Caterina Liotti, Rosangela Pesenti, Angela Remaggi, Delfina Tromboni, (a cura di), "Volevamo cambiare il mondo. Memoria e Storia delle donne dell'Udi in Emilia Romagna", Carocci editore, pp. 283, euro 20,50

Nelle Udi [la storica sigla dell'Unione Donne Italiane - ndr] emiliane-romagnole e' cresciuto, negli ultimi anni, il desiderio di raccontarsi, orgogliose della loro storia e piu' pronte ad interrogarsi con liberta' - azzerando vecchi e consolidati stereotipi - sulla propria specificita', vale a dire su quel di piu' e di diverso che le ha connotate rispetto a tutte le altre Udi. A questa felice stagione creativa appartengono interessanti pubblicazioni. Tra queste cito: Con cuore di donna. L'esperienza della guerra e della resistenza. Narrazione e memoria (a cura di Delfina Tromboni e Liviana Zagagnoni. Nella serie "Quaderni" dell'Archivio storico di Ferrara, marzo '98). L'ultimo della serie e': Volevamo cambiare il mondo. Memoria e Storia delle donne dell'Udi in Emilia Romagna, a cura di Caterina Liotti, Rosangela Pesenti, Angela Remaggi, Delfina Tromboni (Carocci editore, pp. 283, euro 20,50).
Il libro raccoglie le interviste a 99 donne che hanno legato la propria vicenda personale a quella dell'Udi, semplici militanti accanto a dirigenti locali e regionali. Tutte donne che parlano in presa diretta, senza la mediazione di "maitre-a-penser", e grazie a cio', i loro testi rimandano la sincerita' e la freschezza di ciascuna che si racconta e la varieta' dei contesti temporali e sociali che fanno loro da sfondo. L'impresa editoriale ha richiesto anni di lavoro da parte di un agguerrito ed esperto gruppo di ricercatrici, forti di una griglia di domande studiate con l'intento di non ingessare le singole storie, ma farle rivivere schiette, sincere, genuine. A raccontare questo "dietro le quinte" e' Caterina Liotti, un'esperta ricercatrice archivistica che, tra l'altro, ha ordinato e informatizzato l'archivio storico dell'Udi di Modena. Delfina Tromboni, nel suo testo Di donna in donna. Ritratti in punta di penna (1945-1960), guida la lettrice e il lettore a navigare nell'intricato arcipelago di queste parole di donne, riuscendo a cogliere il senso piu' profondo di cio' che esse vogliono comunicare. Delfina e' una timoniera di riconosciuta esperienza perche' riesce sempre a fare tutt'uno della sua alta professionalita' archivistica con la sua cultura e passione politica. E
infatti, ecco che ti tira fuori dal sacco per esempio una prima provocazione: l'Udi, negli anni della ricostruzione, e' stata soltanto, una semplice cinghia di trasmissione dell'allora Partito Comunista Italiano? A giudicare da alcuni dati numerici che Delfina puntigliosamente fa parlare da soli, risulta quanto questo luogo comune debba essere almeno riesaminato; a Ferrara nel 1948 l'Udi aveva 40.000 inscritte, distribuite in 133 circoli, mentre quasi in quegli stessi anni il Pci e il Psiup insieme non ne
raccoglievano piu' di 24.000. E allora, si puo' azzardare l'ipotesi che le battagliere donne ferraresi, portatrici forse ancora inconsapevoli di una forte soggettivita', navigando a vista, in un percorso irto di ostacoli, tra organizzazioni della sinistra, partiti, sindacati, cooperative, Anpi e quant'altro, siano approdate all'Udi, non come ad una organizzazione parallela, ma anzi, conflittuale e antagonista? Al fine di sostenere questa ipotesi si porta il caso di Margherita Fabbri (Ghita, nella Resistenza), responsabile dell'Udi di Argenta, la quale, pur avendo nel suo portafoglio le tessere di tutte le organizzazioni della sinistra, lascia come ultima volonta', di venire accompagnata nell'"ultimo viaggio" dalla sola bandiera dell'Udi. "Quanta soggettivita' - si chiede
Delfina - c'e' nel gesto che si esplicita con forza dirompente, soltanto nel momento in cui occorre lasciare l'ultima immagine di se', praticare l'ultimo passaggio di testimone?".
A ben vedere, quello che connota la specificita' delle Udi di questa regione non e' tanto e non solo la potenza dei numeri, cioe' le cifre da primato delle tesserate, che pure e' un dato indubitabile di realta', quanto la presa di coscienza collettiva, direi l'orgoglio, cresciuto dentro in tutti questi anni e finalmente portato allo scoperto, di aver dovuto misurarsi con un modello di societa' fortemente strutturata politicamente, socialmente e culturalmente, cosi' "aperta" ad ogni istanza di progresso e, allo stesso tempo, cosi' radicalmente patriarcale. Questo incontro/scontro non ha forse costretto queste donne a dover sviluppare con anticipo una soggettivita' femminile ancor prima dell'incontro con il femminismo? Se lo chiede Lia Randi in un interrogativo che ha gia' in se' la risposta. Le fa eco la ravennate Simona Ventura che osa nominare esplicitamente la parola patriarcato e lucidamente centra la questione: "piu' alto che altrove, il livello di trasgressione richiesto in un territorio come l'Emilia Romagna,
da subito fortemente connotato a sinistra e contestualmente contraddistinto da una struttura socialmente patriarcale, per esporsi alla scena pubblica, non tanto come  soggetto 'rivoluzionario' (apprezzato dal comune sentire), quanto come soggetto di sesso femminile (vissuto invece - sempre nel comune sentire - come 'intralcio' alla rivoluzione". Sempre su questo strano bisticcio tra conservazione e rivoluzione si getta con passione Franca Foresti nel suo ultimo tempo di vita, investendo la sua intelligenza politica e il suo carismatico prestigio nella creazione di una struttura di ricerca che studiasse a fondo il fenomeno. Per questa sua
iniziativa Franca dovette fronteggiare - e lo fece con grande coraggio - una forte opposizione e non sempre alla luce del sole, che le procuro' non poche amarezze. Si trattava pur sempre, a quei tempi (si era alla fine degli anni '80) di un campo minato che lambiva il potere, di un grosso sasso nello stagno, di una voce critica che usciva dal coro. La liberta' e la sincerita' con cui questo volume riaffronta questo tema, ci da' la misura di quant'acqua e' passata sotto i ponti della ricerca storica. Anche sul tema del separatismo, il libro apre una nuova pagina di riflessione, partendo dalle esperienze che le donne intervistate raccontano. Tante di loro, imbrigliate nella rete di un doppio percorso politico, quello dell'emancipazione tra le donne e con le donne dell'Udi, e quello del riscatto sociale e politico delle classi subalterne, nel partito e nel sindacato, hanno dovuto altalenare fra l'incontro e lo scontro, non solo con gli uomini delle proprie famiglie, ma anche con "i compagni" con cui pure condividevano alti ideali e concretissime azioni e lotte politiche. Molte di loro infatti, forse tutte, e forse non a torto, pensavano che, per
"costruire un mondo nuovo", questi uomini dovessero essere rieducati, e non abbandonati a se stessi e al danno che, se lasciati soli, avrebbero certamente continuato a fare.
Il sentimento piu' forte che ricavo dalla lettura di questo libro e' l'ammirazione per queste meravigliose donne qualunque che hanno raccontato di se' con la consapevolezza di aver scritto una importante pagina di storia. Dice per esempio Laura Polizzi, "Mirka": "nella concretezza dei progetti che mettevamo in campo, asili per i bambini, vetri per le finestre delle scuole, manifestazioni contro il carovita... queste iniziative erano accompagnate da una capacita' organizzativa straordinaria, una complessa capacita' di progettazione e di direzione squisitamente politica. Dove trovavamo queste capacita' di organizzare, che eravamo tutte operaie e contadine?" e piu' avanti continua: "cosa attraeva tante donne all'Udi? Esserci trovate dentro legami affettivi oltre che politici di un valore immenso. Legami tra donne poverissime e senza strumenti culturali. Avevamo solo la cultura della miseria e della solidarieta'". A donne come questa migliaia di mamme napoletane, nell'inverno del 1946, affidarono per tre mesi i figli piu' grandicelli, vittime innocenti di una guerra che aveva devastato la citta' e impresso sui corpi le stimmate della denutrizione, delle malattie e del freddo, perche' potessero ritemprarsi. Con grande slancio di generosita' si aprirono le case dei mezzadri, dei coloni, dei braccianti, degli operai, si fece a gara per farsi assegnare il piccolo napoletano da accudire come figlio tra i figli. Una bella pagina di storia italiana scritta dall'Emilia Romagna e, soprattutto dalle sue donne. E io, che mai dimentico di essere anche napoletana, dico ancora grazie.

Luciana Viviani, "Il manifesto", 14 marzo 2003