Guido Michelone
Jazz literature italiana


Sono ormai molti gli elementi, raccolti durante la prima metà degli anni Novanta, a fondamento dell'idea di una particolare jazz literature (o letteratura jazz) all'interno della produzione italiana contemporanea in parallelo alle più note tendenze della narrativa statunitense. Vanno ascritte alla jazz literature le opere, in cui l'argomento principale o preponderante è il jazz attraverso una specifica modalità di descrivere o alludere a luoghi, ambienti, protagonisti concreti o immaginari della storia (passata, presente o futuro) della musica e della cultura afroamericane. E vanno altresì ritenuti letteratura jazz i romanzi o i racconti in cui esiste il tentativo cosciente, da parte degli autori, di trasferire a livello sinestetico il linguaggio musicale (jazzistico) in quello scritto (letterario), ossia i ritmi, i timbri, i colori del jazz sound nella costruzione sintattica, nella musicalità lessicale, nella logica espositiva, dando in generale la sensazione di assimilare la sonorità acustica nel tessuto della pagina stampata (o ancor meglio nella prassi della fabula e dell'intreccio).
In entrambi i casi i punti di sconfinamento, di contatto, di interferenza e di scambio sono innumerevoli, come anche quelli di consapevole autolimitazione o di palese chiusura; sembrerebbe infatti impossibile che, nel scegliere il jazz come soggetto della propria opera, lo scrittore non ne traduca più o meno fedelmente la percezione uditiva nei minimi dettagli o nei tratti principali; così come parrebbe altrettanto logico che nel ricalco delle strutture del bebop o del free, lo scrittore non inserisca nel testo riferimenti più o meno espliciti alla propria fonte ispiratrice. In assoluto non esistono regole fisse o norme generalizzate, poiché i pochi esempi narrativi devono essere valutati in se e per se, ossia nella loro autentica singolarità d'approccio letterario all'esperienza jazz; resta comunque il fatto che nel primo caso, quando la narrativa fa da parafrasi alla storia del jazz con atteggiamenti di volta in volta onirici, veristi, drammatizzanti, le forme letterarie quasi spontaneamente si dispongono in una combinazione dinamicamente allusiva alla stessa materia sonora; e che, nel secondo caso, quando la narrazione adotta le forme jazzistiche riesce anche a trovare gli spazi e i tempi per tributare un omaggio contenutistico al proprio referente stilistico.

Una prima ricognizione su quanto è stato espresso da una ipotetica jazz literature italiana durante la prima metà di questo secolo (in particolare nel periodo tra le due guerre) è stata compiuta da Giorgio Rimondi in Jazz Band. Percorsi letterari fra avanguardia, consumo e musica sincopata (Mursia, 1994) è una dotta antologia di brani in prosa e in lirica, spesso d'orbita futurista, che spazia da Papini a Soldati, da Marinetti a Bontempelli, da Borgese a Comisso, solo per citare i più noti fra circa quaranta autori. Le opere più interessanti sono ovviamente quelle di poesia visiva dove i futuristi riescono a tradurre più o meno sensibilmente il ritmo musicale con espedienti grafici ed onomatopeici; più inclini al decadentismo (spesso in spregio al jazz medesimo, del resto ritenuto da Marinetti banale musica selvaggia rispetto alla complessità del moderno sinfonismo wagneriano) in cui il fox-trot e gli altri balli alla moda diventano simbolo un po' abusato di erotismo, vizio, depravazione; efficaci nel cogliere dal vivo l'essenza del suono afroamericano i réportages tra cronaca ed elzeviro di giornalistici-scrittori, entusiasti o curiosi senza paraventi ideologici, delle novità d'Oltreoceano.

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Ma la letteratura italiana contemporanea s'interessa alla musica afroamericana? Da un lato sembrerebbe di sì con le frequenti iniziative dell'editoria e dello spettacolo (i molti concerti di jazz e poesia); dall'altro lato, però, le coincidenze paiono del tutto casuali: non indicano, insomma, la presenza di correnti, scuole, tendenze, ma semplicemente l'iniziativa sporadica, generosa, frammentaria di singoli autori variamente propensi, per interesse o ispirazione, al jazz medesimo.
Se infatti confrontiamo le tre pubblicazioni più recenti, non è difficile trovarne subito le divergenze di qualità, di stile, di contesto e di funzionalità. Novecento (Feltrinelli, 1994) il testo di Baricco, giovane musicologo (Il genio in musica. Sul teatro musicale di Rossini, L'anima di Hegel e le mucche del Wisconsin), romanziere di successo (Castelli di rabbia, Oceano mare), nonché suadente conduttore televisivo, è stato anzitutto pensato per il teatro: un lungo monologo per l'attore Eugenio Allegri e il regista Gabriele Vacis, nel solco della post-avanguardia (debutto al Festival di Asti nel luglio 1994): anche alla lettura la pièce si rivela originale ed interessante, grazie alle capacità affabulatorie dell'autore stesso; come un racconto d'altri tempi, Novecento infatti narra le avventure di un immaginario pianista jazz (il cui nome è appunto Danny Boodman T.D. Lemon Novecento), attraverso la cronaca indiretta del collega trombettista (di cui non viene rivelata l'identità, forse un doppio sia dello scrittore sia del protagonista); Novecento è nato e cresciuto sul Virginian, un transatlantico che fa rotta dall'America all'Europa, e su cui passerà tutti i giorni della sua vita, imparando fin da giovanissimo a suonare lo strumento e ad esibirsi per i signori della prima classe come per gli emigranti della terza; la fama di virtuoso della tastiera giunge persino alle orecchie di Jelly Roll Morton che nel 1931 lo sfida a duello pianistico: la descrizione dello scontro e dello stato d'animo del vero jazzman è senza dubbio uno dei passi migliori dell'intero episodio, non solo per la resa espressiva, ma soprattutto per la passione e la competenza in rapporto alla musica costantemente evocata da ricordi, citazioni, leggende. Novecento assume infine valori simbolici dalle innumerevoli interpretazioni, tra cui quella forse di maggior pertinenza jazzistica è il ritratto di un'epoca in apparenza felice e spensierata (siamo negli anni tra il 1927 e il '32), dietro alla quale si addensano dubbi, timori, disillusioni e calamità (non a caso il testo finisce durante la seconda guerra mondiale).

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Racconti per sax tenore (Tranchida, 1995) è invece il libro d'esordio di un narratore e giornalista delle ultime generazioni; il volume è suddiviso in due parti eguali: la prima è occupata da Le opinioni di un sax tenore (racconto breve con tanto di colonna sonora), una sorta di diario surreale tra il personaggio (chiaramente autobiografico) e il suo strumento giunto ormai alla terza reincarnazione (o reinstrumentazione per usare il neologismo di Ciarallo), passato tra le mani di John Coltrane, Sonny Rollins e Lou Marini (prima con Frank Zappa, poi coi Blues Brothers); la seconda parte Storie di una vita incazzata si compone di brevi pagine di tipo diaristico, in cui il frammento esistenziale e la tematica socializzante non vanno oltre l'aneddoto minimalista o l'annotazione più o meno goliardica: solo con Like a Bird torna il jazz nel percorso vagamente onirico, tra gli effetti visionari del protagonista (ennesimo alter ego dello scrittore). La scrittura di Ciarallo è ancora incerta, fragile, acerba: al di là dei contenuti palesemente jazzistici, è anche la forma che tenta di avvicinarsi allo stile asciutto, realistico, dimesso della beat generation; come quest'ultima la ricerca è nell'imitare sulla pagina scritta i ritmi, le sincopi, i toni, le improvvisazioni della musica afroamericana, alle prese con problemi e tematiche che spaziano dalla realtà quotidiana a simboli utopici o sogni inquietanti. La differenza però è rilevante: la gamma di colori e sfumature risulta per così dire assai più ristretta in Ciarallo rispetto ai modelli più o meno dichiarati (Bukowski, Kerouac, Burroghs) ed anche l'idea di linguaggio diretto, crudo, immediato diventa talvolta goffo e pesante, anziché colpire nel segno della polemica o dell'arte.
In definitiva due opposti esempi di come fare del jazz in letteratura o in altri termini dei modi con cui la parola riesce a confrontarsi con l'universo jazzistico, eloquenti rispettivamente di equilibrio compositivo e di eleganza colta, di impatto emozionale e di irruenza non ancora circoscritta entro i limiti del progetto compiuto.

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Gli sbudellati (Comix, 1995) è infine il lungo racconto che segna l'esordio narrativo di Jimmy Villotti, già chitarrista di Conte e Guccini, e da un paio d'anni originale cantautori dagli echi swing e bluesy. Il libro, uscito alla fine del '94, viene a ultimare il trittico della giovane letteratura italiana, che dal jazz trova idee, tematiche, fonti ispirative e ragioni di vita. Nel caso di Villotti protagonisti sono appunto gli sbudellati, musicisti non più giovanissimi, nella Bologna degli anni Ottanta, un po' vitelloni, un po' bohemiens: nel culto del bebop esprimono una solidarietà di gruppo che travalica gli stessi confini dell'arte e dell'amicizia. In nome del jazz sono disposti a tutto, anche se la passione si brucia nel giro di pochi anni: Villotti la romanza come una cronaca in diretta, pur coltivando a tratti il gusto per la bella scrittura o la citazione dotta; a livello di stile, ritmo e linguaggio rimane però in bilico tra goliardia e beat generation, ingenuità e grottesco, fiction e realtà, candore e filosofeggiamento. La passione è vera, la matrice autobiografica forse un po' meno, ma il divertimento sembra assicurato, sempre che non si pretenda dalla nostrana jazz-literature un novello Keroauc o, più modestamente, una velina di Dier o di Ondaatje.

 


[versione cartacea: n. quattro-cinque, maggio 1996, pp. 21-24 - versione web: 1996, n. 2, II semestre]

 


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