Sergio Ramirez, "Adios muchachos. Una memoria della rivoluzione sandinista", Fratelli Frilli, pp. 254, Euro 15

Adiós muchachos è la testimonianza diretta di Sergio Ramírez dei fatti che portarono alla nascita e alla crescita del movimento che abbatté Anastasio Somoza nel 1979. Il libro percorre i momenti topici della lotta rivoluzionaria: la clandestinità, la ribellione, gli anni di governo, la guerra con i Contra, le elezioni del 1990 e la vittoria elettorale dell’opposizione. Ramírez racconta i fatti in qualità di testimone privilegiato di quei tempi, in cui il Frente Sandinista cercava di applicare un’utopia ad un sistema di vita. Attorno, ruotano i personaggi della politica internazionale (Fidel Castro, Carter, Reagan, Gheddafi, Margaret Thatcher), ma anche e soprattutto gli autori dell’ultima rivoluzione latinoamericana che aveva saputo dare una speranza.

L'autore: Sergio Ramírez Mercadoè nato a Masatepe, in Nicaragua, nel 1942. Nel 1963 ha pubblicato il suo primo libro, Cuentos, a cui seguirono romanzi e saggi sul mondo latinoamericano. Nel 1977 fondò il Gruppo dei Dodici, formato da vari personaggi della società civile nicaraguense in opposizione al regime di Somoza. Nel 1979, al trionfo della rivoluzione, fece parte della Giunta di governo, per poi essere eletto nel 1984 vice-presidente della Repubblica. Esaurita l’avventura politica, con il suo dissenso alla linea del Frente Sandinista, si è dedicato completamente alla letteratura.
Tra i suoi titoli, pubblicati in spagnolo, tedesco, inglese e francese spiccano i romanzi Castigo divino (Mondadori, 1988), Margarita está linda la mar (Alfaguara, 1998), Sombra nada más (Alfaguara, 2002).
È Cavaliere delle Lettere e delle Arti del governo di Francia. Ha dettato conferenze alle università di Cornell, Maryland, Boulder, Salamanca, Alicante, Poitiers, Montpellier, Madrid. È opinionista di vari quotidiani, tra cui “El País” di Madrid, “El Espectador” di Bogotá e “La Jornada” di Città del Messico.

Introduzione

Todo se quemó en el tiempo. Todo se quemó allá lejos.
Joaquín Pasos, Canto de guerra de las cosas

Nel 1999 il trionfo della rivoluzione sandinista ha compiuto vent’anni, è già passato, però si alza ancora come una marea tumultuosa ai piedi della mia finestra, mi stordisce e mi commuove. Da allora, niente è stato più lo stesso per me. E mi trovo ad affrontare la maturità pieno di ricordi che sempre tornano con questa marea, dicendomi che se fossi nato un poco prima, o un poco dopo in questo secolo delle chimere, l’avrei perduta. E come chi si sveglia da un incubo, mi rendo conto che non l’ho persa. È lì, in tutta la sua maestà, in tutta la sua gloria e la sua miseria, le sue angosce nella mia mente, e le sue allegrie. Come io l’ho vissuta, e non come mi raccontarono che fu.
Bernal Díaz del Castillo scrisse già anziano i suoi ricordi di soldato nel suo ritiro di Santiago di Guatemala perché qualcun altro voleva raccontare la sua vita. Francisco López de Gómara, che non fu mai protagonista delle imprese della conquista del Messico, aveva appena pubblicato la sua Historia general de las Indias, scritta a Valladolid; e allora Díaz del Castillo, per amor proprio, si mise a comporre la sua Historia verdadera de la conquista de la Nueva España.
Non ho imbracciato armi nella rivoluzione, non ho mai portato l’uniforme militare, e nemmeno mi trovo al punto di essere dimenticato per vecchiaia, e nessuno mi sta disputando con un altro libro i fatti vissuti. E più, la rivoluzione è rimasta senza cronisti in questo fine secolo di sogni spezzati, dopo che ne ebbe tanti negli anni nei quali commuoveva il mondo. Solo io conservo nella mia biblioteca più di cinquecento libri scritti in quegli anni, in tutte le lingue. E al contrario di Bernal, è precisamente per l’eccesso di oblio che scrivo questo libro.
Un oblio ingiusto. Nelle liste di avvenimenti che si fanno oggi del Ventesimo secolo, manca la rivoluzione sandinista. Perché si perse e non cambiò in fin dei conti la storia, come noi credevamo che l’avrebbe cambiata, o perché oggi a molti sembra che non ne valse la pena, un impegno che si trasformò in una grande frustrazione ed in una formidabile disillusione. O perché fu prevaricata. Ne valse la pena, in fin dei conti?
La rivoluzione sandinista fu l’utopia distribuita. E così, come segnò una generazione di nicaraguensi che la rese possibile e la sostenne con le armi, ci fu anche una generazione nel mondo che trovò in essa una ragione per vivere e per credere, che nell’ora della guerra dei Contra e dell’embargo degli Stati Uniti combatté per difenderla dall’Europa, dagli Stati Uniti, dal Canada, dall’America Latina, promuovendo comitati di solidarietà, raccogliendo denaro, medicine, utensili scolastici, attrezzi agricoli, scrivendo sui giornali, raccogliendo firme, facendo pressioni sui parlamentari, organizzando marce.
Gente da tutte le parti venne in Nicaragua a fare di tutto, in un’operazione di solidarietà che ha un paragone solo con quella che provocò la causa della Repubblica durante gli anni della guerra civile spagnola, e ci furono nordamericani, francesi, belgi, che persero la vita, assassinati dai Contra, mentre si dedicavano a costruire scuole, a mietere i raccolti, curare, insegnare, nel profondo del Nicaragua rurale durante la guerra. La rivoluzione sandinista alterò i parametri delle relazioni internazionali della Guerra Fredda, e al convertirsi nel tema focale della politica estera degli Stati Uniti durante la presidenza imperiale di Reagan, creò un’immensa solidarietà mondiale che aiutava a difendere David da Golia.
Alla fine di un secolo poco eroico, vale la pena ricordare che la rivoluzione sandinista fu il culmine di un’epoca di ribellione ed il trionfo di una serie di ideali e sentimenti condivisi da una generazione che rifiutò l’imperialismo ed ebbe fede nel socialismo e nei movimenti di liberazione nazionale, Ben Bella, Lumumba, Ho Chi Minh, Che Guevara, Fidel Castro; una generazione che assistette al trionfo della rivoluzione cubana e alla fine del colonialismo in Africa ed in Indocina, e protestò nelle piazze contro la guerra del Vietnam; la generazione che lesse I condannati della terra di Frantz Fanon ed Ascolta, yankee! di Stuart Mill, ed allo stesso tempo gli scrittori del boom, tutti di sinistra, allora; la generazione dei capelli lunghi e dei sandali, di Woodstock e dei Beatles; quella della rivolta nelle strade di Parigi nel maggio 1968 e della strage di Tlatelolco; quella che vide Allende resistere nel palazzo della Moneda e pianse per le mani tagliate a Víctor Jara e trovò, infine, in Nicaragua, una vendetta ai sogni perduti in Cile e anche più in là, ai sogni della Repubblica spagnola, ricevuti in eredità. Era la sinistra. Un’epoca che fu anche un’epica.
E per tutto un decennio, la rivoluzione trasformò in Nicaragua i sentimenti e cambiò la maniera di vedere il mondo ed il paese stesso, perché creò un’ambizione di identità; ritoccò i valori, la condotta degli individui, le relazioni sociali, i legami famigliari, le abitudini; creò una nuova cultura quotidiana; cambiò anche il linguaggio e la maniera di vestirsi ed aprì, soprattutto per i giovani, uno spazio colossale di partecipazione, dando un senso storico alla rottura generazionale con il passato.
Però molti di coloro che lottarono per conquistare il potere prima e per difenderlo dopo, i giovani della generazione della rivoluzione, si videro alla fine doppiamente frustrati, non per la perdita delle elezioni - che sarebbe potuto convertirsi in un male riparabile se, in fin dei conti, perdere appartiene ai parametri della democrazia - ma perché la sconfitta elettorale portò con sé il crollo dei principi etici che sostenevano la rivoluzione, e nel cuore, molti di quei giovani iniziarono a vedere se stessi come la generazione perduta, nati nella disillusione, nello scetticismo e nel rancore. Il mondo cambiava alla fine degli anni Ottanta, sprofondava tutto l’apparato degli ideali, venivano deposte tutte le chimere. Però, in Nicaragua era fatto a pezzi il primo modello reale di cambiamento che il paese avesse mai vissuto, la sua prima possibilità di un futuro a portata di mano.
Perché non era stata solo la rivoluzione vista dal potere che cercava di creare un nuovo ordine con decreti e misure, ma della rivoluzione che si teneva tra la gente, una volta che le dighe erano state rotte ed una nuova forma di vivere e di sentire si faceva possibile. Fu un fenomeno dalla portata istantanea, una forza trasformatrice che straboccò su tutti, riempì spazi che per secoli erano rimasti vuoti e creò l’illusione del futuro, l’idea che tutto, senza eccezioni, diventava possibile, realizzabile, con un disprezzo assoluto del passato. Una marea, un lampo.
Oggi la rivoluzione rimane per molti, dentro e fuori il Nicaragua, tra le nostalgie della vita passata ed i vecchi ricordi, e si evoca come si evocano gli amori perduti; però non è più una ragione di vita. A volte, in casa di amici all’estero, in mezzo ad una cena tra brindisi, suona come un omaggio a me dovuto - e a loro stessi - la musica di quei tempi, le canzoni rivoluzionarie di Carlos Mejía Godoy che ascolto con una tristezza oppressiva, con un sentimento di quello che cercai e non riuscii a trovare, però che continua vivo nella mia vita, e che temo, mentre il tempo avanza, di non trovare mai.
La rivoluzione non ha portato la giustizia anelata dagli oppressi, e non ha potuto creare ricchezza o sviluppo; però, ha lasciato come suo miglior frutto la democrazia, determinata nel 1990 con il riconoscimento della sconfitta elettorale e che come paradosso della storia è la sua eredità più visibile, anche se non la proposta più entusiasmante; e gli altri frutti che continuano lì, inavvertiti, sotto la valanga della déb‰cle che seppellì anche i sogni etici, sogni che, non ho dubbi, torneranno prima o poi ad alimentare un’altra generazione che avrà appreso gli errori, le debolezze e le falsificazioni del passato.
Io ero lì. E, come Dickens nel primo capitolo di Storia di due città, continuo a credere che: “fu il migliore dei tempi, fu il peggiore dei tempi; fu tempo di sapienza, fu tempo di pazzia; fu un’epoca di fede, fu un’epoca di incredulità; fu una stagione di fulgore, fu una stagione di tenebre; fu la primavera della speranza, fu l’inverno della disperazione”.

(scheda di presentazione a cura dell'editore)