Vitaniello Bonito
Su Cosimo Ortesta


Le tre raccolte di versi finora pubblicate da Ortesta (Il bagno degli occhi, Milano, Società di poesia, Guanda, 1980; La nera costanza, Palermo, Acquario-La Nuova Guanda, 1985; Nel progetto di un freddo perenne, Torino, Einaudi, 1988) costituiscono un corpus estremamente compatto e assai importante nel panorama poetico degli ultimi venti anni.
Lo svolgimento della materia tematica nella poesia di Ortesta parte da un «progetto» non aprioristico ma innervato nel farsi stesso dei testi, nella loro andatura paradigmatica che recupera di volta in volta motivi e immagini filtrate attraverso una consapevolezza stilistica implacabile e di grande forza emotiva. Uno di questi temi è certamente rappresentato dal «gelo», dalla «neve», come elementi «progettati» di un «freddo perenne». Elementi che investono non solo il mondo, ma anche la percettività della poesia, l'occhio che queste cose guarda e da cui viene guardato, in una fissità che raggela i corpi esponendoli ad un «crudo splendore», medium feroce che li separa e li unisce allo stesso tempo.
Si è in presenza di uno sguardo totale che coglie di soprassalto l'oggetto, lo definisce lo isola e lo immobilizza attraverso una luminosità fredda e sfolgorata che lo ingloba e lo rilancia nell'asfissiante verità del suo essere.

La poesia di Ortesta così sembra disegnarsi come un'esperienza estrema della parola che si fa occhio, visione regressiva che attraversa il proprio spazio esistenziale radendolo con la lama di una luce affilata e implacabile.
Ma dal «crudo splendore» di questa ocularità prende corpo, soprattutto con il Progetto di un freddo perenne, una dimensione della voce come abbandono permanente e risonante di una parola che si smaterializza, piegandosi e spiegandosi, in una sorta di luce ventilata resa visibile nella sua astratta corporeità di sguardo che si rivela al suono.
In queste dissolvenze tra occhio e voce agisce la mente, teatro incorporeo e sintattico in cui si accede alle sostanze metamorfiche, alle rassomiglianze interiori, alle atroci peregrinazioni di un viandante immobile.
L'ascolto e la visione fanno parte di una epoché dell'esperienza entro cui le apparizioni fenomeniche del mondo si scambiano con quelle di un soggetto sospeso nel proprio accadere e arretrato rispetto alla pronunzia del proprio io. Ecco perché anche in questi inediti la parola a mano a mano che svela dà inizio alla cancellazione dell'oggetto e della sua forma. È come un arrestarsi dentro la trasparenza della propria mente, in cui si fanno più acute le percezioni, più profonde le camere in cui sono rintanati gli eventi di un mondo trattenuto in un tempo totale dove cadono le differenze tra la temporalità fossile e quella del patire quotidiano.

È la distanza dello sguardo che ora si fa strategia conoscitiva; e dal suo racconto prende lentamente vita un indifeso ascoltare della carne attraverso cui la regressione temporale si incontra con la voce acuminata di uno stupore solitario che assiste al proprio farsi percezione visiva. La voce s'incarna nella propria lontananza e da qui prende corpo il dire come gesto assoluto pronto a ripercorrere tutto il tempo che lo attraversa. Le forme allora si trasmutano in un viaggio a ritroso nel profondo oscuro di pulsioni e richiami, fino a trasferirsi nel muto assistere, cosmico eppure così leopardianamente vicino, al proprio vedere e vedersi illuminato nel canto: «Far la pace col tempo, l'estrema / stretta delle dita il viso / devastato e pudico oh quietissima / luna senza viso oh vecchiezza / che vuole indifesa ascoltare / il crepitio tenue della nostra carne».

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[versione cartacea: n. sei-undici, 1997, pp. 75-76 - versione web: 1996, n. 2, II semestre]

 


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