposta posizione dell’arianesimo, che non coglieva la piena divinità della persona del Cristo (“quando hi qui eum morientem in carne cernebant divinitatis eius potentiam considerare nesciebant”, scriverà più tardi Gregorio Magno, Moralia in Iob, XII, XXIII, 27). Il crocifisso, pertanto, è simbolo assai meno genericamente “culturale”, universale e neutrale della croce (e – si è visto – essa pure non lo è), tanto vero che in larga maggioranza non vi si riconoscono i protestanti. E’, insomma, simbolo specificamente (anche se non esclusivamente) cattolico, la cui decontestualizzazione si rivela un esercizio intellettuale veramente impossibile (e anche inutile, poiché, come si vedrà, nemmeno la dimostrazione della generica “culturalità” e “universalità” del crocifisso basterebbe a fondare l’obbligo positivo della sua esposizione nelle scuole).

E’ stato scritto: “Anche chi non sia cattolico non dovrebbe respingere il simbolo del Crocifisso, quanto meno dall’angolo visuale della identificazione culturale dell’Italia” (F. PATRUNO, La guerra ai Crocifissi ed ai simboli del cattolicesimo di fronte alla cultura italiana ed europea, in www.forumcostituzionale.it). Ma una cosa è essere consapevoli della matrice cristiana e specificamente cattolica che ha informato di sé l’attuale identità culturale italiana, cosa ben diversa rammentare obbligatoriamente ai discenti e ai docenti delle scuole pubbliche, con una rappresentazione fortemente evocativa, quella radice, a preferenza di altre che – pure – hanno fatto crescere la pianta dell’identità culturale italiana (e delle quali non si prevede l’obbligatoria rappresentazione simbolica).

III.5.- Non basta ancora. La Costituzione ha risolto una volta per tutte ed esplicitamente la questione dei simboli dell’unità nazionale, e lo ha fatto disponendo all’art. 12 che la bandiera della Repubblica è il tricolore italiano (analogamente, R. BIN, Op. cit., 37; A. GUAZZAROTTI, Crocifisso, libertà di coscienza e laicità: le temps l’emportera, in AA.VV., La laicità crocifissa?, cit., 163).

La bandiera, invero, fu volutamente disciplinata in Costituzione proprio perché si voleva menzionare espressamente quello che “è restato sempre il simbolo della libertà, dell’unità e dell’indipendenza della Patria” (così l’On. Clerici, alla seduta dell’Assemblea costituente del 24 marzo 1947, in Atti Ass. Cost., 1^ ed., 2425): il “tricolore puro e schietto, semplice e nudo, quale fu alle origini, e tale lo evocò e baciò, cinquant’anni fa, il Carducci: e così deve essere la bandiera dell’Italia repubblicana” (così l’On. Ruini, sempre alla seduta del 24 marzo 1947, in Atti Ass. Cost., 1^ ed., 2427).

Postulare che l’unità della Nazione possa, anzi debba, essere altrimenti simboleggiata, per giunta con un simbolo (in tutto o almeno in parte) religioso, significa non tenere in conto la necessità di individuare nella Costituzione una norma che sorregga tale pretesa (così anche D. FERRI, La questione del crocefisso tra laicità e pluralismo culturale, in AA.VV., La laicità crocifissa?, cit., 121: è chi sostiene la legittimità dell’imposizione che – ben lo rileva C. FUSARO, Pluralismo e laicità, cit., 136 – è gravato dell’onere di provarne il fondamento!), e non considerare la chiara scelta dei Costituenti. Una scelta che, si badi, è stata colta nei suoi esatti contorni proprio da codesta Ecc.ma Corte costituzionale, quando ha affermato che “Non avendo lo Stato da imporre valori propri, contenuti ideologici che investano tutti i cittadini, e «totalmente» ogni singolo cittadino, le bandiere valgono soltanto quale simbolo identificatore d’un determinato Stato e, se mai, di precisi, inconfondibili ideali dai quali muove il popolo e, conseguentemente, la sua sovranità” (sent. n. 189 del 1987).

III.6.- Consegue a quanto sin qui detto che solo una declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme censurate che vada nel senso prospettato dal TAR del Veneto potrebbe ripristinare la legalità costituzionale violata. Non sembra affatto praticabile, invece, la via della cosiddetta “soluzione bavarese”. Taluni, invero, hanno prospettato l’ipotesi che codesta Ecc.ma Corte dichiari illegittime le norme censurate introducendo per sentenza una disciplina analoga (ma non del tutto identica) a quella del Bayerisches Gesetz über das Erziehungs- und Unterrichtswesen, così come modificato dalla l. 23 dicembre 1995, a tenor della quale “Angesichts der geschichtlichen und kulturellen Prägung Bayerns wird in jedem Klassenraum ein Kreuz angebracht... Wird der Anbringung des Kreuzes aus ernsthaften und einsehbaren Gründen des Glaubens oder der Weltanschauung durch die Erziehungsberechtigten widersprochen, versucht der Schulleiter eine gütliche Einigung. Gelingt eine Einigung nicht, hat er nach Unterrichtung des Schulamts für den Einzelfall eine Regelung zu treffen, welche die Glaubensfreiheit des Widersprechenden achtet und die religiösen und weltanschaulichen Überzeugungen aller in der Klasse Betroffenen zu einem gerechten Ausgleich bringt; dabei ist auch der Wille der Mehrheit, soweit möglich, zu berücksichtigen”.

Secondo questa impostazione, è stato scritto, “i crocifissi possano restare quando l’insieme degli studenti (se maggiorenni, o dei loro genitori, se minorenni) di una scuola pubblica vi colgano tutti pacificamente, implicitamente, un comune significato culturale (oltre a quello di fede dei soli cristiani); se viceversa anche un solo alunno ritenga di essere leso nella propria libertà religiosa negativa essi andrebbero rimossi” (S. CECCANTI, I crocifissi nelle scuole pubbliche: rimuovere solo sulla base di una esplicita richiesta, in www.forumcostituzionale.it; adesivamente, M. CARTABIA, Il crocefisso e il calamaio, in AA. VV., La laicità crocifissa?, cit., 64 sgg.).

A tale prospettiva è agevole contrapporsi. Infatti:

a) chi la propone non avverte che il tema che oggi ne occupa non è (e non importa chiedersi se potrebbe esserlo) quello del bilanciamento tra diritti soggettivi dei singoli (come ritiene M. CARTABIA, Il crocefisso e il calamaio, cit., 63, e come è in parte il caso in altre, totalmente diverse, fattispecie, come quella della libertà di portare il velo islamico a scuola: cfr. la decisione 24 settembre 2003 del Bundesverfassungsgericht), bensì quello dell’applicazione del principio oggettivo della laicità (analogamente, M. CUNIBERTI, Brevi osservazioni su laicità dello Stato e obbligo di esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, in AA.VV., La laicità crocifissa?, cit., 82). Anche se il crocifisso, in un singolo edificio scolastico pubblico, fosse esposto nemine contradicente, non vi sarebbero singoli interessati a dolersene, ma non per questo verrebbe meno la violazione del principio costituzionale della laicità dello Stato;

b) anche a voler declinare la questione solo ed esclusivamente in termini di diritti, questa pretesa “soluzione” non può convincere in quanto (a parte gli abusi cui si presta, opportunamente messi in luce da A. GUAZZAROTTI, Crocifissi e “identità comuni”, in www.forumcostituzionale.it) implica l’esposizione del singolo (eventualmente minoritario), che è obbligato ad opporsi apertamente alla volontà del gruppo sociale di appartenenza, obiettivata nel precetto normativo. Sennonché, trattandosi di istituzioni scolastiche, questo equivale a stabilire che minor tenetur se detegere. Con la conseguenza (segnalata da R. TOSI, Togliere il crocifisso perché non diventi una bandiera, in www.forumcostituzionale.it; ID., I simboli religiosi e i paradigmi della libertà religiosa come libertà negativa, in AA.VV., La laicità crocifissa?, cit., 279; R. BIN, Inammissibile, ma inevitabile, cit., 36; G. BRUNELLI, Neutralità dello spazio pubblico, cit., 51; C. MARTINELLI, Le necessarie conseguenze di una laicità “presa sul serio” , in AA.VV., La laicità crocifissa?, cit., 192; P, VERONESI, Abrogazione indiretta o quaestio? Il crocifisso, i luoghi pubblici e la laicità sotto la lente della Corte, ivi, 288), certamente incompatibile con la funzione integrativa della scuola pubblica, che la sua posizione minoritaria sarebbe drammaticamente accentuata, non rimediata (né è ipotizzabile l’ipotesi dell’opposizione anonima: a parte le difficoltà applicative, se già diciannove secoli or sono – e proprio in questioni riguardanti i cristiani – si poté dire che lo scritto anonimo “et pessimi exempli nec nostri saeculi est”, come si potrebbe dimenticarlo oggi?);

c) impostando la questione nei termini qui criticati (e cioè dimenticando del tutto il principio di laicità) si determinano conseguenze di incalcolabile gravità, visto che, messa tra parentesi la laicità, sarebbe difficile negare ad un gruppo religioso maggioritario in una singola realtà scolastica locale il soddisfacimento della pretesa ad esporre i suoi simboli religiosi (nemine contradicente), con il completo stravolgimento dei rapporti Stato/religione disegnati dalla Costituzione repubblicana;

d) la soluzione contestata non è affatto sorretta dal riferimento alla “autonomia delle istituzioni scolastiche” operato dal nuovo art. 117, comma 3, Cost. (così, invece, S. CECCANTI, E se la Corte andasse in Baviera?, in AA. VV., La laicità crocifissa?, cit., 20 sg.), dovendo qui trovare applicazione - ovviamente! - l’art. 117, comma 2, lett. n);

e) banalmente, ma decisivamente, non si comprende donde codesta Ecc.ma Corte costituzionale potrebbe mai desumere le “rime obbligate” che dovrebbero consentirle un’operazione additiva di simile portata.

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P.Q.M.

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Si insiste nelle conclusioni già rassegnate in atti.

Roma-Padova-Firenze, 12 ottobre 2004

Avv. Luigi Ficarra

 

Avv. Prof. Massimo Luciani

 

Avv. Corrado Mauceri