Elena Zubkova, "Quando c´era Stalin. I russi dalla guerra al disgelo", il Mulino, Bologna, 2003, pp. 284, Euro 21

Gli ultimi anni di Stalin, visti dall´interno dell´Urss di Antonio Moscato  L´utilizzazione giornalistica scorretta di qualche documento offerto a buon prezzo agli studiosi occidentali dopo l´apertura degli Archivi dell´Urss (ma in fondo si trattava di un solo vero caso di ricostruzione poco scrupolosa di una frase in un documento poco leggibile da parte di uno storico fino a quel momento ineccepibile), ha portato a una diffidenza esagerata su tutto quel che proviene da quegli archivi, che invece hanno cominciato ad essere studiati sistematicamente da ricercatori russi del tutto rispettabili.  Un esempio ottimo è il libro di Elena Zubkova, Quando c´era Stalin, il Mulino, Bologna, 2003, che utilizza in modo rigoroso sia la saggistica russa e sovietica precedente, sia la memorialistica pubblicata largamente nel momento di maggiore slancio della glasnost, ma soprattutto una fonte particolarmente interessante: le lettere inviate spontaneamente dai cittadini sovietici al Comitato centrale o direttamente a Stalin, quelle indirizzate alla redazione della rivista "Novyi mir" che tra il 1953 e il 1957 rappresentò il punto di riferimento più importante per il rinnovamento della società sovietica, e la posta intercettata, esaminata e utilizzata (spesso con esiti tragici per gli autori) dalla censura militare dell´apparato statale di sicurezza durante la guerra e nel periodo immediatamente successivo. Con maggiori cautele, ma con non minore interesse, la Zubkova utilizza gli studi sulla pubblica opinione condotti dagli organi di governo, al momento di determinate campagne o su alcuni strati sociali, su scala nazionale o in certe regioni. Sono i dati sulla carestia del 1946-1947, e sulle condizioni terribili di vita, alloggio e lavoro nell´immediato dopoguerra (agghiaccianti i resoconti delle autorità sulla salute degli adolescenti che avevano rimpiazzato gli adulti nelle fabbriche, lavorando 10 o 12 ore in condizioni analoghe a quelle descritte da Engels o da Marx per l´Inghilterra della prima metà dell´Ottocento). Anche sulla preparazione della riforma monetaria del 1947, ci sono pagine sorprendenti, sia sulle voci che la accompagnarono, sia sul suo aggiramento da parte dei burocrati che dovevano preparare nella massima segretezza la sostituzione della carta moneta circolante, ma che avvertirono tempestivamente i loro complici nelle malversazioni, che provvidero subito ad acquistare oro o beni di ogni genere, per sottrarre al controllo le somme accumulate illegalmente. L´attenzione della Zubkova si concentra soprattutto sui mutamenti dell´opinione pubblica, dal revival della fede religiosa in genere e delle sette millenaristiche in particolare, alla straordinaria fioritura di iniziative studentesche indipendenti dalle strutture burocratizzate del Komsomol. Alcune di esse, iniziate con innocui giornalini di istituto e poi, dopo il loro divieto, proseguite con altrettanto innocenti fogli "clandestini", finirono per essere catalogate come attività controrivoluzionarie antisovietiche, e sanzionate con alcune condanne a morte e molte a dieci o anche venticinque anni di reclusione.  Naturalmente almeno le pene detentive realmente scontate furono meno lunghe di quelle comminate perché già nel 1953 (per iniziativa dello stesso Berija) e poi soprattutto nel 1956 la maggior parte dei detenuti (che secondo lo stesso Berija erano ancora due milioni e mezzo, e tra cui si moltiplicavano forme a volte durissime di insubordinazione e di rivolta), furono rilasciati. Ma il ritorno a casa degli ex deportati non fu tranquillo, sia perché molti, pur "riabilitati", continuavano a essere colpiti da vessazioni varie (ad esempio non potevano accedere a molti incarichi o iscriversi alle università), sia perché una parte della popolazione li guardava con sospetto.  La grande poetessa Anna Achmatova, dopo il XX Congresso, quando il processo di riabilitazione assunse caratteristiche di massa, osservò che "ora che i condannati stanno tornando , vi sono due Russie che si osservano, l´una di fronte all´altra: quella di coloro che finirono nei campi e quella di chi ve li mandò". La Zubkova osserva, concordando con lo storico Sarapov, che le Russie in realtà erano tre: c´erano anche coloro che non erano stati deportati, ma che non erano stati delatori o collaboratori dell´ingiustizia. Una parte del libro si basa sui dibattiti che esplosero sulle riviste letterarie, e ovviamente soprattutto su "Novyi mir", con una partecipazione straordinaria dei lettori e con momenti pubblici di grande intensità (con la folla arrampicata sulle facciate per ascoltare almeno dalle finestre la discussione).  L´autrice riporta integralmente la lettera di un ingegnere che per decenni non aveva mai letto i romanzi criticati dalla "Pravda" e che in sanatorio - in mancanza di altro - aveva preso per la prima volta in mano "Novyi mir", rimanendo folgorato dal romanzo di Vasilij Grossman "Per la giustizia", che era stato stroncatissimo dalla critica ufficiale: in esso scopriva che "la gente è rappresentata come davvero è nella vita, e non secondo una qualche divisione precostituita tra buoni e cattivi". Sorprendente anche la parte del libro dedicata alle elezioni del 1946, ovviamente con candidato unico, ma in cui nel pur relativo segreto dell´urna non pochi elettori riuscirono a scrivere commenti oltraggiosi sui candidati e in genere sui dirigenti. Peraltro non è neppure escluso che gli informatori drammatizzassero il fenomeno, magari per attribuire a ignoti contestatori quel che in segreto pensavano essi stessi. Più in generale l´autrice osserva in modo metodologicamente corretto che i sondaggi sullo stato d´animo delle masse possono essere distorti dal fatto che i funzionari preposti segnalavano probabilmente soprattutto le "idee pericolose" che richiedevano una particolare vigilanza anziché quelle banali e conformiste. Ma la sensazione che la Zubkova riesce a trasmetterci è che in quegli anni di decompressione dopo la terribile esperienza della guerra ci fosse un´aspettativa profonda di cambiamento, che fu delusa e bruciò un´intera generazione. Tra cui, soprattutto, gran parte dei reduci dalle campagne vittoriose fuori dei confini sovietici, su cui si appuntò il sospetto che - sotto l´influenza di quel che avevano visto a Praga o Berlino - potessero rappresentare una nuova generazione "decabrista" (come quella che poco più di dieci anni dopo il ritorno dall´Europa occupata nel corso delle guerre contro Napoleone, tentò il primo moto rivoluzionario in Russia). Per questo su di loro, e ancor più su quelli che erano sopravvissuti ai lager nazisti (in cui erano finiti prigionieri spesso per gli errori dei loro superiori inetti), si concentrò la "vigilanza" e presto la repressione che doveva chiudere quella fase di speranze, in cui si erano manifestate per la prima volte dopo decenni le forze per cambiare gli assetti dell´Urss staliniana. Un´occasione sprecata allora, e ancor più nel 1956, per la "sindrome ungherese" che bloccò il "disgelo" e la grande fioritura di energie creative. Quando trent´anni dopo il processo riprenderà, sarà troppo tardi: le spinte alla ricerca di una soluzione socialista alla crisi erano state bruciate, o annegate nell´alcool o nelle sette religiose, il dissenso punito ed esasperato aveva imboccato quasi sempre la strada del rifiuto assoluto dell´esperienza rivoluzionaria e dell´imitazione subalterna delle idee proposte dall´Occidente capitalistico.

Antonio Moscato, "Bandiera rossa news", n. 115, 6 marzo 2003