Il passato e il buon senso

 

di Giulio Tremonti

Corriere 22 agosto 2008

 

Caro direttore, ho letto con molto interesse l'articolo di Ernesto Galli della Loggia sulla scuola.

Nell'articolo l'autore sostiene — tra l'altro — che sarebbero stati «impunemente tagliati i fondi destinati

alla istruzione» perché non si sa «a che cosa questa scuola può davvero servire ». Non è così. Nei primi

sei mesi del 2008 il prodotto interno lordo italiano è sceso verso lo zero, mentre il deficit pubblico è salito

verso il 3%. Dato questo, non c'erano e non ci sono alternative alla scelta di ridurre la spesa pubblica.

Tutte le voci di spesa pubblica sono in sé meritevoli: la sanità, le pensioni, l'assistenza sociale, i lavori

pubblici, la sicurezza, la difesa, l'istruzione ecc., ma l'interesse generale non è la somma impossibile degli

interessi particolari. La novità della Finanziaria per il 2009-2011 non sta comunque tanto nel fatto che le

voci di spesa sono ridotte in assoluto, quanto nel fatto che ogni ministro può fare, all'interno del suo

bilancio, la sua finanziaria, finanziando o definanziando le voci di spesa che considera più meritevoli. E'

così anche per la scuola. Per inciso: sulla scuola i cosiddetti tagli sono solo l'allineamento progressivo agli

standard europei.

Per la verità, l'intervento di Galli della Loggia va oltre la questione dei tagli perché vede nella scuola

italiana l'emblema dell'incertezza che in negativo caratterizza il tempo presente. E' così. Ma non è così

solo in Italia e non è irrilevante rispetto a questa incertezza il fatto che tutte le ideologie introdotte dal

'900, tanto quelle fondamentali — il socialismo, il fascismo, il comunismo — quanto quelle marginali — il

nullismo del '68 ed il mercatismo liberista — sono, al principio di questo nuovo secolo, in crisi, tutte

rifiutate dai giovani che cercano altri, nuovi, diversi valori. Può essere invece il ritorno al passato e

all'800, e molti segni sono in questa direzione, può essere che dall'attuale «marasma» prenda inizio un

nuovo futuro.

Tornando alla scuola vorrei fare due proposte non economiche. La prima è sui voti. La seconda è sui libri.

Il '68 ha portato via i voti sostituendoli con i giudizi. I numeri sono una cosa. I giudizi sono una cosa

diversa. I numeri sono una cosa precisa, i giudizi sono spesso confusi. Ci sarà del resto una ragione

perché tutti i fenomeni significativi sono misurati con i numeri. Un terremoto è misurato con i numeri

della scala Mercalli o Richter. Il moto marino è misurato in base alla scala numerica della «forza», la

pendenza di una parete di montagna in base ai «gradi», la temperatura del corpo umano ancora in base

ai «gradi». La mente umana è semplice e risponde a stimoli semplici. I numeri sono insieme precisi e

semplici. Il messaggio che trasmettono è un messaggio diretto. Se gli stessi fenomeni — terremoto, moto

marino, pendenza, temperatura corporea — fossero espressi non con numeri ma attraverso frasi

complesse con finalità descrittive, il messaggio resterebbe impreciso. E' esattamente quello che accade

nei due segmenti di base e perciò fondamentali della nostra scuola, quello elementare e quello medio. Qui

non ci sono più i numeri perché al loro posto sono stati inventati i giudizi. Tra numeri e giudizi c'è una

differenza profonda. Ogni valutazione deve mettere capo a una classifica. Questa è la logica della

valutazione. Se non c'è una classifica, non c'è neanche una reale valutazione. Nella scuola inglese, ad

esempio, gli studenti sono addirittura classificati in un ordine rigido. In ogni classe esiste un primo

classificato, un secondo classificato e così via. Mi sembra francamente un'esagerazione. Ma non mi

sembra affatto un'esagerazione tornare a dare i voti come una volta: 10, 9, 8, e cosi via, perché la verità

è semplice; dare un giudizio senza una classifica significa non dare affatto un giudizio reale. Il voto non

esprime un arbitrio ma al contrario obbliga l'insegnante e l'alunno ad assumersi precise responsabilità, a

produrre una sintesi dei diversi materiali che stanno alla base di una valutazione di un allievo. Dove non

c'è un voto, non viene fornita una reale informazione sul reale andamento scolastico dello studente, né a

quest'ultimo né alla sua famiglia.

La logica del giudizio senza vincoli numerici è troppo spesso una logica dell'irresponsabilità,

dell'ambiguità, del detto- non detto, dell'interpretazione casuale. I numeri possono, tra l'altro, riflettere

una «media». Invece con gli aggettivi e gli avverbi di cui sono riempiti i cosiddetti giudizi si fa solo

confusione. In sintesi c'è un numero da togliere e ci sono dei numeri da introdurre. Il numero da togliere

è il numero 1968, sintetizzato in 68. I numeri da mettere: 10, 9, 8, 7, 6 etc. L'idea che mi pare giusta è

quella di mettere al posto dei «nuovi» giudizi i «vecchi » numeri. Il giudizio può accompagnare il voto,

renderlo chiaro, esplicitarlo, in una parola motivarlo. Ma non può sostituirlo. Nella loro strutturale

imprecisione i giudizi da soli sono normalmente causa di confusione.

Per come sono strutturati e «bizantinati », basati su formule che tendono ad essere ipocrite,

psicopedagogiche, tautologiche, caramellose, offensivo-giudiziarie o presunte tali, i giudizi sembrano fatti

apposta per mandare fuori di testa i genitori o per stendere i ragazzi sul lettino dello psicanalista o per

portarli tutti insieme da un avvocato che ti predispone il ricorso — quasi sempre vincente — davanti al

Tar. Tutto questo mina gravemente un fondamento tradizionale della nostra società, che è quello del

rapporto necessario di autorità e insieme di fiducia che ci deve essere tra l'allievo, la famiglia e

l'insegnante. Si figuri poi quando gli insegnanti sono tre o quattro per ogni classe. E poi dopo i voti i libri.

Nella scuola italiana da troppo tempo (e non era così prima: è un effetto negativo della «modernità») i

libri di testo cambiano con una frequenza forsennata e parossistica. Cambiano per scelta del docente, ma

cambiano soprattutto perché gli editori stampano quasi ogni anno una nuova edizione di ciascun testo, in

modo che quelli dell'anno precedente diventano automaticamente vecchi — fa più fino dire obsoleti — e

con ciò sostanzialmente inutilizzabili. Su questa pratica si possono dire due cose essenziali: è

ingiustificata; è contraria agli interessi delle famiglie.

Ingiustificata perché non vi è alcuna reale esigenza didattica per il cambio annuale dei libri di testo. Le

scuole non sono dottorati di ricerca dove si è sempre sulla frontiera del cambiamento.

A livello di scuola elementare, media e superiore la matematica è quella di sempre. Quella dell'Ottocento

e del Novecento. Sappiamo bene che la frontiera della scienza non è ferma, che avanza continuamente. E

tuttavia sappiamo che la base necessaria e sufficiente per l'apprendimento scolastico non muta e non

avanza necessariamente da un anno con l'altro. La stragrande maggioranza dei contenuti di

insegnamento della matematica, della storia, della letteratura, resta stabile durante lunghi periodi di

tempo. Sicuramente non cambia per periodi di cinque anni. Laddove vi sono reali cambiamenti si può

prevedere che a manuali «consolidati» per cinque anni vengano aggiunte delle piccole appendici che

riportino i fatti nuovi che siano davvero rilevanti o le nuove scoperte scientifiche. Solo questo tipo di

manuali dovrebbe essere adottato. Certo, ci sono anche le novità nel metodo di insegnamento. Non pare

che abbiano funzionato granché bene se emerge per esempio che il 60% degli alunni italiani dovrebbe

essere bocciato in matematica. Se la realtà è questa vuol dire che a essere bocciati non dovrebbero

essere solo gli allievi ma anche i loro professori o più in generale la scuola nel suo insieme, metodi di

insegnamento «avanzati» compresi. A fare gli esami non dovrebbero essere solo gli alunni ma anche la

scuola nel suo insieme. Il cambio annuale dei libri di testo è poi contrario all'interesse delle famiglie.

Impedisce di passare i libri dai figli più grandi ai più piccoli, come era una volta. O di comprare i libri sul

mercato dell'usato. Dopo essere stati utilizzati un anno solo, i testi diventano inutili.

Tra l'altro questa pratica disabitua gli studenti a trattare i libri con cura, a considerarli oggetti di valore e

dunque degni di attenzione. I libri non possono essere un prodotto usa e getta. Nel 2004 sul Corriere ho

scritto un articolo sull'«E-book». L' obiezione che mi fu fatta era sulla sacralità del libro. Era un' obiezione

fondata.

A me sembra che quello della scuola italiana si presenti come un mondo fatto al contrario. Un mondo in

cui non è la scuola a servire le famiglie, ma il «kombinata buro-scolastico» a servirsi di loro salassandole

per sopravvivere esso stesso. Una volta c'era un maestro per tre classi. Adesso ci sono tre maestri per

una classe. Era meglio prima o è meglio adesso? È un kombinata che si nutre con le tasse e che lavora

contro la famiglia: più figli hai, più sei costretto a pagare la tassa odiosa e impropria dei libri «nuovi » che

ti costano ogni anno centinaia di euro. Forse anche questa, a favore dei «vecchi» voti e contro i «nuovi»

libri è una frontiera di quel cambiamento che la gente chiede. Un cambiamento che non è un salto nel

vuoto, come nel '68, ma un ritorno al passato. Al buon senso e alla logica, ai valori e alle tradizioni di un

passato che deve e può tornare.