English version Ernesto Livorni
Italo Svevo: «Faccio meglio di restare nell'ombra».


«Sono qui tuttavia miracolosamente»: così esordisce Svevo nel breve epistolario intavolato con Enzo Ferrieri, fondatore del circolo culturale milanese «Il Convegno», dal 1 marzo 1926 al 28 febbraio 1927: la frase dalla quale prende il titolo il volumetto curato da Giovanni Palmieri (Italo Svevo, "Faccio meglio di restare nell'ombra". Il carteggio inedito con Ferrieri seguito dall'edizione critica della conferenza su Joyce, a cura di Giovanni Palmieri, Milano - Lecce, Lupetti - Pietro Manni, 1995, pp. 134), reduce dalla correlata fatica critica Schmitz, Svevo, Zeno. Storia di due "biblioteche" (Milano: Bompiani, 1994), è stata anch'essa estratta da quella prima lettera.
        «Faccio meglio di restare nell'ombra»: la stessa costruzione sintattica era apparsa in una lettera alla moglie del 22 maggio 1899 (Epistolario, p. 164: «Gli altri sono tutti a dormire. Avrei fatto veramente bene di andarci anch'io perché questa notte ho dormito assai poco») ed all'inizio del primo romanzo (pubblicato, come è noto, nel 1892), allorché Alfonso Nitti esordisce anch'egli con una lettera, questa volta alla madre: «Non farei meglio di ritornare a casa?» La sequenza è molto significativa: alla domanda del protagonista che chiede approvazione alla madre si accompagna la confessione della scelta sbagliata, dell'indecisione fatale che lo scrivente fa alla consorte, fino alla ferma intenzione di ritrarsi dai riflettori della vita pubblica nella lettera a Ferrieri. Ma ormai, a questo punto, l'intera vita dello scrittore è trascorsa. Tuttavia, la resistenza della peculiarità sintattica attraversa tutto l'arco della parabola letteraria di Svevo, con commovente fedeltà. D'altronde, Giacomo Devoto a questo proposito aveva scritto nel suo saggio Le correzioni di Italo Svevo (in «Letteratura», a. II, ottobre 1938, pp. 3-13; ora Decenni per Svevo, in Studi di stilistica, Firenze: Le Monnier, 1950, pp. 175-193): «Nelle particelle che legano un infinito alla forma nominale o verbale che lo regge, Svevo rimane, più che sordo, indifferente».
        Entrambe le frasi che emblematicamente aprono e chiudono il primissimo paragrafo della corrispondenza con Enzo Ferrieri denunciano la timidezza e l'impaccio dello scrittore triestino davanti alla prospettiva di apparire in pubblico e di parlare della propria attività letteraria: evidentemente le recensioni negative di Giuseppe Prezzolini e di Giulio Caprin pesavano ben più gravemente del pionieristico saggio di Eugenio Montale sulla capacità di «raccoglimento» (pp. 11, 20) di Ettore Schmitz. Secondo Palmieri (p. 14), «neanche Montale può dirsi il vero scopritore di Svevo, avendo ricevuto l'"imbeccata" decisiva da Prezzolini, il quale, a sua volta, l'aveva ricevuta da Joyce». L'osservazione è utile non tanto per ristabilire legittime paternità (Prezzolini, al contrario del poeta degli Ossi di seppia, non capì la novità della scrittura narrativa del triestino nel panorama italiano di quegli anni), quanto piuttosto per ricostruire le traverse vicende dell'amicizia letteraria tra Joyce e Svevo, di cui la conferenza di quest'ultimo sull'opera dello scrittore irlandese è uno degli esempi più appariscenti. Insomma, se è Joyce a scatenare l'interesse intorno ai fino ad allora sconosciuti romanzi di Svevo, costui all'autore dell'Ulysses ritorna, dedicandogli quella conferenza che oscillò per qualche tempo tra due estremi per quanto riguarda i suoi contenuti: in un primo tempo doveva puntare le luci della ribalta sull'opera dello stesso autore triestino, e quindi sembrò orientarsi addirittura verso un discorso metacritico su Sigmund Freud. Spiega Palmieri (p. 29): «anche se non possediamo un'esplicita dichiarazione di Svevo in tal senso, risulta evidente che in un primo tempo l'autore di Senilità aveva deciso di parlare dei suoi rapporti (letterari e non) con Freud» e cita l'inizio del Soggiorno londinese di cui è protagonista proprio il fondatore del «Convegno»: «Il Dr. Ferrieri mi disse: Parli di quello che vuole, parli di quello che sa. Ora io credo di sapere qualche cosa a questo mondo: Su me stesso. [...] Ma c'è la scienza per aiutare a studiare se stesso. Precisiamo anche subito: La psicanalisi» (Racconti, saggi, pagine sparse, a cura di Bruno Maier, Milano, Dall'Oglio, 1968, p. 685).
Proprio sulla base di una frase nella lettera del 18 ottobre 1926 a Ferrieri («Non di Freud vi parlerò ma di Joyce», p. 34) Palmieri (p. 29) può «situare la stesura del Soggiorno londinese tra la fine del settembre e la metà di ottobre 1926.» Questa abile ricostruzione dell'intreccio tra autobiografia e fatto letterario, tuttavia, non aiuta a chiarire quale dinamica del meccanismo di sostituzione sia prevalsa nel racconto (all'argomento psicanalitico subentra il racconto di un viaggio a Londra), nella decisione di presentare l'opera di Joyce piuttosto che quella di Freud, la quale viene comunque ad essere succintamente discussa nella conferenza, come si vedrà. A questo proposito, appare rilevante un brano della lettera di Ettore Schmitz dell'8 aprile 1926 (p. 25), nella quale lo scrittore declina definitivamente il proposito di parlare della propria opera:

«Proprio non fa per me. Prima di scirverle per rifiutare provai anche a predirmi dinanzi ad uno specchio. Una noia ineffabile cominciò ad incombere su me e sulla mia immagine. Ella gettò un germe che potrebbe svilupparsi. Forse l'inverno prossimo. In nessun caso parlerei di me stesso perché sarebbe un doppio esibizionismo.»

Le fini annotazioni di Palmieri permettono al lettore di stabilire una rete di relazioni su alcune peculiarità della lingua di Svevo: come il termine «raccoglimento» «allude a quegli esercizi di "recueillement" e di "autosuggestion" proposti dallo psicologo ginevrino Charles Boudouin proprio per vincere il panico del pubblico» (p. 20), così «La forma verbale "predirmi" è in questo caso il risultato di un calco del verbo tedesco "vorsagen" che possiede anche la forma riflessiva e che in una delle sue accezioni significa "dire (prima) davanti a qualcuno"». Da qui scaturisce un ulteriore e suggestivo punto di contatto dell'epistolario con Soggiorno londinese: l'immagine dello specchio, contemporanea di quella situazione riflessiva che scatena un romanzo come Uno, nessuno e centomila di Luigi Pirandello, è «metafora freudiana (e lacaniana "avant la lettre") di un imperfetto, se non impossibile, accesso a se stessi» (p. 27), come annota il curatore. Se si tiene a mente la testimonianza di Stanislaus Joyce nella sua introduzione alla traduzione inglese di Senilità (As a Man Grows Older, Translated by Beryl de Zoete, with an Introduction by Stanislaus Joyce and an Essay on Svevo by Edouard Roditi, Los Angeles: Sun & Moon Press, 1993; la traduzione è del 1949, mentre lo scritto del fratello di Joyce è del 1932: ma va ricordato anche il suo articolo James Joyce e Italo Svevo, in «Il Popolo di Trieste», 24 gennaio 1923; inoltre Stanislaus Joyce è anche il traduttore della conferenza in questione tenuta da Svevo sullo scrittore irlandese: Milano: Officne Grafiche Esperia, 1950); la enigmatica risposta che Joyce rivolse a Daniel Brody che in una intervista nel 1954 gli chiedeva «I can understand why the counterpart of your Stephen Dedalus should be a Jew, but why is he the son of a Hungarian?»: «Because he was»; la constatazione fatta da harry Levin, sebbene negata dalla moglie dello scrittore triestino Livia Veneziani Svevo, che tra Bloom e Stephen corresse la stessa differenza d'età che quella tra Svevo e Joyce; non si può non essere d'accordo con quanto afferma Richard Ellmann nella sua straordinaria biografia su James Joyce (1959; New and Revised Edition, Oxford - New York - Toronto - Melbourne: Oxford University Press, 1982, p. 374; traduzione italiana di Piero Bernardini, Milano: Feltrinelli, 1964): «This prototype was almost certainly Ettore Schmitz, whose grandfather came from Hungary, and who wore the mustache that Joyce gave to Bloom, and like Bloom had a wife and daughter.» D'altronde, è noto che Livia Veneziani Svevo offrì tanto il fluente nome quanto la fulva chioma ad Anna Livia Plurabelle. Come se non bastasse, varrà anche la pena ricordare che Ettore Schmitz affida la sua coscienza ad Italo Svevo e che James Joyce, proprio mentre completa a Trieste A Portrait of the Artist as a Young Man e si accinge a scrivere Ulysses, annota un quadernetto che porta il titolo, appuntato da un'altra mano, «Giacomo Joyce». Ellmann, nella sua introduzione al volumetto (London - Boston: Faber & Faber, 1968, 1983, pp. xvi-xvii), si sofferma sulla figura di Svevo come probabile istigatore della stesura degli appunti per un lavoro sulla città di trieste, ma forse non andrebbe trascurata la menzione di un'opera come La novella del buon vecchio e della bella fanciulla ed i materiali per il quarto romanzo raccolti intorno agli abbozzi Le confessioni di un vegliardo. Non a caso, ad apertura della conferenza Svevo scrive (pp. 76-77):

«Nel 1903, al momento di lasciare Dublino, il Joyce si sposò e i suoi due figlioli nacquero a Trieste. S'intende come a noi Triestini sia concesso di amarlo come un poco nostro. E anche come non poco italiano. [...] Un grande titolo d'onore per la mia città è che alcune strade di Dublino s'allungano nell'Ulisse per certe tortuosità della nostra vecchia Trieste. Recentemente il Joyce mi scrisse: Se l'Anna Livia (il fiume di Dublino) non fosse inghiottito dall'Oceano, sboccherebbe certamente nel Canal Grande di Trieste».

Questi dati biografici sembrano tutti convergere verso la costruzione di una amicizia intellettuale che sia nel reciproco scambio di commenti sulle rispettive opere, sia nella reciproca disponibilità ad aiutarsi dal punto di vista pratico, si fonda su una specularità di intenti che la conferenza di Ettore Schmitz su James Joyce fissa nei caratteri della riflessione critica, dai quali il triestino vanamente si schermisce. Ne è un piccolo, ma significativo esempio la coincidenza di quanto scrive, sfogandosi, a Montale il 6 dicembre 1926 (in Italo Svevo, Carteggio con James Joyce, Valery Larbaud, Benjamin Crémieux, Marie Anne Cmnène, Eugenio Montale, Valerio Jahier, a cura di Bruno Maier, Milano: Dall'Oglio, 1978, p. 195): «Rimpiango di essermi impegnato per Joyce. Io non sono un critico e non voglio nemmeno presentarmi come tale». La perplessità riguardo alle proprie capacità critiche ritorna nella conferenza (p. 128), proprio mentre si accinge a chiudere il suo intervento con «Una sola constatazione critica» (p. 129) sulla conoscenza della psicanalisi da parte dello scrittore irlandese:

«Io non sono un critico e rivedendo quello che annotai dubito di avervi dato una chiara idea di questo romanzo che non mi pare lodato abbastanza quand'è detto il romanzo più caratteristico di questo principio di secolo. Mai pensai di saper stabilire il posto che nel mondo delle lettere spetti all'opera del Joyce e scoprire la sua relazione con quanto la precedette; da lettore ingenuo tentai soltanto di comunicarvi la mia ammirazione».

D'altronde, nello stesso breve epistolario con Ferrieri non mancano scintillanti citazioni incrociate con la conferenza che si intrecciano all'insegna della parafrasi di quelli che si potrebbero definire motti di spirito dello stesso Joyce. Preoccupato per la conferenza, il 9 febbraio 1927, ad un mese soltanto dalla fatidica data dell'8 marzo stabilita per l'appuntamento serale davanti al pubblico del «Convegno», Svevo scrive (p. 43): «E come ci si veste per dire al Convegno? Marsina? Sia tanto buono di dirmelo stabilendo la serata per il mese di Marzo. Forse prima mi farò fare l'operazione di Voronoff di cui dicono che chiarisca la voce». La bella ed informativa nota di Palmieri erudisce sulle pratiche chirurgiche del dottor Voronoff volte a ravvivare le prestazioni sessuali e la giovanile prestanza del paziente anziano attraverso il trapianto nel corpo umano di un testicolo di scimmia: il motto con abile stende il velo dell'umorismo sulle incertezze del conferenziere, che rassicura se stesso ed il destinatario della lettera sulle portentose cure ormai disponibili, ma al tempo stesso rovescia proprio l'effetto dell'intervento chirurgico, visto che i risultati non si vedranno sul piano di una riacquistata efficienza sessuale, ma semmai su quello di una chiarezza di voce che renderà senz'altro più gradevole l'esposizione del discorso, ma sancirà anche l'altezza da soprano della voce stessa, con quel che ne consegue sul piano del sacrificio della propria virilità. L'ombra di tali esperimenti della genetica aleggia in un brano della conferenza in cui si esemplifica la rapidità e la ricchezza dello stile dell'Ulysses (pp. 115-116):

«Non è per un lettore sbadato tale lettura. Si capisce quale densità di contenuto dia al lungo romanzo tale pensiero che guizza e si manifesta in una breve parola. è tale la densità che quando Dedalo pensa: La storia, un incubo da cui non riesco a destarmi. Oppure: Per allungare tutto ciò sprecano le ghiandole delle scimmie, si soffre di più perché molta parte della vita derisa è ricordata nel libro».

«Non è per un lettore sbadato tale lettura». Leggendo questa avvertenza del critico e tenendo a mente proprio la prospettiva deittica che la guida, secondo il metodo di Joyce ricordato anche da Palmieri nei termini in cui viene discusso da T. S. Eliot in «Ulysses», Order and Myth (p. 116: «nell'Ulisse questa frase ha due significati compresenti: il primo, quello "locale", [...]; il secondo, quello "globale"»), si è tentati di darle non soltanto un significato «locale» che faccia riferimento al testo di Joyce di cui si offrono per facilità soltanto pochi esempi, ma anche un significato «globale» che finisca per ripercuotersi anche su Svevo e sulla sua opera di scrittore. Con molta puntualità, infatti, Palmieri rileva che le allusioni alle cure del dottor Voronoff occorrono in molte opere dello scrittore triestino: dal racconto del 1904 Lo specifico del dottor Menghi al Corto viaggio sentimentale, dal frammento Il mio ozio alla commedia La rigenerazione. Insomma, seguendo le conclusioni del curatore, se «La principale novità critica che emerge dalla pubblicazione di questo carteggio inedito riguarda l'argomento della conferenza che Ferrieri propose a Svevo»; se «si ignorava infatti che lo scrittore triestino fosse stato inizialmente invitato a parlare della propria opera narrativa»; se «il primo tema scelto da Svevo era Freud» (p. 57); resta significativo lo slittamento del rifiuto di parlare «di mestesso perché sarebbe un doppio esibizionismo» (p. 25). Tale «esibizionismo» si maschera dapprima nelle fattezze del padre della psicanalisi, quindi in quelle dell'amico fraterno. Quel «germe che potrebbe svilupparsi» (p. 25) ha bisogno di un periodo di incubazione per permettere la più lucida operazione di trasferimento della riflessione critica dalla propria opera letteraria a quella dello scrittore irlandese.
L'edizione critica della conferenza approntata da Giovanni Palmieri permette di ricostruire il testo originale della presentazione orale (il cui dattiloscritto originale si conserva presso il «Fondo manoscritti di autori contemporanei» presso l'Università di Pavia), addirittura rispettandone la stessa funzione fatica: per questo risultato, Palmieri ha dovuto ricucire le elisioni dei redattori del «Convegno» ed al tempo stesso enucleare le aggiunte di alcune cartelle di appunti trovate fra le carte dello scrittore triestino che Umbro Apollonio aveva pensato bene di inserire, sotto il titolo di «Scritti su Joyce», nella nuova pubblicazione della conferenza nel volume da lui curato di Saggi e pagine sparse (Milano: Mondadori, 1954, pp. 199-261) dello scrittore triestino. L'elenco riassuntivo offerto da palmieri riguardo agli interventi redazionali del «Convegno» prima e quindi di apollonio può essere esemplificato dall'approssimazione con la quale un termine peculiare come «sucido» è stato edito. Esso, infatti, occorre ben quattro volte nella conferenza: a proposito di «Stefano Dedalo, il bardo sucido» (p. 100); a proposito della riflessione di Stephen nellUlysses il quale è convinto «di dover ritenere che priva di fede l'umanità non possa esser considerata altro che un allevamento di animali sucidi» (p. 106); a proposito di «quella sua visione tragica della vita inferiore del proprio corpo mal vestito, mal nutrito, sucido» (p. 108); a proposito, infine, della «squallida realtà del bordello» descritta «come un'isola sucida dal mare misterioso» (p. 126). Le prime tre occorrenze sono incluse nel gruppo di cartelle 7-14 che Apollonio integra nel testo; tuttavia, il critico inspiegabilmente normalizza soltanto la seconda di esse («sudici»). è una conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, della complicata questione linguistica nella prosa di Svevo: nel caso specifico, addirittura la forma culta è costantmente preferita a quella che, per metatesi, ha preso il sopravvento nella normalizzazione lessicale. Ma la conferenza offre altri spunti che ruotano intorno alla rotunda specularità delle due personalità artistiche in questione, alcuni dei quali messi in rilievo dallo stesso curatore (pp. 111, 113). Si prenda la discussione che Svevo fa di Stephen Hero: «Ammetto che questo non sia una vera autobiografia» (p. 99). L'appassionata difesa dell'operazione letteraria in questione è sostenuta in questi termini (p. 99):

«[...] Quando un artista ricorda, subito crea. Ma la propria persona che resta tuttavia il perno della creazione, è una parte importantissima e vicinissima del mondo, e la virtuosità non arriva a sfalsarla. Nell'ispirazione, io direi che si muta perché si fa più intera. Ed è un'esperienza vastissima».

        Dopo aver difeso tale esperienza come «l'autobiografia del Joyce artista» (p. 100), lo scrittore triestino però conclude con un'affermazione che rivela il carattere introspettivo della sua analisi (p. 101): «Del resto i primi scritti che il Joyce pubblicò egli li firmò Stefano dedalo. è una confessione». Infine, Svevo non può non tornare su quello che avrebbe potuto essere uno dei possibili argomenti della conferenza: la psicanalisi. La confidente affermazione che «il pensiero di Sigismondo Freud non giunse a Joyce in tempo per guidarlo alla concezione dell'opera sua» (p. 129) non trova d'accordo Richard Ellmann (The Consciousness of Joyce, Toronto - New york: Oxford university Press, 1977, p. 54; cfr. Id., James Joyce, cit., p. 340; nello stesso volume cfr. i commenti di Joyce a Svevo sulla psicanalisi: pp. 468, 472):

«But his [Joyce's] possession of the three pamphlets I have mentioned [C. G. Jung, The Significance of the Father in the Destiny of the Individual; S. Freud, A Childhood Memory of Leonardo da Vinci; Ernest Jones, The Problem of "Hamlet" and the Oedipus Complex] strongly suggest that he knew about psychoanalysis several years before, I suspect from the time that Italo Svevo's relation by marriage, Edoardo Weiss, introduced psychoanalysis into Italy,that is, by 1910».

L'augurio conclusivo «che venga un forte psicanalista a studiare i suoi libri che sono la vita stessa, ricchissima e sentita e ricordata con l'ingenuità di chi l'ha vissuta e sofferta» (pp. 131-132) non può non essere che rivolto alla sua stessa opera letteraria: dopo tutto, nel marzo 1927 Svevo iniziava a godere di quell'attenzione critica nei circoli letterari importanti di Parigi e di Milano e quell'invito, spostato sull'opera dell'amico irlandese, si rifletteva sulle sue stesse intenzioni di scrittura.


[versione cartacea: n. sei-undici, 1997, pp. 47-52 - versione web: 1997, n. 1, I semestre]


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