"Il secolo dei consumi", a cura di Stefano Cavazza ed Emanuela Scarpelli, Roma, Carocci, 2006, pp. 246, euro 17,10

Questo libro piace perché, fin dalle prime pagine, va contro quello che è ormai un conformismo originario nella sinistra di generazione sessantottina: la critica al consumismo. In compagnia di Marcuse (L’uomo a una dimensione) e di Guy Debord (La società dello spettacolo), e con altri innesti quali le riflessioni di Veblen (La teoria delle classi agiate) e le riflessioni di Horkheimer e Adorno, quella generazione sviluppò un rapporto critico con la società industriale dei paesi occidentali relativamente al fenomeno del consumismo di massa, elemento nuovo e conseguente ad un’impennata nello sviluppo del modo di produzione capitalistico, che aveva le sue origini negli Stati Uniti d’America, ma che negli anni cinquanta e sessanta si affacciò prepotentemente anche nei paesi dell’Europa.
Nel nuovo rapporto che s’instaura tra consumi, stili di vita, pubblicità, produzione industriale e mercato, i giovani sono un gruppo sociale protagonista: molto ricettivi alla moda e all’emulazione dei propri coetanei essi, come scrive Stephen Gundle nel suo saggio, stabiliscono un’interazione insolitamente stretta tra consumo e spettacolo costruito per invogliare al consumo. Ad esempio, quando i cantanti di musica leggera sfoggiavano un taglio di capelli particolare, indossavano vestiti particolari o fumavano determinate sigarette, era molto probabile che i loro ammiratori li copiassero. Non si trattava però solo di un processo a senso unico. I giovani stavano costruendo gruppi e subculture che innovano in termini di stile e creavano modelli e modi di vestire, che i musicisti e i cantanti provenienti da questi ambienti o che volevano rivolgersi ad essi in quanto potenziale bacino di consumatori di dischi e altro, accettavano e diffondevano. Questo per dire che uno dei timori più diffusi dai critici della società dei consumi, quello della manipolazione dei desideri che porta i consumatori ad essere vittime inconsapevoli del sistema di dominio, forse va riconsiderato.
Gli odierni studi sul consumo, di cui il libro è testimonianza, segnano una svolta significativa a livello dell’oggetto di ricerca: si passa dell’attenzione della sfera della produzione, e quindi della visione del consumo come semplice conseguenza dell’aumento della produzione, a quella delle “pratiche connesse al consumo, dei suoi presupposti culturali e delle sue conseguenze sociali e politiche”; i consumi sono considerati come un coinvolgimento sociale e relazionale degli individui “che non è, o meglio non è solo, manipolazione o induzione di desideri superflui, ma è anche realizzazione di aspirazioni ed espressione della propria individualità” (p. 12).
Le premesse strutturali dell’avvento della società dei consumi sono almeno due, una vecchia, l’aumento della produzione in grande serie, con relativa diminuzione dei costi delle merci, e una nuova (nel senso che finora è stata scarsamente presa in considerazione) e cioè l’aumento del tempo libero a disposizione del lavoratore.
La distinzione tra tempo di lavoro e tempo libero nasce solo con la rivoluzione industriale. E’ quando il luogo di lavoro si separa, con la fabbrica, dal luogo in cui si riproduce la forza lavoro e le condizioni dell’esistenza degli individui, la famiglia e la società, che il tempo di lavoro si separa dagli altri tempi della vita. E più il lavoro è faticoso, monotono, poco gratificante, più il tempo ad esso dedicato è vissuto come sofferenza contrapposta al tempo di riposo, di svago, quello dove uno coltiva i propri interessi e la propria creatività. Acquista così valore il tempo libero e le lotte per la riduzione dell’orario di lavoro che costellano la storia del movimento operaio, fino all’acquisizione di quel senso comune, recente e tipico della modernità, per cui tempo libero e vacanza sono due concetti oggi imprescindibili, irrinunciabili, misuratori di status del cittadino in quanto mostrano la sua posizione sociale, il suo benessere.
Il tempo libero come tempo di consumo dunque. Al tema dei luoghi di consumo Emanuela Scalpellini dedica il suo saggio: dalle botteghe, ai primi grandi magazzini delle moderne città ottocentesche, fino all’invenzione americana dei supermercati e la loro evoluzione, la comparsa dei discounts, dei centri commerciali, gli shopping centers. Paolo Capuzzo invece analizza le teorie dei consumi: dal dibattito sul lusso tra sei e settecento in Francia fino, all’indomani della seconda guerra mondiale, alla rivoluzione dei consumi che dagli Stati Uniti muove alla conquista del mondo occidentale.
E’ indubbio che il consumismo e la valorizzazione del tempo libero, come tempo di non lavoro, ha contribuito nelle società moderne a sovvertire strutture microsociali, mentalità, comportamenti e identità generazionali, di genere e di classe.
Nel secondo dopoguerra le culture giovanili hanno trovato un nuovo e intenso sviluppo, assumendo spesso il segno della rivolta e dell’anticonformismo, ma al tempo stesso entrando a far parte della cultura del consumo. Ampi settori di giovani si sono riconosciuti in atteggiamenti e comportamenti, dall’abbigliamento al taglio dei capelli, che destavano sconcerto nelle generazioni più anziane, e riempivano il loro tempo libero con l’ascolto di nuove musiche, la pratica di nuovi balli. Il consumo e il tempo libero hanno assunto rilievo nella stessa definizione dell’età giovanile. “Se, indubbiamente, la variabile lavoro conserva il suo peso e distingue per certi aspetti un giovane universitario da un giovane lavoratore, l’essere giovani influenza però gusti e pratiche del tempo libero di questa classe d’età in misura significativa, distinguendo questo gruppo generazionale rispetto al resto della popolazione” (p. 107).
Roberta Sassatelli, analizzando il consumo e l’uso del tempo libero a secondo del genere, sostiene che maschilità e femminilità sono prodotte e riprodotte, e non solo espresse, tramite il consumo. Inoltre, la sfera dei consumi ha offerto alle donne uno spazio legittimo di azione, ma per lungo tempo le ha anche confinate in questo ambito di azione che è stato spesso costruito, anche per rafforzare la complementarità tra i sessi, in modo speculare alla sfera della produzione, come uno spazio non solo femminile anziché maschile  ma anche privato anziché pubblico, leggero anziché serio, emotivo anziché razionale.
Infine, la stessa lotta di classe, presente nelle società industriali avanzate, che raggiunse l’apice negli anno tra il 1967 e il 1972, alla luce delle considerazioni svolte, andrebbe letta come prodotto non solo della reazione allo sfruttamento del lavoratore dentro le fabbriche, ma anche come elemento indotto da fattori esterni al mondo del lavoro industriale. Soprattutto i giovani operai degli anni cinquanta e sessanta che lottavano nelle fabbriche, risentivano dell’influenza e del richiamo del tempo libero, come luogo di non lavoro e di consumo, da conquistare e strappare al tempo di lavoro, come luogo di costrizione e di illibertà.
Infine, andrebbe considerata una fatica nuova che il tempo libero e dei consumi sta producendo. Accanto alla fatica storica del lavoratore-produttore emerge sempre più, nei moderni luoghi di consumo o di fruizione del tempo libero, la fatica del consumatore: lunghe e snervanti code per attraversare le casse dei supermercati e dei magazzini di vendita (nei quali è facile entrare, ma difficile e faticoso uscire), oppure lunghe e snervanti code di automobili lungo le strade delle amate  e “meritate” vacanze estive o dei fine settimana. Insomma, pare non ci sia scampo: si fatica per guadagnare lo stipendio e si fatica per spenderlo.

Diego Giachetti