Franco Minganti
L'oltre-jazz di Novecento: il mito del mondo atlantico dell'emigrazione.


Leggere Novecento (1994)1 come un frammento di "jazztoldtales" - chiamerei così la circolazione, accumulazione e stratificazione di storie intorno al jazz, al suo mondo, ai suoi protagonisti - ci costringe in certo qual modo a fare i conti con il jazz inteso quale forma culturale. In effetti, la vicenda al centro del monologo è un curioso apologo che impegna la nostra capacità di re-immaginare il jazz e, più in generale, la musica. In particolare, la pièce pare confrontarsi a modo suo con l'eredità di quella cifra di eccesso (estetico) che, dalla particolare versione italiana della Jazz Age che i Futuristi ci hanno offerto, giunge sino a recenti prove narrative dell'era del post-bebop.

Il curioso modello di una fantasia endogamica/ontogenetica messo a punto da Alessandro Baricco si presta a un confronto con quello dell'"Atlantico nero" postulato da Paul Gilroy.2 Lì l'autore legge la circolazione della Black Music alla luce delle versioni del Middle Passage - l'esperienza della traversata dell'oceano da parte degli schiavi africani -, nel senso amplificato da una frase di George Lipsitz secondo cui "il dinamismo degli interscambi diasporici nella musica conferma l'ironica osservazione di Peter Linebaugh che gli LP hanno superato di gran lunga in importanza i vascelli quali canali privilegiati della comunicazione panafricana".3 Quello di Baricco, allora, assumerebbe i contorni di una specie di utopico "mondo atlantico dell'emigrazione", là dove la musica si tinge di curiose sfumature diasporiche, quasi che un "Immigrant Atlantic" si affiancasse alle formazioni del Black Atlantic e contribuisse a integrarle.

Sul Virginian, l'Atlantic Jazz Band - un nome assolutamente appropriato per l'orchestrina di bordo - è un buon esempio di melting pot: "Al clarinetto, Sam 'Sleepy' Washington! Al banjo, Oscar Delaguerra! Alla tromba, Tim Tooney! Trombone, Jim Jim 'Breath' Gallup! Alla chitarra, Samuel Hockins! E infine, al piano ... Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento. Il più grande" (pp.16-17. Nella versione radiofonica, la formazione appare rimaneggiata, probabilmente più vicina a un "vero" organico jazz, con etnie leggermente diverse). Pur senza sovraccaricare di significazione una lettura in chiave etnica, è difficile non notare l'aria afroamericana, sudamericana, inglese/irlandese, ebraica ... tanto più che il caporchestra è un certo Fritz Hermann, un tedesco che "non capiva niente di musica ma aveva una bella faccia" (p.27). La nave, dunque, diviene metafora dell'America, una sorta di surrogato - lo sarà di certo per Novecento, caratteristicamente un "trovatello dell'emigrazione" -, al punto che si fa più comprensibile l'insistita, e un po' scontata, cornice d'apertura quale celebrazione rituale dell'avvistamento dell'"America!" - come se uno dovesse sempre scoprirla per la prima volta, quell'"America in attesa" -, ovvero il mito/sogno di un'Italia "emigrante" sempre un po' ambigua nei confronti del Nuovo Mondo (significativamente, nella versione teatrale, a questo punto si ascolta "The Dream", un brano dall'album Jazz, 1978, di Ry Cooder).

Di un mondo di immigrazione, soprattutto proletario, si tratta qua, in particolare in relazione alla musica: gli orchestrali suonano la gran parte del loro tempo in classe lusso, poi però "scendono" letteralmente alle sale della seconda classe, per poi lasciarsi di tanto in tanto scivolare nell'ade infernale e puzzolente della terza, là dove vengono scambiate le esperienze musicali (e diasporiche) più vere e intense. È qui che Novecento ascolta, impara, sintetizza, fino a distillare la propria musica straordinaria: "Prima ascoltava: voleva che la gente gli cantasse le canzoni che sapeva, ogni tanto qualcuno tirava fuori una chitarra, o un'armonica, qualcosa, e iniziava a suonare musiche che venivano da chissà dove ... Novecento ascoltava. Poi incominciava a sfiorare i tasti e a poco a poco quello diventava un suonare vero e proprio, uscivano dei suoni dal pianoforte - verticale, nero - ed erano suoni dell'altro mondo. C'era dentro tutto: tutte in una volta, tutte le musiche della terra" (p.35).

Per la verità, la musica di Novecento insegue romanticamente un mito endogamico, quello della musica assoluta, la più grande mai suonata, musica esistita solo per un attimo e che vagamente, nostalgicamente, esiste solo nella memoria di quelli che l'hanno ascoltata: "Lo era davvero, il più grande. Noi suonavamo musica, lui era qualcosa di diverso. Lui suonava ... Non esisteva quella roba, prima che la suonasse lui, okay?, non c'era da nessuna parte. E quando lui si alzava dal piano, non c'era più ... e non c'era più per sempre" (p.17). C'è come una questione misterica, al cuore di Novecento, la nascita del "post-jazz" o, più precisamente, quella particolare narrazione di una ontogenesi assoluta: nascita-vita-morte della musica "naturale" di Novecento, niente tracce registrate - e nel monologo teatrale non si tenta nemmeno di crearla come source music. Parrebbe un mito pre-moderno, pre-tecnologico, un rito di immane sintesi: quella musica è distillata dalla sotterranea musica popolare di paria, emarginati da tutte le società, e forgiata con le forze della natura, i venti e le burrasche dell'oceano. La "sotterraneità" viene informata all'extraterritorialità della nave, una specie di isola perenne - lo sarà, letteralmente, per Novecento, che mai metterà piede a terra e morirà affondando con il decrepito Virginian - che, nell'immaginario "transatlantico" dei primi anni del secolo in cui è ambientata la vicenda, si trasforma nel "party infinito" della crociera dei ricchi, con l'incubo del tragico naufragio del Titanic sempre incombente.

La fascinazione di jazz e transatlantici insieme non è nuova per Baricco. Nel recensire un festival di dixieland, così aveva descritto quella scena: "In prima fila, come da protocollo, gli ottoni. Il clarinettista sembrava sceso ieri dal Titanic, gesti a metà tra il maître d'hôtel e il giocatore di poker, grandissima classe".4 Ovvio allora che in Novecento il Titanic sia convocato sin da subito - "parte una musica dixie, molto allegra e sostanzialmente idiota" -, quando veniamo accolti dal narratore/"jazz man da piroscafo": "Ladies and Gentlemen, meine Damen und Herren, Signore e Signori ... Mesdames e Messieurs, benvenuti su questa nave, su questa città galleggiante che assomiglia in tutto e per tutto al Titanic" (p.14). Nella particolare "età del jazz" italiana, la nuova musica si sposa bene con i bar, i cocktail, l'alta società e i transatlantici: sono gli anni in cui il jazz, un miscuglio di forme ibride, "si fa 'quinta' di uno spettacolo destinato a rappresentare altro".5 I Futuristi italiani fremono di eccitazione: nella poesia di Danilo Lebrecht "Cocktail" (1915) i liquori si mescolano al Mauretania; in "Transatlantico" (1920) di Armando Mazza sensualità e sesso incrociano il [sincopato] "delirio isterico dell'orchestra"; e in "Jazz-Band" (1925) di Diavolo Mari i "corpi nudi" si abbandonano alla "febbre lancinante del jazz-band".6

Quanto alla musica che si ascolta su questa nave così particolare, "straordinaria", "unica", il cui staff viene presentato proprio come una jazz band, non sorprende che il narratore venga reclutato in modo a dir poco surreale: "Li abbiamo già i suonatori, disse il tizio della Compagnia. Lo so, e mi misi a suonare [...] 'Cos'era?'. 'Non lo so'. Gli si illuminarono gli occhi. 'Quando non sai cos'è, allora è jazz' [...] 'Ci vanno matti, per quella musica, lassù'. Lassù voleva dire sulla nave" (p.13). Al ragtime dell'orchestra, la musica su cui Dio balla "quando nessuno lo vede", si affianca l'inafferrabile pianismo di Novecento: sulla scena la sua musica "impossibile" non si sente proprio. Le parole del trombettista-narratore la evocano, ma in suo luogo viene diffusa musica extradiegetica che ha solo vaghissimi - se mai ve ne fossero - riferimenti alla descrizione. Significativamente, là dove ascoltiamo la musica di Jelly Roll Morton, il silenzio prende il posto di quell'über-jazz "complicato e geniale" di Novecento, totalmente idiosincratico: "E quando ha voglia suona il jazz, ma quando non ha voglia suona qualcosa che è come dieci jazz messi insieme" (p.36). Dopotutto, se è vero che l'assolo (musicale) crea uno spazio culturale nel suo svolgersi, i silenzi di Baricco/Novecento segnano l'impossibilità del loro anti-modello culturale. "E in culo anche il jazz" (p.44) aveva sussurrato Novecento dopo aver stracciato Morton, quasi a depennare l'ennesimo genere musicale dopo averlo integrato nel delirio della propria musica "terminale": "Ho detto addio alla musica, alla mia musica, il giorno che sono riuscito a suonarla tutta in una nota sola di un istante" (p.59). Eppure è il cutting contest, la memorabile sfida pianistica, a trovarsi al cuore drammaturgico del testo: se il jazz di Jelly Roll Morton viene adombrato come lo stato dell'arte musicale del momento - in qualche modo, Baricco pare qui riconoscere al jazz lo status più alto, il fatto di essere la musica -, Novecento ricorre a sofisticate strategie culturali per sconfiggere il tanto discusso genio: risponde al ragtime lento d'apertura di Morton con un minimalismo "less-is-more" tinto di primitivismo infantile (suona la stupida canzoncina pop "Torna indietro paparino"), allo straordinario blues di Morton con un signifying parodico (cita la medesima canzone trasformandola in un gioiello dissonante) e infine al supremo e magico bluerag di Morton con tecnica estatica (esegue una sequenza mozzafiato di accordi, quasi che a suonare fossero cento mani).

Baricco pare implicitamente denunciare l'impraticabilità della strada intrapresa dal suo Novecento, l'impossibilità di un luogo per la sua mitica musica a-storica, emigrante-diasporica, che tutto sintetizza. È in grado di articolarne il profilo simbolico, ma rinuncia a materializzarne le condizioni di produzione (culturale), le relazioni sociali che consentono la sua centralità quale espressione assolutamente culturale. Da quel musicologo irriverente, a volte eccessivamente lieve, che è, Baricco vorrebbe forse sbarazzarsi di tutti i testi sacri (musicali) e il jazz è diventato uno di essi. Si mette tra quelli "che amano il jazz da lontano", ama una certa retorica, nera e "trasgressiva", della Black Music, adora lo spiritual e considera il jazz bianco "una cosa, sulla carta, assurda [...] blues senza rabbia, ragtime senza bordelli, sincope senza miseria, e insomma jazz senza filosofia".7

Senza dubbio, Novecento cita certi elementi canonici delle jazz fictions: come spesso accade nei racconti incentrati sui musicisti di genio - basti pensare a Il persecutore (1959) di Cortázar o al film Round Midnight (1986) di Tavernier -, anche qui c'è un caporchestra che deve raccomandarsi al trasognato pianista ("solo le note normali, okay?" p.27), oppure c'è la classica figura vicina al protagonista che lo aiuta nell'ardua mediazione verso il mondo "normale", per lui così impossibile, e nell'atto stesso del raccontare (qui il narratore è l'amico trombettista della Atlantic Jazz Band), o ancora troviamo un cutting contest cruciale (come nel racconto The King of Jazz, 1977, di Donald Barthelme) e non manca l'aria aneddotica del finale (qui espressione del sogno di ogni pianista ... bianco?).8 Eppure, Novecento è una storia abbastanza distante dall'urgenza dei temi, anche fictional, del jazz - in particolare delle rielaborazioni della cultura nera intorno al jazz -, e non si incardina certo su una qualche precisa tesi (musicale); attraverso la rootlessness del suo Novecento, Baricco evita le strettoie tipiche del "jazz fan writing", dello scrivere di jazz da fan e/o da insider, e si sposta verso una visione letteraria cui non è certo estranea quella fascinazione per la letteratura americana dei Bartleby e dei giovani Holden che ha mostrato in più di un'occasione. Pure gli apologhi, anche quelli che cercano di librarsi sulle ali della poesia, non possono permettersi il lusso dell'eccessiva fatuità.


n. sedici-diciassette, dicembre 1998


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