Dalla banda dei Quattro alle vittime della repressione in Tibet,
nel volume «L'ombra di Mao» il giornalista colleziona una lunga
serie di svarioni con l'obiettivo dichiarato di relegare il leader cinese
nel pantheon negativo dei più grandi criminali del ventesimo secolo
Uno dei più grandi giornalisti della seconda metà del
ventesimo secolo, da poco scomparso, Ryszard Kapuscinski, in una intervista
del novembre del 1999 affermava: «Se consenti anche a una sola persona
di scoprire che tu menti, che sei stato banale, impreciso o superficiale,
allora avrai perduto». Pensavo, con rassegnata tristezza, a queste
parole, dopo la lettura del libro che Federico Rampini ha voluto dedicare
alla figura di Mao nella Cina di ieri, oggi e domani, sotto il titolo:
L'ombra di Mao. Sulle tracce del Grande Timoniere per capire il presente
di Cina, Tibet, Corea del Nord e il futuro del mondo (Mondadori 2006).
Preso atto di cotanto titolo, mi sono immerso nella lettura e ne ho
derivato alcune domande: perché mai, ad esempio, Rampini afferma
che in Mao «c'è l'orgoglio per la persecuzione degli intellettuali
invisi all'ex contadino autodidatta», visto che Mao era sì
di origine contadina, ma aveva ricevuto una regolare istruzione scolastica
fino a diplomarsi, con voti eccellenti, alla Scuola Normale di Changsha
nel giugno del 1918? Non meno incurante della realtà storica è
scrivere che Mao «non era mai stato all'estero»: mi sento,
infatti, di assicurare Rampini che l'Unione sovietica di Stalin e di Chruscev
era «un paese estero» e, di fatto, Mao vi si recò in
visita ufficiale in due occasioni: la prima, per incontrare Stalin e firmare
con lui quel trattato di amicizia, alleanza e mutua assistenza che avrebbe
permesso alla Cina di avviare, con l'aiuto dei tecnici sovietici, l'industrializzazione
del paese; la seconda, nel 1957, per partecipare alla conferenza mondiale
dei partiti comunisti, nel corso della quale pronunciò il famoso
discorso in cui polemicamente affermava che «il vento dell'est prevale
sul vento dell'ovest», occasione questa che segnò la definitiva
rottura tra Mao e Chruscev.
Man mano che proseguivo nella lettura, il disprezzo che Rampini mostra
della storia si è fatto più evidente: ad esempio quando afferma
che Mao, dopo essersi assicurato l'appoggio di Lin Biao e dell'esercito
- siamo evidentemente agli inizi della Rivoluzione culturale - «userà
le polemiche culturali della famigerata Banda dei Quattro per aizzare contro
il 'quartier generale'del partito le giovani guardie rosse». Ebbene,
agli inizi della Rivoluzione culturale la Banda dei Quattro semplicemente
non esisteva: sarebbe stato proprio Mao a coniare l'espressione «Banda
dei Quattro» (siren ban), il 23 dicembre del 1974 in una riunione
informale tenutasi a Changsha con Wang Hongwen (uno dei futuri «quattro»)
e Zhou Enlai, durante la quale si rivolse a Wang mettendolo in guardia
dalla eventualità di «formare una banda di quattro persone
e di evitare di dar vita a ogni sorta di cricca». Oltre tutto la
dizione «Banda dei Quattro» venne utilizzata dai media cinesi,
e quindi resa nota al paese, solo dopo l'arresto dei quattro avvenuto nella
notte del 6 ottobre 1976. Tutto concorre all'impressione che a dettare
queste duecentonovantuno pagine sia stata una vera ossessione, dalla quale
sarebbe derivata a Rampini la speranza di convincere noi e un miliardo
e trecento milioni di cinesi a relegare Mao «in compagnia di Adolf
Hitler e di Josif Stalin, per formare insieme a loro la mostruosa Trinità
nel Pantheon negativo dei più grandi criminali del XX secolo».
Coinvolto nelle vittime di una tale ossessione c'è anche il
celebre giornalista americano Edgar Snow, autore del famoso reportage Stella
rossa sulla Cina: non soltanto Rampini afferma che questo libro fondamentale
è «irrimediabilmente datato», ma aggiunge che Snow «era
stato plagiato da Mao, ne aveva subito il fascino in modo così potente
che il suo giudizio storico risulta condizionato, tanto da nascondere i
tratti negativi e perfino ignobili del personaggio già ben presenti
fin da allora».
L'enunciato ha dell'incredibile: mi piacerebbe chiedere a Rampini quale
libro sulla Cina del ventesimo secolo pubblicato alla fine degli anni trenta,
non rischi di risultare, oggi, «irrimediabilmente datato» e
anche perché mai si permetta di presupporre un plagio. È
forse in possesso di documenti di tipo psichiatrico che noi non conosciamo?
Se così è, sarebbe corretto farcene partecipi, altrimenti
siamo di fronte a pure illazioni diffamatorie. Non contento di alterare
la storia, anzi di inventarla, Rampini ricorre poi alla matematica al fine
di drammatizzare ciò che racconta, disseminando la storia recente
della Cina di parecchi milioni di cadaveri. Leggiamo che nel corso della
Rivoluzione culturale, quindi nell'arco di un decennio, «il Tibet
fu vittima della campagna più feroce: i comunisti cinesi uccisero
1,2 milioni di persone, un quinto dell'intera popolazione». Ora,
posto che un simile massacro avrebbe comunque proporzioni inaudite, sarebbe
bene tenere conto del fatto che la popolazione del Tibet, in quegli anni,
non raggiungeva i due milioni, e sarebbe dunque stata sterminata quasi
per intero. Ma non basta: «il Grande balzo in avanti» a pagina
9 «provocò dai 20 ai 50 milioni di morti», ma questi
diventano a pagina 12, un «bilancio di 70 milioni di morti».
Mi sembra che limitarsi a ricordare i 10-12 milioni di morti accertati
dai più autorevoli studiosi occidentali avrebbe già restituito
l'entità della tragedia; evidentemente Rampini non li riteneva sufficienti
a indurre l'effetto sperato. Non resta che trarre da questa lettura una
conclusione: Rampini ama «dare i numeri».
Giorgio Mantici, "il manifesto", 15 marzo 2007