Ottiero Ottieri, Diario del seduttore passivo, Firenze, Giunti, 1995, pp. 159 ("Mercurio").

La collana, diretta da Enzo Siciliano, consolida con questa opera di Ottieri un genere, che potrebbe definirsi "poemetto di mondo", che trova nel verso, libero ma misurato secondo la scansione del pensiero, la sua forma più vera. Ottieri aveva del resto ampiamente sperimentato il genere del poema in versi fin dagli anni '70, ma in tempi più recenti con nuovo slancio in L'infermiera di Pisa (1991), Il palazzo e il pazzo (1991), Storia del PSI nel centenario della nascita (1993), La psicoterapeuta bellissima (1994) e, infine, nel più complesso Il poema osceno (1996). Tutti libri diversi ma spesso accomunati da una satiricità essenziale, da un umanesimo assoluto, e dalla centralità autobiografica e universale di una "follia" di continuo cercata, fuggita, difesa, sofferta. La fonte vitale della scrittura di Ottieri è il dialogo, contratto e punteggiato ("Scrivo per avere / milioni di dialoghi"), che chiama in un teatro di colloqui astuti e condensati l'archetipicità verbale dei personaggi, reali nella loro ossessiva presenza e concretezza, eppure astratti, per certi versi allegorici. L'io sopravvive grazie a una estrema estroflessione referenziale, la scrittura cattura il fuori, ellittico e a volte enigmatico, ostacolante, in una strategia della convergenza, in una specie di bulimia culturale, "alcolismo del mondo". Il mestiere della follia ("Il malato non può competere / che usando il suo male") comporta un confronto con visioni del mondo che sono forme del dire, coazioni della necessità, ottusità inevitabili, post-snobistiche comprensioni di sfumature. Tutto avviene sul piano della mente, senza che ci sia nulla di allucinatorio: l'andamento del diario garantisce una compostezza del privato, una scansione dei fatti reali e al tempo stesso un'apertura interrogativa verso la storia, verso gli avvenimenti esterni.
Eppure è un idillio, idillio intellettivo: i dialoghi sono perfetti, un miracolo compositivo per come gli insight che li costituiscono combaciano perfettamente con la struttura satirica, senza sbavature. Questo combaciare è dato dalla natura della satira di Ottieri, sempre orientata sulla parola-pensiero: la flebile narratività di queste operette morali è sempre alla ricerca - qui sta l'umanesimo - del "viluppo di base", delle "fonti"; il pensiero cadenzato, nel suo serio sbeffeggiamento del mondo e di se stesso, non rinuncia a cercare una verità delle cose. Non ci sono sbavature: l'uso di apocopi, anticipazioni dell'aggettivo, inversioni, assonanze, paronomasie, citazioni, rime baciate e rime al mezzo, luoghi comuni lessicali, sono parte costitutiva di quel pensiero cadenzato, filtro letterario per mostrare un'asperità, pur nella continua ricerca di una "guarigione". In questo senso la scrittura di Ottieri è anche una scrittura amorosa, in un senso dantesco ("nell'amore, io, infelice, / necessito sempre / di un volto / dietro al volto. / Ma non tollero / la trasparenza"), dove l'amore, nel tentativo "d'alleggerire l'esserci", deve sempre fare i conti con l'umore.

[Federico Pellizzi]


Edoardo Albinati, La comunione dei beni, Firenze, Giunti, 1995, pp. 118 ("Mercurio").

Se si dovesse individuare un "genere del discorso" che scandisce la trama ritmica del poema prosastico-poetico di Albinati, questo sarebbe l'asserzione breve, la massima. Ciò non stupisce se si considera che l'aspirazione al breviloquio, ancora in una forma isolata ma già ricettiva, era un antecedente nei "proverbi" di un altro libro di Albinati, Elegie e proverbi. Là l'elegia e i proverbi erano separati e muti, indecisi se affidarsi a una narratività esteriore, prosastica, o a una narratività di pensiero. Le situazioni si circostanziavano in surrealismi fotografici, in sceneggiature caleidoscopiche e in brevi prosodie. Qui la massima, provvisoria e sospesa eppure solida, amata per la sua stessa presenza, è un bene, un pezzo di mobilio. Costituisce il tessuto che il verso ricama di dolore vitale. Intorno a questo gioco continuo di inserzione e commento, di ironia affettuosa e lucida, di presa di distanza e riproduzione di frasi, riconoscibili e assertorie come oggetti di famiglia, si apre uno spazio per riparlare del mondo. Tra le frasi e le cose la forma istituisce legami: il verso è tagliente, si fa misura della loro possibile equiparazione, intellige la loro stessa percettibilità reciproca ("quante frasi potresti registrare, col microfono piazzato / tra i cuscini, lo small talk a cui essere altamente fedeli / come le tappezzerie, il cane, le sedie / che non potresti immaginare fuori di qui, fuori da / questa casa [...]"). Ma se l'imperfetto è il tempo degli oggetti, il presente, il condizionale, il futuro sono piuttosto i tempi e i modi della vita comprendente e agente, e il presente indicativo, sempre, è quello della massima, genere dell'oggettività compenetrata e del "sublime scetticismo". La permanenza delle cose, pur nella loro infinitesima imperdurabilità, è qui abitata da molti: è un poema in seconda persona, ma mosso da continue presenze: "essi", "si", "vostri", "loro", "noi", "lui", "lei". Lo stesso "tu" è molteplice, è al tempo stesso un "io", una figura paterna, la ricerca di un "tu". Questo gioco di pronomi dà anche ragione della "comunione" del titolo, dove un'espressione giuridica diviene, per consuetudine affettiva, per esercizio di scrittura, luogo di espressione di un'antica sapienza di riti collettivi, di uno studio reiterato dell'esistere ("Come a quello studio matto somigli la nostra vita/gratuita e omicida, che è vita e non semplice destino").
Nella Comunione dei beni la poesia non cede alla prosa, ma in un certo senso la conquista, la riacquista.

[Federico Pellizzi]


Gabriele Frasca, Lime, Torino, Einaudi, 1995, pp. 158

Vicino al gruppo '93, oltre che per ragioni territoriali, per averne condiviso l'esperienza ed alcuni orientamenti fondamentali, Frasca se ne distingue per un uso allegorico dei modelli mai risolto in eversione violenta, ma condotto nel rispetto delle forme regolari. Questa attenzione per la cura formale porta, ad esempio, al recupero di una delle strutture più ardue: la sestina lirica, studiata anche teoricamente col saggio La furia della sintassi. La sestina in Italia (Napoli, Bibliopolis, 1992), e già utilizzata in Rame (1984), dove pure vengono introdotte alcune variazioni rispetto al canone. In Lime, che contribuisce a svelare l'ipogramma nascosto nei due titoli (rime), viene data ancora più forza alla sonorità della materia verbale: mentre i rimastichi riprendono l'uso ossessionante delle parole rima, acquista maggior rilievo la sperimentazione, anche intraverbale, specie nei versi tronchi dei quartetti. Non si pensi ad uno stile sublime ed arcaico: la sezione Merrie Melodies (che riporta testi in duplice versione, inglese e italiana) cita in maniera diretta i cartoons della Warner Bros, ed è conclusa dal loro immancabile That's All Folks! Nella struttura linguistica essa si presenta ossessivamente franta, tale da giustificare il richiamo a Beckett, autore apprezzato, studiato e tradotto (non solo qui ma anche in Amore traduttore, Cosenza, Periferia, 1995). Il riferimento all'immaginario della cultura popolare affiora anche nella poesia fumetto, che sembra voler ricondurre la scansione spezzata di questa versificazione all'azione suddivisa, più che per fotogrammi continui, per discontinue vignette, con frequenti cambiamenti di inquadratura.

[Vincenzo Bagnoli]


Enrico Testa, In controtempo,Torino, Einaudi, 1994, pp. 99.

La raccolta condivide una diffusa tendenza al 'concetto', articolato però in una struttura tutta gravitante sulla sphragís, sul sigillo finale, più che su un andamento aforistico. Viene dedicata una estrema attenzione alla cadenza, ma sempre nel rispetto della disposizione più tradizionale e di una sintassi prosastica, veloce. Respiro e ritmo sonoro sono le matrici profonde di questa metrica (Testa è infatti uno studioso di fenomeni dell'oralità), la quale rivela un 'rassegnato' ascolto ed una assimilazione della lezione della tradizione 'ligure', ma depurata dell'enfasi, messa in conflitto con altri discorsi, alleggerita da una ironia in azione anche nella prosodia, che sostituisce la cadenza solfeggiata dei cantabili con questo 'a levare' sincopato e nervoso. Sono presenti molte spezzature, anche se i testi non si presentano fratturati e parcellizzati in piedi, in arsi e tesi addirittura, come in Frasca. La consapevolezza del soggetto stratificato (esplicitata fin dalla composizione incipitaria) porta alla scelta di una narratività con ruoli e voci, con "simulazioni di parlato", uso frequente delle virgolette, di un gioco prospettico ironico sempre condotto in verbis.

[Vincenzo Bagnoli]


Alberto Bertoni, Lettere stagionali, con una nota di Giovanni Giudici, Castel Maggiore (BO), Book Editore, 1996, pp. 107.

A voler additare il segno connotante e la chiave di lettura suggerita (dall'autore e da Giudici prefatore), ci si trova a registrare l'intenzione fortemente dialogica di questa poesia. La parola rivolta - lettere per qualcuno o a qualcuno - però non esaurisce una volontà di rapporto non meno personale con la realtà esterna, animata nei luoghi che mutano e ruotano, e nel tempo che asseconda il movimento dei mesi e delle stagioni. Ma questa stessa parola cosĪ 'estroversa', disposta a nutrirsi di nomi e di cose (persone, strade, piante), pure cerca forme di contenimento aggregandosi in strofe unitarie, talvolta chiudendosi in parentesi di solitario dialogo. Affermata difatti la volontà della comunicazione, permane la consapevolezza che solo resta "uno scabro d'impronte sul terreno": il meccanismo dei movimenti di andata e ritorno non sempre riesce, la trascrizione puntuale del diario da dicembre a novembre ci parla certo di nuovi inizi, ma anche afferma che non "perfetto" è il cerchio.

[Beatrice Bartolomeo]


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[versione cartacea: n. quattro-cinque, maggio 1996, pp. 39-47 - versione web: 1996, n. 1, I semestre]

 


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