Matteo Meschiari e Francesco Benozzo
Il limite del lichene


1. Memorie

Cercare la memoria di un paesaggio è un atto di erranza fisica che, per tradursi in erranza linguistica, chiede consiglio a una memoria collettiva. Questa memoria può risalire alla seconda o alla terza generazione e ricordare un Appennino più e meno boscoso di adesso (perché non praticato e perché annerito e consumato nelle cataste dei carbonai), oppure è quella che si affida a un'indagine più analitica e misurata, e da striature su placche d'arenaria dice lunghezza e spessore di lingue glaciali in età würmiana. La memoria dello scrittore di paesaggio, infine, è quasi illimitata, perché può interrogare fonti non pertinenti, improprie, in cerca di straniamento, sapori e angolature che le fonti pertinenti non possono offrire.
Tra le varie memorie non amiamo invece la memoria individuale, a meno che non sia quella di chi desidera e ripercorre mentalmente luoghi praticati in silenzio, di chi li ricorda col tatto e con l'occhio, e per gli intrecci di sonorità e gli odori. La Letteratura di Paesaggio, quella che coltiviamo, parla infatti di dinamiche glaciali, di arenarie e graniti, di paludi e di avvicendamenti vegetali, e lo fa di là da qualunque astrattezza linguistica, di là dalla tentazione di trasformare terre verdi e brune in nessi metaforici tra il poeta e il suo universo interiore. Facciamo questo per il piacere del viaggio, un viaggio di erranza e di conoscenza, e per veder germogliare fuori dalla pagina scritta un nuovo sentimento della natura, articolato tra movimenti, luoghi, discorsi.
Dunque viaggio, paesaggio, parola poetica. E una memoria che somiglia non agli immobili strati sedimentati di una parete rocciosa, ma ai licheni sui sassi, a macchie di crescita che strisciando nel tempo sovrappongono, modulano, raccontano densità, forme, colori. Se infatti dovessimo chiudere in uno stemma critico la Letteratura di Paesaggio, sceglieremmo certamente il lichene, in cui i rami di diverse tradizioni si contaminano trasversalmente, e dove, da storie incrociate, si forma un disegno, un paesaggio in secondo grado, che rende avventuroso il gesto opinabile di chi stabilisce la lezione di un testo, cioè di chi, interpretando e frequentando il senso del mondo naturale, fa poesia.
Notturno glaciale, che per la sua geometria è quasi l'edizione critica di un paesaggio, pur nei limiti schiacciati della parola scritta, mostra almeno tre macchie di crescita che vorremmo piacessero a chi si impegna a far poesia dopo il Novecento: la possibilità di praticare oggi un sentimento schiettamente epico; una memoria impropria e remota che si fa strumento per indagare memorie della Natura attuale; una memoria propria, etichettata normalmente 'scienza', che si fa portatrice di un'intrinseca poeticità.


2. Crescite

La dissoluzione dei generi letterari sembra non valere in quella terra franca che è il paesaggio. Qui, generi 'proibiti' come l'epica possono trovare ancora un banco di prova autentico, senza il rischio di scivolare nel pallido gioco erudito o nell'alleggerimento dissacrante, o al meglio ironico, del postmoderno. Infatti, nonostante si invochi di recente la necessità di un riutilizzo del genere epico, sembra invece mancare allo sguardo poetico odierno proprio la facoltà di riconoscere quell'aristocratica simplicitas e quell'eccellenza di cose consuete che sono il carattere immanente dell'epopea. Per questo, oggi, si parla non a torto di eclissi dell'eroico e, conseguentemente, di epopea 'borghese', come residuo serpeggiante ormai solo nell'onnivoro genere del romanzo. La Letteratura di Paesaggio, invece, ha il vantaggio di muoversi nei limiti di una materia che, per sua stessa essenza, è 'eroica', e che cioè vive di azioni proiettabili sugli spazi del tempo grande e contemplabili in modo tranquillo e distaccato, eppure intenso e corposo.

Notturno glaciale è un carme in versi allitterativi che ripete la maniera poetica antico germanica, è forse l'unico esempio di poesia propriamente epica del Novecento italiano, è forse un esempio di come si possa ri-usare il vecchio, la memoria impropria, per scavare un terreno non ancora dissodato. La sua spina dorsale è formata da due cataloghi: il primo, che snocciola una serie di nomi indicanti morfologie glaciali, è riconoscibile per la ripetizione del sintagma "diede forma", il secondo, che dà l'elenco delle dinamiche o dei moti dei ghiacciai corrispondenti alle forme del primo, è riconoscibile per la ripetizione del verbo "mosse". Soggetto dei verbi è la Notte, che è immagine del 'notturno' geologico dell'era glaciale.
I cataloghi si ispirano formalmente al poemetto anglosassone Widsith (VII sec.) la cui ossatura è data appunto da tre thulur (snocciolamenti), che rappresentano la forma più arcaica del poetare germanico. In Notturno i due cataloghi "diede forma" e "mosse" sono stati composti 'trovando' vocaboli in uso nella moderna glaciologia, distinguendo tali vocaboli secondo forme e dinamiche, e infine ordinandoli in versi allitterativi. Organizzare la materia in questo modo può ricordare il Perec di Tentativo di esaurire un luogo parigino o il Liscano di Fondazioni, perché entrambi si servono di enumerazione, reiterazione e anafora allo scopo di descrivere lo spazio fisico e farne al tempo stesso la storia. Ma già per il poeta antico germanico il catalogo era il modo ottimale per raccogliere in un piccolo pacchetto di sapere mnemonico tutto lo scibile della propria etnia. Ogni verso si poneva come una sorta d'incipit, come l'inizio di un eventuale poemetto specifico, e la thula, di conseguenza, era l' 'indice' di un'intera letteratura ciclica in potenza.
In Notturno, allo stesso modo, l'intero tema glaciale è imbrigliato nei due cataloghi di forme e moti, sorta di nucleo magmatico ed esempio di macchina letteraria unitaria e al tempo stesso incompiuta, come intera e incompiuta è la struttura in perpetua definizione di un paesaggio. Ogni verso potrebbe infatti aprirsi in digressioni, come talora avviene, ma il più delle volte serba intatta la propria energia latente, come una rubrica che attende di essere completata. Di qui un promanare di simmetrie più o meno evidenti, implicite o esplicite, di livelli, di intrecci. E di qui una crescita di versi attorno ai cataloghi, tra i cataloghi, talora dentro di essi. Il carme, allora, si pone come la metonimia, e non la metafora, del fare letteratura, una metonimia esemplare del modo di far crescere e veder crescere i testi, alla luce di problemi narrativi, quelli del paesaggio, che solo adesso si cominciano ad affrontare.
Si tratta, come direbbe Calvino, di un insieme di coordinate molteplici che si solidificano in una scabra superficie su cui picchiare con le nocche per accorgersi che dietro c'è il Nulla? Crediamo di no. Il Carme, il messaggio letterario, come il paesaggio reale, comincia in qualcosa di essenziale, nella struttura, riconosciuta da uno sguardo diligente che vuole reagire all'indebolimento moderno della facoltà mimetica. E le crescite, i fenomeni unici e irripetibili, nella loro valenza metonimica, nel loro covare o gemmare, sono tutto ciò che ci è dato toccare con mano, particole di realtà incompiute ma al tempo stesso tracce dell'intero. In definitiva, il limite di percepibilità del lichene: un colore per dita sensibili.


3. Testo

NOTTURNO GLACIALE

carme breve
composto
per la nevicata appenninica
del 23-24 giugno 1995

Una terra si chiamava Appennino. I suoi monti non erano alti e gli inverni erano brevi e miti. Da qualche tempo le nevi scioglievano alla fine di aprile e tornavano solo di rado. Un giorno, tuttavia, nevicò sul finire di giugno e le cime rocciose tornarono bianche, come nei tempi remoti. Gli antichi bacini di accumulo rabbrividirono per l'inconsueto ritorno. Le notti si accesero di chiarori e riverberi.

Raccontano le antiche pietre,       le rocce abrase dal gelo
di brume e tempi di buio,       di bufere turbinose;
calarono nevi, a strati,       sommersero le terre,
le corti appenniniche, a nord,       crostate di gelo.
Le rocce solitarie,       scritte da ghiacci scuri
riposano sotto la neve,       restano silenziose,
sotto la neve, a strati,       sotto molli striature
tremano ancora, a tratti,       ma un tempo c'erano ghiacci.
I monti di arenaria,       le arenarie compatte
giacquero in lingue gelate,      i lembi senza luce.
La notte venne, le avvolse,       non volle risparmiarle,
avvolse le creste gradinate,       avvinse le corti appenniniche;
diede forma alle forme       e mosse movimenti;
forme presero vita       nell'informe materia,
facendosi e disfacendosi,      bianche nell'era del buio.
La notte avvolse le corti,       le conche d'Appennino.
E diede forma a valli,       e a piattaforme e a forre,
e a fronti lobate,       e a fronti confluenti;
e a selle diede forma,       e a seraccate e a sbocchi,
a crateri diede forma,       e a cordoni e a cori;
le morene brillarono,       i monti sputati dal gelo,
brillarono sotto la luna,       sul mare gelato, ai margini;
frammenti di rocce franarono,       sbriciolamenti di strati,
viaggiarono nel ghiaccio,       nei vuoti di voragini.
Diede forma, la notte,       a nicchie e a bacini coperti,
a nicchie diede forma,       e a bacini composti,
a circhi diede forma,       e a crepacci e a domi,
a coni diede forma,       e a conche e a intaccature,
a funghi diede forma,       e a falde e a foliazioni,
a terrazzi diede forma,       e a torrenti e a tavole,
a placche diede forma,       e a pianalti e a piramidi,
a calotte diede forma,       e a cascate e a ogive,
a mulini diede forma,       e a marmitte e a lingue.
Scesero lingue, a valle,       primi nemici dei tronchi,
riempirono i solchi dei fiumi,       colmarono i boschi di coltri;
frastagliate nei flutti       franarono sulle arenarie,
frane di ghiaccio in crescita       sui resti di rocce compatte.
Diede forma, la notte,       a gradinate e a gruppi,
a gradini diede forma,       e a gruppi di speroni,
a ghiande diede forma,       e a rocce montonate,
e diede forma a creste,       bianche nell'era del buio.
Là le antiche rocce       raccontano movimenti,
narrano forme, le pietre,       dei fremiti freddi.
Le perenni metamorfosi,       le mutevoli apparizioni
sono soltanto modi       della medesima materia.
Ora che quelle forme,       i frutti venuti dal gelo,
furono solo modi       del medesimo movimento:
l'intero e l'incompiuto,       l'informe e il multiforme.
Così si mossero i ghiacci,       così formarono i luoghi.
E mosse, la notte,       smussamenti e accumuli,
accrescimenti mosse,       e accorciamenti e ablazioni,
corrugamenti mosse,       e compressioni e colate,
cavitazioni mosse,       e confluenze e sporgenze,
escavazioni mosse,       ed erosioni espanse;
e il volubile ghiaccio,       il ventre variegato,
divelse dai fondali       frammenti di arenarie.
Poi mosse, la notte,       sdrucciolamenti e sradicamenti
scivolamenti mosse,       sradicamenti e tagli,
rigonfiamenti mosse,       e riempimenti e abrasioni,
disfacimenti mosse,       fratturazioni e fluttuanze,
inspessimenti mosse,       e ruscellamenti gelati,
imbibizioni mosse,       e inghiottimenti e incrementi.
Così le colate, lunghe,       i lembi senza luce,
recarono nell'interno       ruscelli di acque rapide,
torrenti tumultuosi       tracimarono al buio
verso valli deserte,       di là da vasti spazi.
E mosse, la notte,       dilavamenti difformi,
deformazioni mosse,       e diffluenze estese,
percolazioni mosse,       e depressioni e indurimenti,
incrostature mosse,       e increspature e crepolazioni,
rigonfiamenti mosse,       e graffiamenti e montonature,
perché le rocce antiche,       le fragili arenarie,
si smussarono, sotto,       strato dopo strato.
Dove corse il ghiaccio       conobbero corrosioni,
dove il gelo passò       patirono pressamenti.
Per questo, la notte invernale,       l'amica del buio,
mosse la sua prole,       le pallide avanguardie,
rigonfiamenti mosse,       e graffiamenti e montonature
e mosse movimenti,       lenti nell'era del buio.
Durarono i movimenti,       le derive dei monti
modificarono i corsi,       mutarono il paesaggio;
gli strati si spostarono,       spartirono i destini,
le azzurre creste, ineguali,       le zolle d'Appennino.
Raccontano le antiche pietre,       le rocce abrase dal gelo
di campi appenninici, a nord,       crostati di freddo.
Narrano, quelle rocce,       di nevi raggrumate,
quando le coltri buie       colarono verso valle.
La nazione dei ghiacci, poi,       le nevi compresse,
si sciolsero in torrenti,       scemarono in acque,
non poterono resistere       al ritorno dei caldi,
all'alba delle valli,       nel velo vegetale.
E ora le rocce, erose,       ritornano, libere, all'aria,
riposano i detriti,       le dune del vento glaciale,
tornano nevi, talora,       tornano tetre nottate,
e l'autunno dei mesi,       ma in nessun luogo i ghiacci.

La neve di giugno sciolse in pochi giorni di sole. I bacini di accumulo, le cime dei monti, tornarono brune come stanno in estate. L'erba si raddrizzò rabbrividendo, sotto la luce. Tremarono le foglie dei faggi. Nell'aria, tuttavia, restò un sentore d'autunno, un'attesa; del tramonto della stagione, e del ritorno del buio glaciale.

 

  • Bibliografia

     


    [versione web: 1996, n. 2, II semestre]

     


    Bollettino '900 - Electronic Newsletter of '900 Italian Literature - © 1995-1997