Alessandra Mantovani
L'anniversario mancato: sentimento del tempo nella Coscienza di Zeno


È stato detto che, nella dimensione della modernità, la non coincidenza tra l'ambito dell'esperienza e l'orizzonte delle aspettative mette in crisi definitivamente l'idea di tempo come continuità e svolgimento. All'incertezza di un futuro che pesa sul presente come responsabilità e rischio, si sovrappone il senso della fine, l'attesa di un arresto traumatico, di una catastrofe segnata dai connotati ambigui di una temporalità che ritorna tautologicamente su se stessa.
Non è un caso che il protagonista eponimo della Coscienza di Zeno dichiari di non sapersi «muovere» a proprio agio nel tempo, essendo consapevole che il «destino» dell'uomo è un «tempo misto», in cui il «presente imperioso» risorge «offuscando» il passato, mentre il futuro «esiste in germe, mai in azione».
Il lettore è chiamato a muoversi, insieme al personaggio, nel tempo-spazio di una coscienza che, tra memoria e dimenticanza, lascia intravedere i segnali minacciosi dell'Unheimlich e si presenta come un luogo funebre, disseminato di rovine, il «cimitero» dei «buoni propositi». La ricerca del senso può tradursi allora nella registrazione del non-senso, del vuoto, del disordine metafisico.
È probabilmente questo uno dei significati della famosa «pagina delle date», là dove Zeno intraprende un'«analisi storica» della propria «propensione al fumo»: se l'anniversario è l'istituto del sentimento del tempo, gli anniversari dell'«ultima sigaretta» appaiono come registrazione di un evento mai accaduto, sanzione dello scorrere ateleologico di una temporalità assurda. Il caleidoscopio delle date si avvolge su se stesso nella ricerca di una «concordanza» delle cifre che segue la logica paradossale della bizzarria, non dell'«armonia» bensì della «deformità». Una stravagante combinatoria numerologica che, secondo il procedimento tipico, a doppio fondo, della scrittura sveviana, si traduce in parodia di quella mistica dei numeri, fondamentale nella cultura antica e in modo singolare nel mondo ebraico, che ha rappresentato per secoli la certezza di un rapporto tra uomo e mondo solidamente fondato su un ordine metafisico.
Il tempo trascorso sanziona uno svolgimento mancato: la «nuova vita» che Zeno prospetta a se stesso non prevede palingenesi, né può condurre ad un progetto coerente di «vita nuova» poiché il caso, l'azzardo ne determinano la logica, come nel gioco dei dadi dove può accadere che ogni «cifra» raddoppi la «posta». Il tempo, conclude Zeno, «non è quella cosa impensabile che non s'arresta mai. Da me, solo da me ritorna».
Per uno scrittore che ha letto Nietzsche non certo in chiave estetizzante ma dal punto di vista di una cultura che, tra Schopenhauer e Mach, ha esperito tragicamente la perdita della totalità e il crepuscolo del soggetto, la teoria dell'eterno ritorno dell'identico rappresenta la scoperta della fine della storia come progressione certa e dialetticamente necessaria del tempo all'interno di un soggetto ridotto a pluralità di nuclei psichici o a convenzione grammaticale.
D'altro canto, Svevo non ha mai cessato di opporsi alla «ridicola concezione del Superuomo» così come è stata imposta «specialmente a noi italiani», scorgendo invece in essa una possibile descrizione filosofica del genotipo «inettitudine-senilità-malattia», ovvero del tipo umano del «contemplatore» visto nella sua alterità irriducibile rispetto a quello del «lottatore». Nel saggio L'uomo e la teoria darwiniana Svevo disegna il ritratto di un ipotetico uomo del futuro la cui sopravvivenza è condizionata dal fatto di aver conservata «la possibilità di evolversi» e finisce poi per identificarlo in se stesso: «Nella mia mancanza assoluta di sviluppo marcato in qualsivoglia senso io sono quell'uomo». Ma probabilmente questo ulteriore stadio antropologico ha qualcosa a che fare con il mondo nuovo di Nietzsche in cui «i pesi e le misure» di tutte le cose devono essere rideterminati ed in cui la misura rinnovata della «Forza» potrà apparire appunto come una funzione della «Debolezza».
Il Superuomo nietzschiano o, come diremmo meglio seguendo Vattimo, l'Oltreuomo che è «l'Uomo dell'Oltre» può forse scorgersi in filigrana nel personaggio di Zeno, che nella sua posizione di marginalità bizzarra, esercita in ultima analisi la funzione di testimone critico, perché lo sguardo di chi è nato e vissuto sempre «a sproposito» può cogliere meglio di altri il disordine e la disarmonia del mondo.


n° sei-sette, settembre 1996


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