Sofri: io, Pinelli e Calabresi

La notte che Pinelli è il titolo del nuovo libro di Adriano Sofri, in uscita il 15 gennaio da Sellerio (e anticipato dall' Espresso). Originale nell' impianto - una sorta di messa in scena teatrale con i protagonisti indicati in apertura - il volume è sostanzialmente diviso in due parti. Nella prima Sofri ricostruisce la storia del fermo cui fu sottoposto Giuseppe Pinelli, gli interrogatori nella Questura di Milano e gli eventi accaduti dopo la morte dell' anarchico. Nella seconda parte Sofri - che è stato condannato per l' assassinio del commissario Luigi Calabresi - pur respingendo la responsabilità penale, ammette per la prima volta una piena responsabilità morale. «Io ho questo concetto della responsabilità», scrive nelle ultime pagine, «che se qualcuno traduce in atto quel che io ho proclamato a voce alta non posso considerarmene innocente e tanto meno tradito. Ne sono corresponsabile. Solo di quello, del resto, non di altro. Di nessun atto terroristico degli anni Settanta mi sento corresponsabile. Dell' omicidio Calabresi sì, per aver detto o scritto, o per aver lasciato che si dicesse e si scrivesse "Calabresi sarai suicidato"». Sotto forma di monologo rivolto a una ragazza che ha oggi vent' anni, la ricostruzione parte dalla strage di Piazza Fontana, il 12 dicembre del 1969. La strage della "perdita dell' innocenza", come è stata ribattezzata dagli storici. Una bomba esplode nella Banca dell' Agricoltura, a Milano: 17 morti e 88 feriti. «Per le persone di allora era la prima volta», annota Sofri. «C' erano stati degli eccidi, nell' Italia repubblicana, di mafia e di polizia, c' era stata Portella della Ginestra, ma per trovare qualcosa con cui paragonare Piazza Fontana bisognava risalire fino alla guerra mondiale». La Questura di Milano segue la pista anarchica, rivelatasi poi infondata, "pista" che - nel racconto di Sofri - trova un convinto sostenitore in Luigi Calabresi, giovane commissario dell' Ufficio Politico («Su di lui», precisa Sofri, «si credettero e si dissero poi, per partito preso, cose del tutto false»). Il 12 dicembre, di sera, viene condotto "amichevolmente" in Questura un ferroviere di 41 anni, Giuseppe Pinelli, gran lavoratore, "caposquadra manovratori" alla stazione milanese di Porta Garibaldi, animatore del circolo anarchico di Milano, Ponte della Ghisolfa. La storia lo dichiarerà innocente: la notte tra il 15 e il 16 dicembre, il cittadino Pinelli esce di lì morto, per giunta con il sospetto di essere tra i responsabili della strage. Un volo dalla finestra di dieci metri. Cosa è successo durante quella notte, la più controversa della storia repubblicana? Alla fine del volume, Sofri confessa di non sapere con certezza cosa sia accaduto. Ma la sua ricostruzione, fondata su un' ampia mole di atti giudiziari, offre materiali per mettere in discussione la sentenza scritta nell' ottobre del 1975 da Gerardo D' Ambrosio, secondo la quale Pinelli non sarebbe stato spinto dalla finestra, ma sarebbe precipitato in conseguenza di un "malore attivo" («La sentenza di D' Ambrosio fu un rassegnato tentativo di chiudere con il minimo danno»). Pur non persuaso dall' esito dell' inchiesta, su un punto l' autore si dice convinto: quando Pinelli volò dal quarto piano, il commissario Calabresi, come proprio quella sentenza riconobbe, non era nella stanza. Quel che viene fuori da La notte che Pinelli è il ritratto d' uno Stato che nasconde la verità, ostacola la ricerca dei veri colpevoli, cavalca l' illegalità, depista. Numerose le incongruenze nelle testimonianze, l' orario della tragedia che cambia nel corso degli anni, singolare l' atmosfera effervescente nella quale viene annunciata la morte dell' anarchico. Sofri rievoca la conferenza stampa improvvisata nella notte dal questore Marcello Guida, un ex fascista che nel 1942 aveva diretto il confino politico di Ventotene. «Pinelli ci aveva fornito un alibi», disse ai giornalisti, «ma quest' alibi era completamente crollato... Si è visto perduto e dunque... ». Insomma, un suicida confesso. Annota Sofri: «I testimoni presenti rilevarono la strana mancanza di drammaticità nell' atmosfera, anzi quasi una sottile euforia». La moglie di Pinelli, Licia, lo seppe dai giornalisti. Sofri torna anche sul "famigerato" appello pubblicato il 13 giugno del 1971 sull' Espresso e firmato dal meglio della cultura democratica, da Primo Levi a Giorgio Amendola, da Bruno Trentin a Vittorio Gorresio, da Norberto Bobbio a Cesare Musatti. Appello successivamente incriminato per i toni veementi contro il commissario Calabresi, additato ingiustamente come il responsabile della morte di Pinelli. Bobbio avrebbe confessato nei tardi anni Novanta di aver provato "orrore" a rileggere l' intonazione di quel documento, rimarcando tuttavia ancora la sua indignazione nei confronti di chi allora impedì di conoscere la verità su piazza Fontana. Quel documento - ricorda ora Sofri - fu scritto dopo che la Corte d' Appello di Milano aveva accolto l' istanza di ricusazione, chiesta da Calabresi (querelante nel processo contro Lotta Continua) alla vigilia della riesumazione della salma di Pinelli. Scrive Sofri: «Un' opinione pubblica sempre più convinta, dopo un anno e mezzo, che la versione della polizia mentisse e che l' innocente Pinelli non si fosse suicidato, riceve ora una clamorosa notizia: che la magistratura impediva di fare giustizia». Il documento infatti cominciava: «Il processo che doveva far luce sulla morte di Pinelli si è arrestato davanti alla bara del ferroviere ucciso senza colpa». La ricostruzione del "contesto" - questo è un passaggio fondamentale - nulla toglie all' orrore di un delitto che di lì a poco, il 17 maggio del 1972, avrebbe lasciato sull' asfalto, privo di vita, il commissario Calabresi. Una vicenda a cui ha dedicato bellissime pagine il figlio Mario Calabresi, rendendo omaggio a tutte le vittime dimenticate. Anche l' anarchico Pinelli può essere annoverato nella schiera, e il libro di Sofri vuole esserne testimonianza. Pur avendo già ammesso negli anni l' atrocità e la nefandezza della campagna condotta da Lotta Continua contro Calabresi, Sofri ora va oltre, assumendosi la responsabilità morale di quell' assassinio. Anzi, arriva a chiedersi se non vi sia «una somiglianza tra chi credette di far giustizia contro Calabresi e i sicari mafiosi» che assassinarono i poliziotti responsabili delle torture contro Salvatore Marino, un giovane malavitoso barbaramente ucciso dagli agenti nell' estate dell' 85. «La domanda è un pugno nello stomaco», annota in una delle ultime pagine.

Simonetta Fiori, "la Repubblica", 9 gennaio 2009