Augusto Illuminati, "Percorsi del ‘68. Il lato oscuro della forza", DeriveApprodi, 2007
 

In questo libro agile e acuto gli anni ’60 e ’70 vengono ripercorsi attraverso l’intreccio di ribellione esistenziale, lotta politica e passione musicale.
Cosa tiene insieme il movimento del ’68 e quello del ’77 tra loro così spesso contrapposti? Non certo i ricordi nostalgici dei protagonisti, ancor meno la visione buonista che li pone sotto il segno del rinnovamento e della protesta generazionale. Li accomuna piuttosto il lato oscuro, distruttivo e per ciò stesso ricostruttivo di quelle esperienze. La violenza che li traversa e che, quando non rovescia il vecchio, si volge rovinosamente contro i soggetti che la esercitano. Non a caso il rock più duro ne è la colonna sonora costante.
Perché Illuminati sostiene che la memoria, più che custodita, va riattivata, anche nei suoi aspetti più scomodi, per estrarne elementi utili alla comprensione del presente. Un’intera generazione fu dispersa da terrorismo, repressione ed eroina con il conseguente blocco del ricambio sociale e politico che ha portato alla sclerosi dell’attuale classe politica italiana.
Da quella generazione qualcuno pretende ancora «pentimenti». Al contrario, saggio sarebbe ricevere il nucleo positivo degli errori e delle sconfitte di allora, leggere in quegli eccessi il desiderio di un progetto radicale che è sopravvissuto al disastro e che continua a minacciare gli instabili assetti di un mondo ridiventato conflittuale dopo le delusioni della globalizzazione.

(scheda di presentazione a cura dell'editore)

Prologo

Questa è un’apologia del ’68. Ripercorso da un testimone smemorato, che non vi ha occupato alcun posto rilevante e dunque ha poco da giustificare o rivendicare sul piano personale, al massimo avrà combinato qualche pasticcio, come tanti. Persuaso nondimeno di aver preso parte, in un angolo, a un evento straordinario, di cui a fatica tenta di ricostruire l’insieme, come succedeva allo stendhaliano Fabrizio Del Dongo sperduto nella pianura fangosa di Waterloo.  A quarant’anni di distanza abbiamo toccato il giusto mezzo fra il distacco  storiografico dei posteri e la testimonianza sospetta dei coevi. I
secondi, nella pluralità delle versioni e dei vissuti confermano, appunto, il dato che risulterà più rilevante per gli studiosi futuri: l’impossibilità di ricondurre la sequenza, che il nome ’68 riassume e semplifica, a un’unica linea temporale. Un bel problema di periodizzazione. L’apologia si scosta pertanto sia dall’assunzione autoindulgente di tutto quanto accadde nei due decenni Sessanta e Settanta sia dalla pelosa opposizione di un ’68 buonista a un ’77 criminale, correntemente certificata dalle Procure della Repubblica e dai quotidiani. Tutti hanno fatto il ’68 e più o meno hanno tirato uno spinello.
Innumeri le loquaci deposizioni. Il ’77, invece, Dio ce ne scampi! Come se nel ’68 non ci fosse stata Valle Giulia, le azioni armate negli Usa, come se nel ’77 non fossero fiorite sedute di autocoscienza e idilli ecologici. Fra il  1972 e il 1976 si erano inestricabilmente annodati interventi, sigle, personale, tematiche che con comodo opportunismo vengono scisse sui versanti dell’utopia generosa e dell’infamia terrorista, addensandoli su due anni-simbolo.  La pulsionalità espansiva e la segreta spinta all’autodissoluzione sono quasi inseparabili in tutti quegli anni e qui sta anche una delle chiavi per comprendere certe manifestazioni di violenza, che peraltro ci interessa criticare solo come difetti strategici. La coincidenza con la crisi del passaggio dal fordismo al postfordismo esalta la visibilità e nasconde la
pluralità dei movimenti, mentre la continuità biografica dei protagonisti e narratori occulta la cesura con tonalità e problematiche degli anni successivi, diciamo brutalmente del XXI secolo degli auspicabili lettori.

Meglio rinunciare a opporre i due congiunti flussi eterogenei e tracimanti da un decennio all’altro e constatare piuttosto il loro comune affievolimento e quindi la distanza con quanto di irrimediabilmente diverso verrà dopo: il presente che viviamo e le cui pratiche (dalla politica all’insorgenza e alla militanza) sono ben poco confrontabili. Ormai Palazzo Campana, Valle Giulia, corso Traiano, parco  Lambro, sono «citabili» come Spartaco, Thomas Müntzer, Kronstadt, la colonna  Durruti. Evocativi, da difendere con i denti, inutilizzabili. Second Life per  delusi e nostalgici, spaventapasseri per rievocazioni mediatiche.
Davanti a una scomposizione in correnti che si sovrappongono senza mescolarsi può darsi solo un’apologia di quanto è accaduto e sarebbe potuto accadere, un inventario di saldi e crediti rimasti aperti: per tenerne ferma l’impazienza, per non perdere lo stato d’eccezione intellettuale permanente che allora fu un dato politico e oggi potrebbe valere da approccio storiografico. Il punto prospettico è ambiguo perché non è il luogo né di una sconfitta netta né tanto meno di una vittoria, essendo poco plausibile marcare «giornate» risolutive e in genere vittorie e sconfitte. Che apologia non prenda il significato
dell’equivalente inglese apology: scusa, giustificazione. Anzi: never apologize, never explain. Sterile è il pentimento, utile semmai la correzione.
Tanto più che la vera frattura temporale non è fra ’68 e ’77, ma con gli anni  seguenti, in cui contenuti e riti della politica italiana si sono dispersi – episodio minore entro il grande squasso degli equilibri  internazionali e l’ascesa di inedite contraddizioni interimperialistiche. Ciò nonostante, le categorie con cui pensare il volgere di secolo sono ancora in buona parte quelle elaborate nel tormentoso guado fra ’68 e ’77.