William Gambetta, Democrazia proletaria. La nuova sinistra tra piazze e palazzi, Milano, Punto Rosso, 2010, pp. 287, euro 15.00
 

Recensione di Fiammetta Balestracci, pubblicata nella rivista "Archivio Trentino di storia contemporanea"

Democrazia Proletaria: la sfida di un partito di fronte ai movimenti e alla violenza

Il libro di William Gambetta Democrazia proletaria. La nuova sinistra tra piazze e palazzi (Edizioni Punto Rosso, Milano, 2010, 287 p., 15 euro) presenta diversi pregi. Il primo è certamente quello di mantenere la promessa annunciata nel titolo. Fornisce infatti una ricostruzione lucida e puntuale della storia di Democrazia Proletaria (DP) nella sua fase di formazione, nei cosiddetti anni dell’azione collettiva e della contestazione, i Settanta, al principio dei quali alcuni gruppi organizzatisi alla sinistra del PCI, all’indomani del fallimento del primo tentativo di candidatura elettorale nel 1972, attraverso il progetto di una formazione partitica unitaria cercarono di farsi interpreti e portavoce della protesta sociale e politica avanzata dai movimenti. La tappe principali del processo costituente del partito furono segnate dalla formazione di un cartello elettorale per le elezioni politiche del 20 giugno 1976, andato sotto il nome di Democrazia Proletaria e costituito oltre che da Avanguardia Operaia e PDUP, già legate da liste unitarie alle elezioni amministrative del ’75, da Lotta Continua, il Movimento lavoratori per il socialismo, la Lega dei comunisti, la IV Internazionale e altri gruppi minori; dalla nascita di un nuovo coordinamento tra la maggioranza di Avanguardia Operaia, la minoranza del PDUP e la Lega dei Comunisti nella primavera del 1977, quale passo preparatorio al congresso di fondazione per una nuova DP nell’aprile 1978. Così formata, la nuova DP si presentò alle elezioni del ’79 in una lista più ampia, denominata Nuova Sinistra Unita e comprendente, oltre a DP, anche altre associazioni e movimenti di base, intellettuali e sindacali, la cui sconfitta in termini di forza elettorale sul piano nazionale – DP è a quel punto rappresentata solo al Parlamento europeo da Mario Capanna – avrebbe preluso ad una crisi e quindi ad un cambio alla guida del partito da cui, secondo l’autore, si può far cominciare una nuova stagione politica e organizzativa, quella degli anni Ottanta, segnata dal distacco dalla politica attiva di molti militanti. Al centro della trattazione è l’analisi del dibattito interno ai gruppi e poi al gruppo dirigente del partito sugli obiettivi e sulle prospettive politiche e organizzative, sono cioè innanzitutto i processi decisionali sviluppatisi intorno alla questione centrale, e dirimente nei primi anni di vita del partito, della individuazione di un modello di partito che si definisca tenendo conto tanto delle elaborazioni teoriche quanto delle dinamiche reali del conflitto sociale, secondo una dialettica che a fine decennio di fatto non era riuscita a risolversi in una sintesi soddisfacente. Se, infatti, intorno alla metà del decennio i gruppi che poi si uniranno nella prima formazione di DP sembrano essere capaci di mobilitare e orientare larghe porzioni della conflittualità sociale, al contrario negli anni successivi, in particolare dopo il picco toccato dal movimento giovanile del ’77 e nella fase di crescita del movimento femminista, il gruppo dirigente di DP sembra incapace di dialogare con i nuovi movimenti, essi stessi refrattari a riconoscersi in un’organizzazione che tendeva a spegnere l’azione spontanea. Per tutto il periodo preso in esame del resto il confronto tra le diverse anime del partito, quelle di partitisti e movimentisti, sostenitori del partito-guida sul modello leninista o del partito-strumento «come strumento dell’autorganizzazione della classe e degli altri soggetti anticapitalistici», di fatto non trova soluzione, lasciando progredire così l’organizzazione di una forma-partito fluida o debole, almeno rispetto al modello dei partiti dell’arco costituzionale, con settori di partito sul piano organizzativo e identitario con una forte autonomia da altri settori, condizionati diversamente da fattori quali le mobilitazioni sociali, il ruolo dei leader decentrati e l’attività autonoma di strutture locali rappresentanti minoranze nazionali quasi federate a quella centrale, come quelle trentina e alto-atesina per esempio. D’altronde all’origine di questa fluidità organizzativa c’era la scelta di un rapporto osmotico tra partito e movimento, il tentativo cioè di tenere insieme la complessità, che era dunque al tempo stesso la debolezza e il segno distintivo di un progetto di partito con forti spinte antiautoritarie a tratti utopiche. La vita del partito è segnata altresì dalla ricerca costante di una collocazione identitaria che si distinguesse dalla sinistra storica (PCI-CGIL), dalla piazza, dalla violenza politica e infine dalla lotta armata, lungo un percorso irto di ostacoli, fatto di scissioni, fusioni, prese di distanza pubbliche e rimozioni. Ricorda acutamente l’autore che sintomatico di questo percorso è il fatto che il congresso di fondazione di DP si sia svolto in uno dei periodi più oscuri della repubblica, durante i giorni del rapimento di Aldo Moro. E qui veniamo a uno degli altri pregi del saggio di Gambetta, quello cioè di porsi di fronte ad alcuni nodi centrali della storia di quel decennio, quali appunto la questione della violenza e della lotta armata e la questione più generale delle periodizzazioni, in relazione alla dimensione politica e sociale della storia dell’Italia repubblicana.
Nella seconda metà del decennio in DP si rese necessaria una presa di distanza dalle azioni di violenza scaturite dall’attività di alcune frange del movimento, innanzitutto dall’area afferente all’Autonomia. Tali azioni erano condannate in quanto violenza individuale o di piccoli gruppi di matrice «piccolo borghese», ritenute controproducenti rispetto alla causa del socialismo a cui poteva invece essere funzionale solo la violenza di massa. La necessità di prendere le distanze dalla violenza sarebbe anche aumentata con il configurarsi nell’area dell’estrema sinistra di un progetto di lotta armata e il crescere della minaccia di un terrorismo di sinistra con i primi rapimenti e le azioni violente delle BR e di Prima Linea, accusate pubblicamente da DP di sottrarre terreno alla causa dei lavoratori e di innescare l’azione repressiva dello Stato. Non ci furono ambiguità perciò rispetto al tema della violenza, ma nette prese di distanza, funzionali anche alla ricerca di una collocazione politica chiara tra Stato e gruppi armati e all’interno di un’area politica, quella a sinistra del PCI, sempre più magmatica e in crescente stato di crisi anche seguito della diffusione della violenza. L’autore non si nasconde però le rimozioni presenti nella memoria collettiva di questa parte politica, legate al periodo dei servizi d’ordine di Avanguardia Operaia, che invita a collocare nel contesto di escalation della violenza dei primi anni ’70 prodotto della strategia della tensione. È questo un punto dolente nella costruzione della memoria collettiva dell’estrema sinistra, con cui ritengo si debbano ancora fare pienamente i conti. Si tratta infatti di addentrarsi nella questione oscura e complessa della violenza, su cui devono fare luce non soltanto i risultati del dibattito storiografico più recente su periodizzazioni, cronologie e necessari distinguo sui comportamenti e sui fatti avvenuti all’interno dell’area della contestazione in un determinato contesto politico-sociale; ma anche riflessioni di carattere giuridico e morale, sollevate dal bisogno di dare risposta alla richiesta di giustizia avanzata dai parenti delle vittime di una e dell’altra parte politica, coinvolti in una guerra che non avevano scelto, e per altri versi dettate dalla necessità per i protagonisti o per coloro che se ne ritengono legittimamente gli eredi politici di ri-valutare i comportamenti di allora alla luce di una nuova tensione morale tra dover essere ed essere, tra ideologia e condizione umana, tra principi ed esperienza, essendo guidati da un sentimento di com-passione, che, lontano dal contesto di allora, dovrebbe prendere il sopravvento sulla ragione. Ancora a proposito del rapporto tra violenza e mobilitazione mi pare degna di nota la periodizzazione che emerge dal testo di Gambetta, in cui si ribadisce l’importanza del 1969 come data periodizzante, e per la formazione dei gruppi dell’area dell’estrema sinistra e come inizio dell’esercizio di una violenza minuta da collocarsi nel contesto della strategia della tensione che, riconosce l’autore, fece talvolta tenere comportamenti non del tutto giustificati e leggere in maniera distorta alcuni fatti politici. Il secondo tornante della storia politica e sociale del decennio, forse quello più importante, è quello del 1974: che fu l’anno successivo alla crisi economica mondiale del ’73 e che, forse anche come reazione ad essa, l’anno di inizio di una illegalità e una violenza diffusa, come ricordato recentemente in un convegno a Firenze su questi temi – Violenza politica e lotta armata nella sinistra italiana degli anni Settanta, 27-28 maggio 2010 – nel quale sono stati ricordati i fatti di sangue del settembre 1974 avvenuti nel quartiere romano di San Basilio, episodio considerato a tutt’oggi mito di fondazione dell’Autonomia romana. È stato anche l’anno di innalzamento degli obiettivi nella strategia di lotta armata della sinistra, con l’inizio dell’affermazione della leadership di Mario Moretti nelle BR e di un piano di attacco al cuore dello stato e con la nascita dei NAP. D’altra parte fu anche l’anno in cui la società civile italiana, con il referendum sul divorzio, dimostrava di trovarsi in una posizione nettamente più avanzata sul piano dei valori sociali e culturali rispetto alle valutazioni fatte dai partiti. Ed è in riferimento a questo periodo che Gambetta sottolinea l’elevata capacità di alcuni gruppi – Avanguardia Operaia, Lotta Continua, PDUP-PC – di mobilitare larghe fette di conflittualità sociale. Anche secondo la narrazione di Gambetta sembrerebbe che nel triennio ’74-’76 si sia consumata una partita quasi epocale per il sistema politico e la società italiana, su cui hanno agito fattori nazionali e internazionali. E pensiamo a un sistema politico che attraverso i partiti e le loro clientele ha potuto egemonizzare, nel corso di appena due decenni di storia repubblicana, l’attività delle istituzioni e dell’amministrazione dello Stato e su cui evidentemente non hanno potuto agire con sufficiente capacità innovativa le spinte provenienti dalla società civile e dai movimenti. E pensiamo ad una società in cui il ricorso alla violenza era inscritto nella prassi di mobilitazione politica e sociale della storia recente, quale eredità del periodo di insorgenza e affermazione del fascismo e del biennio di guerra civile alla fine del secondo conflitto mondiale.
Tra i pregi del libro si deve infine menzionare quello di offrire un apparato iconografico relativo alla ricca simbologia dei gruppi e delle formazioni politiche protagoniste di quegli anni, debitamente spiegato nel testo. In generale, infatti, nel suo saggio Gambetta si propone di fare chiarezza su concetti, categorie, simboli, immagini e miti utilizzati nell’area politica di riferimento di DP, dando alcune definizioni di sicura utilità. È però su una di queste definizioni che non mi sento di convenire del tutto. Nel primo capitolo del libro l’autore passa in rassegna ed esamina le principali definizioni della cosiddetta «area della nuova sinistra» utilizzate oggi in ambito storiografico e politologico – appunto nuova sinistra, sinistra extraparlamentare, sinistra antistituzionale, sinistra libertaria, sinistra rivoluzionaria ecc. – mettendone in evidenza pertinenza e contraddizioni rispetto all’oggetto da definire. Effettivamente sembrerebbe che in ciascuna di esse si annidi un’aporia o una contraddizione rispetto almeno ad uno dei versanti intellettuali, politici o sociali che intende rappresentare. Ci pare però che sull’uso del concetto di «nuova sinistra» ci siano da aggiungere alcune osservazioni. Se è pur vero che l’aggettivo «nuovo» non rende pienamente giustizia dei numerosi collegamenti che in parte univano le elaborazioni teoriche di quest’area della sinistra negli anni ’70 con alcuni vecchi modelli di inizio secolo, in primis il modello del partito leninista più volte ricordato dall’autore; è del pari vero che in tale espressione tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ‘60 a livello europeo si poté riconoscere una precisa area politica che si poneva in aperto dissenso con i partiti storici della sinistra. Tale area si era sviluppata intorno ad alcune riviste ed era incarnata da alcuni intellettuali di fama nazionale o internazionale. Pensiamo in Italia a riviste come «Ragionamenti», «Quaderni Piacentini», «Nuovi Argomenti» e «Quaderni Rossi» e a intellettuali come Franco Fortini e Raniero Panzieri, in Francia alla rivista «Arguments» animata dai sociologi Edgar Morin e Alain Touraine e dal filosofo Henri Lefebvre, in Germania alla corrispondente rivista «Das Argument» e infine alla «New Left Review» di Soho. A questo gruppo intellettuale e politico, che nel corso degli anni sessanta si costituì in una rete di corrispondenze elettive e relazioni personali di estensione europea, è da attribuire, a mio avviso, legittimamente la definizione di «nuova sinistra» come riconoscimento di un’identità politica storicamente determinata, definitasi cioè nel contesto storico-politico del secondo dopoguerra e in particolare della guerra fredda e questo nonostante le contraddizioni portate dai legami con il passato. Rispetto ad essa i gruppi sorti sulla scia dei movimenti globali dal ’68 in avanti hanno avuto un rapporto di filiazione teorica, ma rispetta ad essa si sono anche trovati di fronte a nuove sfide sociali e politiche, in primis quella portata dai nuovi movimenti sociali o movimenti collettivi, da cui alcuni giovani fecero iniziare la propria militanza politica, come è nel caso del movimento del ’77, senza passare attraverso le elaborazioni teoriche della cosiddetta nuova sinistra. Per questo io ritengo, per motivi però diversi da quelli indicati dall’autore, che il termine «nuova sinistra» non sia idoneo a definire tutta l’area politica a sinistra del PCI negli anni ’70, se non parzialmente, perché lascerebbe fuori alcune esperienze di movimento che non traevano alcuna ispirazione dall’esperienza della nuova sinistra cui si è fatto riferimento e che nascevano da un disagio sociale affatto nuovo con cui le forze politiche e intellettuali sia della sinistra cosiddetta storica sia della nuova sinistra avrebbero fatto fatica a confrontarsi. Detto questo, credo che la disamina dei concetti proposta da Gambetta sia assai utile a fare chiarezza sulla moltitudine di definizioni in uso per l’area politica da cui si generò il partito di Democrazia Proletaria, un partito che, come ci racconta l’autore, fu prevalentemente urbano, settentrionale e poco femminile e, in quanto parte della conflittualità sociale che intendeva rappresentare, non fu mai considerato un valore in sé dai suoi militanti o simpatizzanti, a differenza di quanto facevano gli iscritti del PCI. Tra le definizioni prese in esame da Gambetta vedrei come più pertinente per il periodo preso in esame quella di «estrema sinistra», che, apparentemente generica, sottolineando soltanto l‘aspetto spaziale di una certa galassia di formazioni politiche e non entrando nel merito delle distinzioni teoriche, non lascerebbe fuori nessuno dei fattori politico-sociali emersi nei lunghi anni di protagonismo di questa parte politica. Ma mi pare, come giustamente fa notare l’autore, che la questione della definizione rimanga a tutt’oggi aperta.
Il libro di Wiliam Gambetta, dottore di ricerca esperto di conflittualità sociale, già membro della redazione di «Zapruder» e collaboratore del Centro Studi Movimenti di Parma, è quindi senz’altro da leggere per chi voglia orientarsi nel complesso panorama dei gruppi e delle organizzazioni politiche che contrassegnarono l’area a sinistra del PCI negli anni settanta e soprattutto per chi voglia conoscere la storia di Democrazia Proletaria nella sua fase costituente, tenendo presente che il saggio tende a concentrarsi sulla storia del gruppo dirigente, sui processi decisionali e organizzativi scanditi dagli appuntamenti della politica, riflettendo in questo la concezione prevalente nello stesso gruppo dirigente del partito, quella cioè del «primato della politica» sulla conflittualità sociale.