Federico Pellizzi
L'ipertesto come discorso critico: potenzialità e limiti *


 

Ho l'impressione che, nonostante le vaste bibliografie,1 di ipertesto in quanto tale, in realtà, in questi anni di dibattito sulle nuove tecnologie, si sia parlato molto poco: si è parlato, e molto si è fatto, sulle edizioni critiche ipertestuali2 e sugli ipertesti didattici, ma poco si è detto sull'ipertesto come forma di discorso, a partire in primo luogo da come è fatto. Quando si è sfiorato il problema, si è considerato per lo più l'ipertesto in termini applicativi, in funzione di altri ordini di discorso già esistenti, oppure - e questa è stata la via maestra, in termini utopici e generalisti.

In realtà questa sfuggenza si è costituita fin dall'origine del dibattito, a cominciare da Ted Nelson, fino alla fase più recente, diciamo da dopo l'invenzione del Web, da parte di autorevoli studiosi che hanno dato il «la» alle ricerche successive. George Landow, in un libro che continua a costituire quasi il canone dell'ipetestualità presunta,3 ha per esempio trascurato qualsiasi rilievo sulla progettazione e sulla scrittura di un ipertesto, sulla sua forma e sui molteplici strati di precodifiche (protocolli, software, ecc.) che giacciono al di sotto della stessa scrittura ipertestuale propriamente detta e determinano le possibilità e i limiti effettivi di un ipertesto. Lo sbilanciamento sulla lettura, e la confusione dolosa tra programmazione e navigazione, e in fondo la riaffermazione del concetto di «testo» pur frammentato e disperso (nonché altre sorprendenti e resistenti equiparazioni, come quella tra processi di pensiero e ipertestualità),4 hanno comportato lo spostamento del dibattito su entità inesistenti, sul «libero navigare» e su altre idee amene che occupano ancora troppo spazio. Del resto a ciò ha corrisposto in qualche modo la rélega dell'ipertesto, compiuta da un vero pioniere dell'informatica umanistica, padre Roberto Busa, nell'ambito dell'informatica didattica o editoriale e quindi fuori dalla «scienza pura», costituita dall'informatica ermeneutica e linguistica.5 E infine, ma questi che ho citato sono solo capostipiti di certe diffidenze correnti, lo stesso Pierre Lévy confina l'ipertestualità nello «Spazio delle merci» e la esclude dallo «Spazio del sapere».6

Ora io credo invece che si debba cominciare a prendere in considerazione l'ipertesto di per se stesso, come forma discorsiva dotata di caratteri propri, in altre parole come «grande genere» che, proprio per questi caratteri, può influenzare profondamente le discipline umanistiche e le arti verbali. Insomma la discussione si è focalizzata o sull'ipertestualità in generale, con tutte le vaghezze di cui si è fatto cenno, o su singoli generi ipertestuali, molteplici per finalità, strutture e previsione di processi; si è trascurato di considerare un livello intermedio, sovraordinato alle singole realizzazioni, dove, grazie a un insieme di molteplici tecnologie, va creandosi una sorta di modello al quale corrisponde anche, ormai, una effettiva prassi discorsiva. Va detto, a onor del vero, che il dibattito almeno intorno alle forme retoriche dell'ipertesto ha ormai assunto un volume assai cospicuo, come mostrano alcuni numeri di riviste in rete come «Kairos» e «RhetNet».7 Il merito maggiore di tali contributi è la sperimentazione di forme ipertestuali di saggistica teorica e argomentativa. Tuttavia anche in questi casi si tende a circoscriverne l'applicazione a un ambito didattico.8

Vorrei aggiungere che Landow cita molto superficialmente, diciamo «per lessìe», due autori che invece possono fornire utili strumenti per la comprensione dell'ipertesto. Il primo è Michel Foucault, che secondo me è importante proprio per aver distolto l'attenzione da «testi» e «codici», e per averla posta invece sugli universi di discorso, che sono luoghi di formazione di altri discorsi e quindi ci possono fornire la scala per una considerazione più ampia dell'universo ipertestuale. Il secondo è Michail Bachtin, chiamato in causa da Landow (e da altri) per la solita generica polifonia, e che invece è secondo me importante per comprendere che cosa sia un'enunciazione, e per avere anche un'idea di come possa funzionare un ipertesto, che di enunciazioni è composto. In questo modo credo che si riescano a scavalcare l'imprecisione di nozioni quali «brani di testo», o il misticismo di parole come «lessìa». Bachtin afferma che ciò che definisce e delimita un'enunciazione (vyskasivanie) è la sua responsività (otvetstvennost'). Ciò ha diverse conseguenze che possono far riflettere sulle correlazioni tra enunciazioni in un ipertesto. Un atto linguistico al quale è possibile rispondere è sempre dipendente dal contesto, a meno che non appartenga, dice Bachtin, a un universo di discorso creativo. Se è valido per l'ipertesto il criterio dialogico di definizione delle enunciazioni, allora questa constatazione comporta due opposte tensioni: una spinta che chiamerei agglomerativa, e una spinta selettiva. La prima richiede che ogni documento pregnante dell'ipertesto, sfatando l'idea di acentralità, si costituisca come punto di convergenza di molteplici relazioni contestuali, ritagliandosi strutture alberiformi, a stella o circolari; e con ciò diventi punto forte del tentativo di costituire un universo di discorso euristicamente rilevante intorno ai problemi e agli oggetti che si vogliono studiare. La seconda potrebbe essere presa come misura etica del facitore di ipertesti: fare entrare solo ciò che per lui è realmente pertinente, ciò che risponde, ciò che provoca una vera spezzatura nella linearissima non-linearità.

Tornando per un attimo a un problema che si è appena sfiorato, mi sembra che, per quanto riguarda tanto i «discorsi critici», quanto i «discorsi creativi», l'ipertesto costituisca già un macromodello discorsivo riconoscibile, e che, quindi, la sua influenza vada oltre la costituzione di un nuovo supporto tecnologico per la trasmissione di testi, cioè di un nuovo oggetto culturale paragonabile al libro - del libro si può dire che abbia favorito la nascita o la configurazione di certi generi letterari, non che sia in sé un genere (o forse si comincerà a dirlo). Arrivo a ipotizzare che l'ipertesto, per quanto riguarda le arti verbali creative, possa costituire, di fianco ai grandi generi lirico, narrativo e drammatico, un quarto genere, l'architettonico. Ma, in particolare, ed è ciò che interessa ora, ritengo che il genere architettonico caratterizzi un determinato tipo di discorso critico.

Questa convinzione deriva da considerazioni interne sulle strutture, sui registri, sui processi messi in atto, sulle tipologie dei collegamenti e su elementi di interfaccia che ho chiamato «pragmemi»,9 e infine su certi modelli culturali e semiotici introiettati, per così dire, dall'ipertesto: tutti fattori, ai quali si potrà qui solo accennare, che dànno all'ipertesto una fisionomia piuttosto unitaria e articolata, e, soprattutto, esclusiva rispetto ad altri tipi di discorso.

Mi preme però fare prima due considerazioni. Innanzitutto mi pare che collocare l'ipertesto al suo giusto livello macrodiscorsivo, riassegnargli una posizione centrale anche rispetto ad altre branche pur fondamentali dell'informatica umanistica, come la codifica del testo, possa aiutarci a comprendere meglio il nuovo mondo digitale nel suo complesso e il suo funzionamento. Si tratta non più tanto, o in primo luogo, di rifare le parti del lettore e dell'autore, ma di prendere in considerazione una condizione intersoggettiva del sapere che le nuove tecnologie stanno mettendo in atto. In primo luogo, come cercherò di dire meglio più avanti, mostrando che la nuova prassi discorsiva sta costituendo quel che si può chiamare una pragmasfera, e non più soltanto una semiosfera. Ovvero uno spazio dove vengono messi a punto strumenti visibili, espliciti e riconoscibili, per agire sui significati, per compiere operazioni semantiche anche con oggetti non immediatamente codificabili. In secondo luogo, constatando che questa pragmasfera, lungi dal non poter «dialogare con ciò che le è esterno»,10 come affermano certi fautori di una autoreferenzialità neo-testuale del mondo digitale, è costitutivamente etero-referenziale, in particolare nei confronti dell'intera tradizione «atomica», della memoria oggettuale depositata e della semiosfera in generale.

Ma va fatta anche una considerazione più generale. A me pare che il piano del discorso sia importante perché è il luogo di intersezione tra la memoria e la tecnica. Ovvero è il luogo, se non si vuole dare ragione al filosofo Emanuele Severino, dove si possono sospendere, in qualche modo distanziare e vagliare, le imposizioni pseudoteoriche che la tecnica sembra imporre. E al tempo stesso il luogo dove si possono irrorare di forme e strumenti nuovi, con tutto il loro carico trasformativo, le diverse discipline.

La pragmasfera, ovvero l'universo di interscambio semantico e operativo creato dall'invenzione del computer e di molte altre tecnologie correlate, è caratterizzata dalla combinazione, mai prima realizzata nella storia umana, di calcolo, comunicazione e memoria. Ma la memoria informatica è essenzialmente di tre tipi: 1) la prima è costituita da algoritmi, e riguarda le banche dati e i fenomeni ricorsivi; 2) la seconda è tipica dei sistemi esperti, e include la possibilità di compiere alcune procedure inferenziali e di giovarsi di categorie strategiche; 3) la terza, infine, è quella degli ipertesti, che comprende i primi due tipi di memoria, li integra, e aggiunge ad essi l'enorme potenzialità costruttiva di usare e conservare architetture concettuali. Già ridurre le possibili strutture ipertestuali alla sola reticolarità, come si è visto, è estremamente riduttivo. In realtà intervengono altri due tipi di struttura, la circolare e la alberiforme, e molti tipi di sottostruttura, che rendono unica la possibilità dell'ipertesto di organizzare discorsi e coordinare enunciazioni. La stessa tipologia dei collegamenti, anche solo al primo livello di analisi, quello topologico a parte operis, diciamo, offre una molteplicità di rapporti che vanno governati con una consapevolezza discorsiva, perché implicano un primo grado di dispositio architettonica: se si prende in considerazione solo il linguaggio HTML, una prima griglia di rapporti si stabilisce tra link locali (al documento e al paragrafo), esterni, relativi e assoluti; se si aggiunge l'attributo «target» e l'uso dei frame, per non parlare di Java, si arriva già a sedici tipi di combinazioni, ovvero a tipi di realizzazione, per dir così, del rapporto tra «dove si prende» un documento e «dove lo si visualizza» sul monitor.
Ora sarebbe impossibile seguire passo passo alcune osservazioni minute, quindi mi limiterò a elencare rapidamente alcune considerazioni.

1) Una delle maggiori potenzialità discorsive dell'ipertesto mi sembra quella di poter condensare, sul piano del discorso stesso, un livello sintagmatico e un livello paradigmatico. Questa potenzialità si è mostrata per la prima volta, per lo meno in età moderna, nel filone del metaromanzo della letteratura occidentale, a cominciare da Sterne, come ho mostrato in un recente convegno.11 Ovvero, la narrazione è continuamente interrotta per mettere in mostra procedimenti e illustrare percorsi. Riepilogazioni panoramiche o disegni, nel caso specifico, mostrano un prospetto di possibili scelte metanarrative, si offrono come veri e propri menu iconici che si irradiano in avanti e all'indietro nel testo. L'ipertesto, si può dire, è costituito su questa compresenza, e mostra il suo lato paradigmatico servendosi dell'interfaccia, cioè lo strumento fondamentale che mette in rapporto responsivamente l'ipertesto con il lettore, ma anche le enunciazioni che lo compongono tra loro;

2) Un altro carattere fondamentale e di grande rilevanza teorica è a mio parere la possibilità di mescolare digitale e analogico, continuo e discreto. L'ipertesto può includere oggetti all'interno del discorso, sia in funzione connotativa, sia in funzione di ekphrasis o di altri procedimenti retorici, sia per simulare oggetti della realtà esterna, sia soprattutto per dare corpo a fattori operativi - pragmemi - che compiono operazioni sul documento e col documento.

3) Infine vanno menzionate tre potenzialità che riguardano in particolare l'ipertesto critico. Le prime due, pur con sostanziali innovazioni, sembrano porlo nel solco della storia della scrittura, mentre l'ultima ne costituisce un aspetto radicalmente nuovo. La prima è la ripercorribilità. Questo a me pare un carattere irrinunciabile di ogni discorso critico, che non viene meno, anzi è potenziato dall'ipertesto: spesso si pone l'accento sull'unicità di ogni percorso di lettura, ma il problema è che ogni percorso deve recare le tracce, appunto ripercorribili per essere verificate o falsificate come in un laboratorio, della propria costituzione documentale. È un elemento per ora carente nella maggior parte degli ipertesti esistenti, che sono elusivi, imprecisi, inclini all'ornamento, ma sembra plausibile che, non certo per sole esigenze di scholarly communication, le convenzioni e le codificazioni peritestuali andranno assestandosi e approfondendosi. La seconda riguarda l'importanza della tensione tra mappa e percorso. Di nuovo si tratta di una tensione costitutiva del discorso critico, tra la ricerca e l'esposizione della ricerca, ma qui si moltiplica, divenendo visiva e pragmatica, fornendo un quadro di passaggio dinamico tra sintetico e analitico.12 La terza, potente risorsa, è la possibilità di combinare anche i processi analitici alle potenzialità costruttive, e ciò, vale a dire la possibilità di integrare banche dati, corpora testuali e percorsi critici, è davvero una delle sfide maggiori per la crescita per così dire istituzionale dell'ipertesto critico.

Non resta, per tener fede al titolo e per concludere, che manifestare brevemente alcune preoccupazioni suscitate dalla discorsività ipertestuale:

A) Si è accennato al carattere contestuale dell'ipertesto. Un pericolo è, secondo me, che tale carattere sia troppo amplificato. Il rischio è che prevalga una blanda e infinita contestualizzazione «appositiva», al posto di una contestualizzazione «interpretativa». La contestualizzazione appositiva ha i suoi vantaggi, come ogni forma di associazionismo e analogismo concettuale, nell'offrire aperture inusitate e casuali. Tuttavia tende ad abolire quelle forme di pensiero che possono porsi sotto il segno della metafora, e che implicano intersezione, selezione, spostamento, deformazione. L'ipertesto ha anche il potere di chiudere gli spazi, soprattutto se usato a scopi didattici. Ho paura che l'ipertestualizzazione possa diventare in qualche caso una canonizzazione assoluta e superficiale di certi tratti della tradizione.13 Ma ciò sarebbe, date le premesse, solo l'effetto di una cattiva ipertestualità.

B) Uno dei limiti maggiori sta proprio nel carattere più rivoluzionario del digitale, ovvero la deoggettualizzazione. Rimane valido ciò che affermava Donald A. Norman a proposito dei sistemi di videoscrittura, che già limitavano le possibilità di intervento «per la riduzione del territorio disponibile: con un manoscritto cartaceo le pagine si possono spargere sul tavolo, sul letto, sulla parete o sul pavimento, si possono esaminare contemporaneamente lunghi brani per rielaborarli e ristrutturarli».14 Certo quella era la più efficace operazione ipertestuale che si potesse compiere con la carta. Tuttavia c'è anche chi paventa che l'ipertesto, più che far perdere quelle capacità di drammatizzazione concreta dei documenti, possa far perdere le capacità mentali di drammatizzare la scrittura. Non resta che augurarsi che possa altresì favorire la capacità mentale di costruire architetture mentali.


Bollettino '900, dicembre 1998


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