Armando Gnisci
Crisi dell'italianistica: quali prospettive?


L'Università è di nuovo al centro di un dibattito politico con la riforma dei concorsi e la rissa sugli smembramenti dei maxi-atenei. Ma anche culturale. Prova ne sia, tra le altre, la discussione sul destino dell'Italianistica che si è sviluppata negli ultimi due anni. A provocarla furono un serio articolo di M. Santagata nell'aprile del 1995 su «La Rivista dei Libri», seguito da molti interventi - in specie su «l'Unità» -, e il «fattaccio» del Dipartimento di Italianistica della Sapienza di Roma. Una giostra gladiatorio-circense promossa dalla stampa quotidiana per appassionare [sic] i curiosi ad un mitico duello Asor Rosa-Ferroni, di cui non importava niente a nessuno, fuorché a chi lavorava - e lavora - nei loro paraggi; diciamo, un centinaio di persone.

Ma veniamo alla crisi dell'Italianistica. Santagata in un recente ritorno sull'argomento, ancora su «La Rivista dei Libri», si è lamentato dell'assenza dal dibattito dei colleghi che insegnano Letteratura comparata, indiziati, invece, di avere un ruolo importante nella crisi dell'Italianistica stessa. È vero. Anzi, sono vere tutte e due le cose. Il fatto è che ho provato più volte - insegnando Letteratura comparata a «La Sapienza » - a proporre un mio intervento al Direttore della «Rivista dei Books », ma senza ottenere alcun cenno di risposta. Ed è vero che l'Italianistica è in crisi, se è intesa come insegnamento e ricerca sulla lingua e sulla letteratura italiana. Anche perché a dibatterne sono i professori di letteratura italiana. Proprio così. Se la cultura letteraria italiana fosse meno provinciale e mediocre - sospetto che lo sia al grado più alto nell'Europa occidentale - si renderebbe conto che i termini con i quali discute degli studi di Italianistica sono primonovecenteschi a dominante eurocentrica (dal mio punto di vista, s'intende).

Proverò, in breve, a spostare il punto della questione, secondo il modo comparatistico di trattarla. I colleghi statunitensi hanno recentemente fatto il punto sulla situazione della nostra disciplina; se ne possono vedere gli atti nel volume Comparative Literature in the Age of Multiculturalism a cura di M. Bernheimer. Di cosa discutono i professori yankees? Del destino degli studi letterari in generale, minacciati dall'invadenza dei cultural studies. Cosa sono? Una specie di ecumenico - ma spesso confuso - orizzonte storico-antropologico di indagini che toccano tutti gli aspetti «culturali » di una civiltà: dalla letteratura al cinema, dalle arti alla moda, dagli stili urbanistici al design, dalle mutazioni del paesaggio alla cucina. Quali civiltà? Quelle nazionali (statunitense, canadese o cinese, giapponese) dentro quelle areali (nordamericana, estremorientale, europea, ecc.) e queste ultime vengono poi studiate nei loro rapporti: abbiamo, allora, gli studi interculturali. I comparatisti letterari, insomma, fanno i conti con gli studi culturali e ormai, dall'Università di Warwick in Gran Bretagna a quella Beida di Pechino, intitolano i loro Dipartimenti: Comparative Literature & Culture. J. Culler, conosciuto e tradotto anche da noi, propone: siano pure i Dipartimenti su base nazionale ad avere un'impostazione culturale, quelli di Letteratura comparata, così, torneranno ad avere la loro autonomia metodologica e tematica. La cosa, indirettamente, ci tocca. Vediamo come. In buona sostanza: siano i Dipartimenti di Inglese, Francese, Italiano, ecc. a svilupparsi come «Letteratura e cultura inglese », «francese », ecc. Centri accademici, cioè, dove viene studiata un'intera civiltà nazionale: dai drammi elisabettiani alla «questione irlandese », da Cromwell agli stili architettonici dell'impero coloniale, dalla filologia germanica all'inglese degli scrittori pakistani emigrati a Londra. In termini «italianistici »: dalle forme costituzionali dei Comuni alle arti «minori » del Rinascimento, da Tasso e Monteverdi a Rossellini e Zavattini, dalla religione etrusca alla moda di Armani e Versace. è questa l'Italianistica che interessa al mondo. E forse anche agli italiani. O no? Che ci siano centri universitari dove si studia la nostra intera civiltà nei suoi «caratteri originari » (si scorra solo l'indice del primo volume, che porta questo titolo, della Storia d'Italia Einaudi, coordinata da R. Romano e C. Vivanti, del 1972: una delle splendide eccezioni ed eccellenze della cultura umanistica italiana contemporanea), nelle sue vicende storiche e nei suoi intrecci europei e mediterranei e poi mondiali (c'è gente che scrive racconti in italiano provenendo dal Senegal o dalla Siria e c'è gente che scrive romanzi in anglo-italiano in Australia).

Non è questa una prospettiva alla quale dedicare qualche attenzione, colleghi italianisti? E non sposta questa prospettiva, forse, i termini stessi della definizione dell'Italianistica?


n. sei-sette, settembre 1996 - 1996, n. 1


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