LA SCUOLA DI BUSH E LE DUE AMERICHE

Pino Patroncini

 

Non si può dire che il tema della scuola e dell’educazione in genere sia stato al centro del confronto elettorale americano. Se si andava al sito dell’ambasciata americana di Roma alla voce Elezioni 2004 si potevano trovare due riassunti esaustivi dei programmi elettorali dei due candidati, ma è significativo che i titoli che comparivano come temi del confronto riguardassero l’Iraq, il terrorismo, il Medio Oriente, gli “stati canaglia” ( in sigla WMD = world most dangerous, countries sottinteso), il ruolo degli USA nel Mediterraneo, il commercio, la salute, la sicurezza, l’immigrazione, l’economia. Ma non l’educazione.

Questo tuttavia non vuole dire che l’educazione sia stato un tema assente dalla competizione. Solo che non è stato presente come in campagne passate o in campagne minori. Tra queste ultime vale la pena di ricordare la recente sfida tra Rudolph Giuliani e Hillary Clinton per il seggio senatoriale di New York  giocata con molte polemiche sulla proposta repubblicana del buono-scuola e sulla contrapposizione tra valutazione degli insegnanti (Giuliani) e valutazione della scuola (Clinton).

Indubbiamente ha pesato sulla marginalità del tema, non solo l’attualità e la spettacolarità degli altri, ma anche il fatto che, dopo le aspre e a quanto pare vincenti polemiche dei senatori democratici Kennedy e Libermann contro la promozione repubblicana dei buoni-scuola, il tema scolastico è stato oggetto di appeasement e di scelte politiche bipartisan con l’appoggio democratico al piano governativo noto come “No child left behind”.

Date queste premesse la posizione democratica in merito è apparsa depotenziata. E’ stata limitata a una generica promessa di maggiori finanziamenti, in particolare per garantire i fondi per il progetto “No child left behind” in tutte le scuole, supportando l’istituzione di scuole più piccole, di scuole femminili centrate su matematica e scienze, e delle cosiddette scuole “charter”, con in più solo la richiesta dell’apertura del doposcuola per 3 milioni e mezzo di bambini.

Altro punto qualificante del piano democratico: garantire a ogni classe un “great teacher”, un superprofessore, implementando opportunità di aggiornamento e di sviluppo professionale, creando test più rigorosi per il reclutamento dei nuovi insegnanti, prevedendo stipendi più alti per i docenti con competenze extra e che eccellono nell’aiuto all’apprendimento degli allievi, assicurando procedure rapide per la rimozione dei docenti che non lavorano bene, ma prevenendo anche ogni arbitrio in merito ( sic!).

Oggi in America  3 alunni su 10 non si laureano, rilevano i democratici, e tra ispanici, afroamericani e nativi la quota è uno su due. Kerry ed Edwards promettevano percorsi di laurea più abbordabili, più tutoraggio e più orientamento, la riduzione del numero di alunni per scuola, e il rafforzamento del curriculum dell’high school sicché gli alunni possano uscirne con un diploma più significativo.

 

La scuola di Bush

Al contrario Bush, a cui era stata offerta l’occasione di un progetto bipartisan sulla scuola, non poteva non farsi forte di questo fatto come una conquista del suo governo precedente ed una testimonianza di non faziosità. Ma è significativo che il capitolo sulla scuola nel suo programma si intitolasse “Costruire una forza lavoro altamente competente”. Mentre un altro capitolo era dedicato al problema della droga nella scuola e alla promessa di fondi per aiutare gli studenti a resistere alla tentazione di drogarsi e per aiutare i genitori ad intervenire.

Le promesse che ora Bush deve mantenere spaziano dalla prima infanzia all’università. La prima infanzia è considerata come decisiva per assicurare abitudini alla vita scolastica e per il successo scolastico. In merito l’idea è di rafforzare alcuni programmi dai titoli banali ma suggestivi come “Head start, grow smart” o “Reach out and read”. Il primo è un programma di educazione prescolastica concepita come parte di una cura pediatrica primaria (sic!), il secondo è centrato su competenze precoci di alfabetizzazione e di matematica per bimbi e famiglie. In quest’opera Bush pensa anche di coinvolgere “organizzazioni comunitarie o di fede”.

Per la scuola secondaria superiore l’obiettivo principale è implementare la valutazione delle competenze, soprattutto in alfabetizzazione e matematica,  a cui andranno destinati 250 milioni di dollari.

Per il successo scolastico si pensa allo stanziamento di una serie di fondi: 200 milioni di dollari da devolversi  agli stati per sostenere più ardite verifiche, 200 milioni di dollari annui per sostenere i progetti di alfabetizzazione, 269 milioni per espandere la partnership di formazione dei docenti di matematica e scienze, un incremento di 28 milioni di dollari per i corsi avanzati, 100 milioni di dollari per trasformare l’educazione professionale in un’educazione secondaria tecnica con un’offerta formativa che preveda come parte del curriculum quattro anni di lingua inglese, tre anni di matematica e scienze, e tre anni e mezzo di studi sociali.

Per gli insegnanti il programma di Bush promette un incentivo per gli stati e per le scuole volto a remunerare i docenti i cui alunni ottengono i risultati migliori. Promette di portare da 4.000 a 17.500 dollari il fondo per la restituzione dei prestiti utilizzati per l’alta qualificazione dei docenti in matematica, scienze e insegnamenti speciali. E promette di costruire un corpo di docenti aggiunti con compiti di assistenza o di supplenza, per il quale prevede uno stanziamento di 40 milioni di dollari.

Per l’educazione post secondaria la promessa ruota intorno all’aumento dei finanziamenti per borse di studio o per la restituzione dei prestiti d’onore o comunque lavori parauniversitari.

L’ultimo paragrafo del programma scolastico repubblicano è dedicato all’educazione lungo tutto l’arco della vita e all’apprendistato, riformando l’apprendistato al fine di raddoppiare il numero degli apprendisti, eliminando a favore degli studenti a part-time le restrizioni nell’accesso ai sussidi federali, permettendo che i prestiti servano anche a frequentare i corsi brevi, definendo programmi per la certificazione di competenze e di crediti scolastici, premiando coloro che si laureano in anticipo, aumentando il numero degli studenti che fanno uso dell’e-learning, incrementando l’alfabetizzazione degli adulti, finanziando i lavoratori sia per corsi che servano al rientro al lavoro, ma anche per soluzioni organizzative come la cura dei figli o i trasporti.

 

Un’America e l’altra

Ma se la scuola non è stato un tema molto dibattuto lo spaccato degli Stati Uniti che è uscito da queste elezioni alle soglie della società della conoscenza ha un rilievo eccezionale sul piano della cultura perchè mette in luce in maniera netta due culture diverse che caratterizzano la società americana. Per questo il voto merita una riflessione anche su un giornale dove si parla di scuola.

Si è parlato molto di un voto che ha spezzato i vecchi gruppi elettorali, prevalentemente  e forse troppo frettolosamente catalogati intorno alle razze ( neri e ispanici democratici, bianchi e anglosassoni repubblicani), alle religioni (cattolici democratici, protestanti repubblicani), alle classi sociali (operai democratici, classe media repubblicana).

Ma  ha messo in luce un’altra divisione: quella tra città e campagna. Mai come in questa elezione l’attributo di Grand Ole Party del partito repubblicano, con le sue radici “western”, è apparso azzeccato. Come la Grand Ole Opry, tempio della musica country, che sta a Nashville nel Tennessee. Sul sito della catena televisiva Cnn, i voti erano siglati Dem e Gop, anzichè Dem e Rep e ha avuto una splendida intuizione chi ha detto che il country ha battuto il rock, che si era mobilitato per Kerry.

E’ stato soprattutto il “vecchio West”, più che la cosiddetta “Bible belt” collocata un po’ più a Est, che ha determinato la vittoria di Bush. Non si tratta di stati popolosi, ma sono molti, 19 su 31 presi dal candidato repubblicano, e in questi fa impressione lo scarto tra presidente e sfidante, che è altissimo: 60, 70 e anche 80% a favore di Bush. Ci sono stati come l’Utah e il Nebraska dove Bush vince in tutte le contee, o come i due Dakota, il Montana, l’Arizona dove Kerry vince solo nelle riserve indiane o nelle contee abitate da maggioranze ispanofone lungo la frontiera messicana.

In nessuno dei 20 stati dove vince Kerry  vi sono scarti simili. Tranne che in uno: il Dipartimento di Columbia, vale a dire la capitale, Washington. Qui Bush deve sentirsi un po’ accerchiato: Kerry ha ben il 90%. Allo stesso modo Kerry vince in quasi tutte le capitali di stato, sia degli stati aggiudicati ai democratici che a quelli repubblicani, compresa Austin capitale della patria texana di Bush. Fanno eccezione solo poche capitali dell’ovest come, ad esempio, Salt Lake City nello Utah, mormona e da sempre repubblicana. Tra le tante cose dette a proposito dei partiti americani se ne potrebbe dedurre una definizione del Partito Democratico come partito del pubblico impiego, cosa non peregrina se si pensa all’alta sindacalizzazione del pubblico impiego americano e all’inclinazione dei sindacati per i democratici.

E il voto di Kerry è ben localizzato dentro alcune ben caratterizzate continuità territoriali: a parte le Hawaii, Kerry prende gli stati della costa occidentale, quelli del New England e quelli intorno ai Grandi Laghi. Gli stati più industrializzati, con grandi concentrazioni metropolitane e con più alta densità. Ma le cartine colorate di rosso (repubblicani)  e di blu (democratici) che hanno costituito lo sfondo degli studi televisivi in questi giorni rendono poco il senso della divisione che ha attraversato il paese in questa contesa. Servono di più a questo scopo le cartine che suddividono gli Stati Uniti in contee. Se si confronta una di queste cartine con una foto satellitare notturna degli Stati Uniti (lo ha fatto un sito americano) non si ha difficoltà vedere la coincidenza quasi piena del voto di Kerry con gli ammassi di luce degli agglomerati urbani e quella di Bush con le parti più scure e con un’oscurità ancor maggiore oltre quella linea immaginaria, un po’ più a ovest del corso del Missisippi, che da sud a nord taglia in due il paese e che unisce  Houston, Dallas, Oklahoma City, Wichita, Omaha e Minneapolis, quasi fossero ancora gli ultimi avamposti prima della grande e deserta prateria del Far West.

Dalle cartine del voto per contea scopriamo dunque due cose. La prima è che Kerry vince in quasi tutte le grandi città e soprattutto nei grandi agglomerati metropolitani: non solo a New York, Boston, Chicago, Milwaukee, Minneapolis, Detroit, Los Angeles, San Francisco, Seattle, che sono negli stati attribuiti ai democratici, ma anche a Cleveland e Akron nell’Ohio e nelle città del sud come Atlanta, New Orleans, Miami, Savannah, Richmond, Memphis, Nashville, a Saint Louis, a Kansas City, nelle texane Dallas e San Antonio, a Denver e persino nella peccaminosa Las Vegas. Tra grandi aree metropolitane solo Phoenix, Houston e Cincinnati sono le uniche eccezioni a favore dei repubblicani

Ma non appena si esce dalle città, anche negli stati aggiudicati a Kerry, e questa è la seconda scoperta, il voto cambia e progressivamente, inizia a prevalere Bush. Questo non avviene nel New England vero e proprio perchè lì il territorio è stretto, ma basta vedere il voto delle contee del più ampio stato di New York o della Pennsylvania  o dell’entroterra californiano per accorgersene.

 

Cosmopolitismo o tradizionalismo.

Due Americhe dunque. Una è quella moderna, cosmopolita della Grande Mela, aperta e, se non pacifista, non disponibile a uno stato di guerra e di paura permanente, sufficientemente consapevole dei rischi ma anche dei vantaggi o almeno della inevitabilità della multiculturalità.

L’altra è quella più tradizionalista in cerca di una identità che trova nel suo presente, ma soprattutto nel suo passato, incurante del fatto che a stadi successivi questo passato ha proceduto a sempre ulteriori integrazioni. Per cui oggi questo tradizionalismo ingloba l’afroamericano che non inglobava cinquant’anni fa, l’ispanico che non inglobava vent’anni fa, l’italiano o l’ebreo che non inglobava cento anni fa. Li ingloba e ne è anche condivisa, a certi livelli, con sorpresa dei commentatori che denunciano l’abbandono di Kerry da parte di afroamericani e ispanofoni.

E’ una identità che come spesso succede si caratterizza per negazione. Ha bisogno di un nemico. Ieri era “l’impero del male” sovietico, oggi è il terrorismo, a cui assimila tutti i fenomeni di conflitto violento in una improbabile internazionale del terrore, che fa tesoro di approssimazioni e sospetti per tutto ciò che è diverso.

E’ dai tempi della Guerra di Secessione che l’America non registrava una simile diversità e così marcata territorialmente. Anche allora tra le due Americhe non c’era solo la questione della schiavitù. C’era una diversa mentalità. In realtà allora si scontrarono coloro che prevedevano per gli Stati Uniti un futuro essenzialmente agricolo e chi prevedeva uno sviluppo industriale. Industriali contro piantatori, “ferrovieri” contro “battellieri”, l’asse commerciale S. Francisco-Chicago-NewYork contro l’asse commerciale S. Francisco-St. Louis-New Orleans. Il Nord e la California erano per la via industriale e il Sud era per la via agricola. Il West, unico vasto e spopolato territorio, non ancora assurto alla dignità di stato, era praticamente neutrale.

Oggi la divisione geografica, stato più, stato meno, è quasi la stessa. Ma le parti sono rovesciate. i repubblicani non più partito del Nord e delle città, ma del Sud e dell’Ovest e i democratici non più partito del Sud e delle campagne, ma del Nord e delle città.  Ma  il Nord e la California sono non più maggioranza dell’Unione.

Sarebbe però anacronistico concepire in termini tradizionali questa divisione tra città e campagna. L’America del duemila non è l’Europa dell’ottocento, non si tratta dell’arretratezza economica. Né tanto meno si tratta dell’arretratezza culturale: scuola e mass-media sono ovunque. Né il West di oggi è quello dei pionieri e degli indiani.

Ciò che non è ovunque è la quotidianità delle convivenze e dei conflitti che generano i problemi ma anche la cultura per affrontarli. Non solo la guerra in Iraq o il terrorismo, ma la nuova immigrazione, la delinquenza, i diversi comportamenti sessuali.

E’ ovunque invece la paura, che gli stessi conflitti generano e a cui l’11 settembre ha dato una materialità spettacolare. Paradossalmente il collegio di Manhattan dove è avvenuto l’attacco vota contro Bush, ma la più sperduta e lontana località del West gli dà percentuali bulgare.

E questa paura è tanto più ingovernabile razionalmente quanto più è distante dalla quotidianità reale. La metodologia del “problem solving” che proprio gli americani pretendono di avere inventato mostra proprio qui i suoi limiti. Dove il problema non c’è perché non è ancora arrivato, dove se ne è solo sentito parlare o lo si è visto in tv, dove si ha solo paura che arrivi, non si cerca di risolverlo. Si cerca di evitarlo, di prevenirlo.

Perché stupirsi dunque che la cultura della guerra preventiva abbia presa proprio laddove il problema è, appunto, prevenire? Certo in un’America rurale che noi conosciamo solo attraverso il film western lo stereotipo della soluzione dei problemi può essere il John Wayne di “Sentieri selvaggi”. Ma questa ne è l’espressione culturale, enfatizzata dalle origini texane di Bush, non la causa.

E non è una novità americana: è così che è nato il nazismo in Germania. Non dalle classi sociali più toccate dalla crisi, ma da quelle che temevano che prima o poi sarebbe toccato anche a loro: c’è tutta una teoria sulla fascistizzazione dell’Europa tra le due guerre, come controrivoluzione preventiva, appunto.

Allo stesso modo c’entrano solo fino a un certo punto i predicatori televisivi delle chiese protestanti, che certo sono espressione del “movimento” pro-Bush, ne dinamizzano la scena, magari ne costituiscono i leader locali, ma da soli non farebbero egemonia.

Certo nell’America profonda è anche possibile che l’estrema autonomia si traduca in poteri locali, amministrativi ma anche ideologici, più forti e assoluti di quanto non sia il potere centrale. Anche in questo caso il cinema ce ne ha offerto gli stereotipi da “E l’uomo creò Satana” a “Foootloose”. Ma è riduttivo pensare a tutti gli Stati Uniti come a una grande “Bible Belt”. La “Bible Belt” è nel Middle West. Non spiega né il voto democratico della sudista Little Rock, nè il voto repubblicano delle campagne della Pennsylvania, dove forse i centri agricoli sono meno delle città satelliti di Filadelfia e di Pittsburgh. Per continuare a dirla col cinema credo che oltre alle sacche di ignoranza e di fondamentalismo religioso, oltre alle sacche dei manipolati dall’allarmismo televisivo, e di quelli ingozzati dai troppi western visti, oltre ai droghieri o agli agricoltori insofferenti delle tasse, senza dimenticare i petrolieri,  l’elettore che ha fatto vincere  Bush assomigli più che al reverendo fondamentalista di “Footloose”,  al giovane coscritto dell’Oklahoma di “Hair”, che solo transitando per New York scopre “l’altra America” degli hippies renitenti alla leva del Vietnam.

Quello che è certo è che dopo questo voto, che ha visto perdere il cosmopolitismo e vincere il tradizionalismo, il soldato americano che “esporta la democrazia nel mondo” , con  buona pace del Maurizio Ferrara di turno, sembra avere sempre  meno a che spartire col soldato che nel ’45 distribuiva tavolette di cioccolato e sigarette dalla torretta del suo Sherman  e che sembrò così sorprendentemente generoso e cosmopolita ai nostri genitori o ai nostri nonni a loro volta così provinciali.

 

BOX 1

 

Quando i repubblicani erano la sinistra.

 

Dicono poco i nomi dei partiti americani. Democratico e repubblicano nella fraseologia politica europea significano o hanno significato praticamente la stessa cosa. E anche l’appellativo di Grand Ole Party, grande vecchio partito  attribuito ai repubblicani americani non dice tutta la verità, perché in realtà al storia del partito democratico è più vecchia.

I repubblicani nacquero infatti nel 1854 dalla confluenza di alcuni deputati democratici dell’Ovest, dei deputati antischiavisti del partito Whig americano, del Liberty Party, una formazione antischiavista, e di un partito di agricoltori che si chiamava Free Soil Party.

Il partito democratico invece esisteva già  fino dai giorni dell’indipendenza del 1776, ed era il partito di Jefferson, dei coloni, della frontiera, ma anche dei piantatori del sud, francofilo e fautore dell’autonomia dei singoli stati,  in contrapposizione al partito federalista, in realtà centralista (il nome stava a significare fautore del potere federale), anglofilo ed espressione delle elites urbane. Asceso al potere all’inizio dell’ottocento con la presidenza Jefferson, il partito democratico-repubblicano, come veniva definito allora, sviluppò l’espansione verso l’Ovest con l’acquisto dalla Francia del vastissimo territorio della Louisiana, base per l’espansione agricola, demografica e economica e in poco tempo divenne il dominatore incontrastato della vita politica americana, eclissando i federalisti e rasentando la dittatura con la presidenza del generale Andrew Jackson, prestigioso vincitore degli inglesi a New Orleans, degli indiani nel Sud e dei messicani nell’Ovest. Proprio in reazione a questa “dittatura” dal seno stesso del partito democratico negli anni quaranta dell’ottocento nacque il partito Whig americano, che nel nome voleva riprodurre una linea politica radicalmente riformatrice degli omonimi liberali inglesi. Ma entrambi i partiti, e soprattutto i democratici, erano minati dalla divisione tra schiavisti e antischiavisti, dietro cui si celava lo scontro tra un’America protesa allo sviluppo industriale e ai commerci interni, e un’America agricola e proiettata sui commerci esteri, tra le grandi città del Nord che traevano nuova linfa commerciale dall’espansione all’ovest e le campagne del Sud concentrate sulla produzione agricola e l’esportazione di cotone, tabacco e cereali.

Il Partito repubblicano nacque raccogliendo le istanze antischiaviste e gli interessi dei primi. In pochi anni giunse al governo, con la presidenza Lincoln. E fu la guerra civile.

In quel periodo dunque si raccoglievano intorno ai repubblicani le istanze più democratiche e gli interessi di settori popolari che traevano vantaggio dall’industrializzazione e dal commercio interno, come gli operai dell’Est, gli agricoltori del Middle West, i commercianti della California, ma anche dei settori capitalistici più forti dell’industria meccanica, mineraria, alimentare e ferroviaria.

Esisteva allora nel partito anche un’ala radicale capeggiata da John Fremont, generale nordista, “eroe del West” insieme a Kit Carson nelle guerre indiane contro Kiowas e Navajos e per l’indipendenza della California dal Messico, ammirato da Marx, che teorizzava la consegna delle armi ai neri del Sud e  l’insurrezione degli schiavi. Ma il progetto era osteggiato da Lincoln e portò alla destituzione di Fremont.

La sconfitta del Sud nella guerra civile, la sua lunga occupazione militare ( di cui si parla poco nell’iconografia storica americana), la divisione dei democratici in sudisti e nordisti, diedero al partito repubblicano il predominio sulla scena politica americana per tutta la seconda metà dell’ottocento. E il partito cadde in mano ai potentati economici del petrolio, dell’acciaio e delle ferrovie, in un periodo contrassegnato da grandi e violente lotte operaie e da movimenti contadini non privi di effetto politico. Con Theodor Roosevelt, che alla fine del secolo aprì il dialogo con i sindacati e decretò le prime leggi antitrust, i repubblicani sembrarono riacquistare la loro originalità popolare. In realtà nel partito si accese una grossa lotta tra le due ali che nel 1912 portò all’esclusione di Roosevelt dalle presidenziali. Egli costruì allora un proprio partito, il Partito Progressista, che prese più voti del Partito repubblicano, ma no di quello Democratico, che vinse le elezioni con Wilson e con un programma moderatamente progressista. Si può dire che da quella data il Partito Repubblicano americano assunse quella caratterizzazione conservatrice che ancora oggi lo caratterizza. Mentre le istanze democratiche, dopo alcuni rientri ed uscite (i progressisti rientrarono nel partito, ma si ripresentarono autonomamente alle elezioni nel 1924 con Bob La Follette), finirono con l’essere ereditate definitivamente dai democratici con l’altro Roosevelt, Franklin Delano, e il suo “New Deal”.

 

 

BOX 2

 

Le elezioni americane: queste sconosciute.

 

Nonostante la grande pubblicità che è stata data alle elezioni presidenziali americane se chiedessimo ad un italiano quanti candidati si confrontavano ci sentiremmo rispondere : due, Bush e Kerry. Pochi, che sono stai informati della candidatura di Nader o di qualcun altro, potrebbero dire tre o quattro. In realtà i candidati erano ben 40, di cui 15 affiliati o sostenuti da un partito e il resto indipendenti. Tra i partiti a sinistra si potevano contare i Verdi, un paio di candidati socialisti, un partito mondiale dei lavoratori di ascendenze comuniste, un paio di candidati trotzkisti, un partito populista e un candidato pellerossa (Leonard Peltier) in carcere per le proteste legate al movimento degli indiani d’America. Nell’insieme i candidati di sinistra, comprendendo anche Ralph Nader, che però era presentato come indipendente e raccoglieva anche l’appoggio del Reform Party che di sinistra certo non è, hanno raccolto meno di 700.000 voti, grosso modo lo 0,6%.

Altrettanto hanno raccolto gli oltranzisti di destra tra i quali un Partito Libertario, iperliberista, e un Partito della Costituzione, antitasse. Merita menzione per curiosità anche un Partito della Scelta Personale che schierava come vicepresidente una nota pornostar. C’è da dire che, tranne i due principali contendenti, nessuno degli altri candidati si presentava in tutti e 51 gli stati, altri quattro erano presenti in un numero di stati variabile da 35 a 45, i trotzkisti in 11 e gli altri candidati per un numero variabile da 1 a 5 stati. La battaglia di questi candidati si caratterizza quindi o per un tentativo di misurare i propri consensi, senza ambizioni di presidenza, o come candidatura di disturbo oppure per ottenere “voti elettorali” cioè i cosiddetti grandi elettori.

Assente il principale “terzo partito” degli ultimi tempi, il Reform Party, conservatore, che invece aveva deciso di appoggiare il progressista Nader, in nome di una spallata al sistema bipartitico.

La storia dei terzi partiti in America non è molto fortunata. L’unica eccezione è rappresentata dal Partito Progressista dell’ex repubblicano Roosevelt nel 1912 che riuscì a divenire il secondo partito dopo i democratici e prima dei repubblicani. Prima di allora i risultati più significativi li ebbero il Free Soil Party nel 1848 (10%),  i Whig nel 1856 (21%), i Democratici Sudisti nel 1860 (18%),  la Unione Costituzionale nel 1880 (12,5%), i populisti nel 1892 ( 8,5%). Questi ultimi erano l’espressione del movimento degli agricoltori di quegli anni, e confluirono in seguito nei democratici.

Nel 1912 vi fu anche un 6% per i socialisti. Dopo di allora vi fu un 15% ai progressisti di Bob La Follette nel 1924, un 13% per il razzista George Wallace  nel 1968 e un  19% nel 1992 e un 8,4% nel 1996 per il Reform Party di Ross Perot e di Buchanan. In piena caccia alle streghe, nel 1948 e nel 1952 ebbero  appena  il 2,4 e il’1,4% i progressisti filocomunisti che candidarono l’ex vice di Roosevelt Henry Wallace.

Nella sostanza i terzi partiti il più delle volte finirono per favorire gli avversari del partito da cui si erano staccati.