Piero Fassino, "Per passione", 2003

Gran parte delle lettere indignate che hanno commentato l´uscita del libro autobiografico di Piero Fassino "Per passione" (Rizzoli, Milano, 2003), si sono concentrate soprattutto sulla grossolana liquidazione dell´esperienza di Enrico Berlinguer, e in particolare sulla frase infelice di compiacimento perché la "tragica fine " avrebbe risparmiato "a Berlinguer l´impatto con la crisi della sua strategia politica", o sugli spudorati elogi alla lungimiranza e "modernità" di Craxi, cioè sulle parti anticipate largamente da settimanali e quotidiani. Ma il libro merita di essere letto tutto. Intanto è scritto bene, e se è veramente la stesura è di suo pugno, bisogna ammettere che gli elogi di Fassino al liceo dei gesuiti in cui ha studiato sono fondati, anche se ovviamente non si può condividere che in base alla sua esperienza in quella scuola "in grado di dare un´educazione di qualità", egli esalti oggi il "coraggio" di Luigi Berlinguer nel prendere provvedimenti "in favore di una equità di trattamento" tra scuola pubblica e privata, e rivendichi il suo personale impegno per far superare alla sinistra i "pregiudizi manichei nei confronti delle scuole religiose". (p. 21)
Le prime cinquanta pagine sono comunque di scarso interesse politico, se non per la orgogliosa rivendicazione della formazione in una famiglia "di media borghesia produttiva", con tradizioni partigiane  e socialiste anche dei nonni.
Fassino, lasciando gli studi, comincia presto la sua ascesa nell´apparato della Fgci: è "tenuto a battesimo" da Giancarlo Pajetta, di cui tesse un elogio un po´ retorico, concludendo però che "da antico e tenace combattente, non volle mai arrendersi all´idea, che si è dimostrata inesorabilmente vera (sic!), che il comunismo fosse incompatibile con la libertà e la democrazia". Fassino commenta che "il destino talora rispetta gli uomini forti e le storie tragicamente grandi e ha voluto risparmiare a Pajetta la pena di assistere alla crisi irreversibile e al crollo di quel mondo con cui egli aveva identificato se stesso". (p. 50). Tenuto conto di quanto scrive poco dopo sulla morte di Berlinguer, si direbbe proprio un´idea fissa di Fassino che sia una "fortuna" morire prima della verifica del fallimento della propria strategia! A lui comunque, non è stata concessa...
Della sua ascesa come brillante quadro intermedio a Torino egli ricorda soprattutto le amicizie indistruttibili con giovani rampanti come Nando Adornato e Giuliano Ferrara, verso i quali ribadisce ancora oggi tutta la sua stima nonostante i successivi approdi berlusconiani.
Con Ferrara lavora per ben otto anni, e gli perdona tutto. A parte i famosi questionari, che dovevano trasformare gli operai in delatori, di cui sembra che egli fosse non meno responsabile, Fassino è indulgente perfino sul modo con cui "Giuliano" (come lo chiama affettuosamente) rompe con il partito: inscena una piazzata schiaffeggiando pubblicamente l´assessore alla cultura torinese Balmas da cui ha preteso "in modo brutale e sbrigativo" che Luciano Berio dedichi ai palestinesi massacrati a Sabra e Chatila il concerto per la pace che stava per dirigere in piazza San Carlo, la sera stessa in cui cominciavano ad apparire sui telegiornali le prime immagini del massacro (né l´assessore né il musicista le avevano viste, e probabilmente se la questione fosse stata posta altrimenti non avrebbero avuto obiezioni). In realtà l´obbiettivo di Ferrara era solo una spettacolarizzazione della rottura col partito (lo schiaffo finisce il giorno dopo in prima pagina su "la Stampa"), dato che Ferrara aveva da tempo deciso di andarsene per ben altre e sostanzialmente opposte ragioni: non condivideva la tardiva correzione di linea con cui Berlinguer aveva messo fine alla politica di solidarietà nazionale. (p. 142)
Fino al 1980 gli episodi ricostruiti non sono essenziali: c´è al massimo un ricordo di una battuta (verosimile e comunque fondatissima) di Bertinotti sul palco del comizio che festeggia il trionfo elettorale del Pci a Torino nel 1975. Guardando le centomila persone in festa, Bertinotti avrebbe commentato che ora cominciavano i problemi, "perché abbiamo raccolto un consenso elettorale molto più largo del consenso sociale che dobbiamo rappresentare". (p. 56) Fassino non solo non capisce in quel momento quanto sia lungimirante quella predizione (in pochi anni il Pci comincerà a perdere voti proprio nella sua base sociale tradizionale, senza riuscire a consolidare le aree che l´hanno votato per la prima volta), ma molti anni dopo, durante la crisi del 1998, riferirà quell´episodio a Prodi per convincerlo dell´inutilità di tentare ancora un accordo con il Prc, tenuto conto di quella che a lui sembrava la conferma di un´assurda "incomprensione della politica" da parte di Bertinotti.
È interessante che Fassino, che è stato per molti anni responsabile fabbriche della federazione del Pci, prima di diventarne segretario, non ricordi che in pochissimi accenni marginali Bertinotti, che pure era iscritto al suo stesso partito e rivestiva la carica di segretario regionale della Cgil nel 1980, ed era per giunta uno dei principali esponenti di una concezione più radicale della politica del sindacato e del partito. Fassino non lo nomina neppure quando ricostruisce le linee che si contrappongono nel partito durante la crisi della Fiat del 1979-1980. Eppure ne aveva parlato in una lunga intervista rilasciata nel 1983 alla rivista del Pci torinese, non pubblicata forse per la brutale franchezza con cui descriveva lo scontro interno durante i 35 giorni (un simpatizzante la portò poi a "Bandiera Rossa", che la pubblicò integralmente nel numero 8/9 del 1990, tutto centrato sul bilancio dei 35 giorni a un decennio di distanza). Ma allora evidentemente Bertinotti si poteva ancora nominare, era solo un sindacalista un po´ estremista, non il segretario di un partito concorrente...
Ci sono invece nel libro diversi accenni ai buoni rapporti "di dialogo e reciproco rispetto" con l´avvocato Agnelli, principale sostenitore di una "convergenza tra sinistra e impresa". (p. 58), e anche spudorate ammissioni su "ripetuti contatti informali con Romiti e i suoi collaboratori" durante i 35 giorni, ovviamente alle spalle dei lavoratori. (p. 125).
Le pagine dedicate alla Fiat sono parecchie, anche se non moltissime. In esse si conferma quello che i lettori di "Bandiera Rossa" sapevano già dopo la pubblicazione di quell´intervista nel 1990: Fassino era pienamente consapevole della profonda divaricazione tra le aspirazioni e i bisogni di quella che era ancora la sua base e le concezioni del gruppo dirigente del partito. Lo ammette ad esempio quando ricostruisce la lotta del 1979 alla verniciatura: il problema per Fassino non è il padrone ma il sindacato, "per l´incapacità di venire a capo di quella situazione" battendo le "tendenze minoritarie ed estremistiche", e che invece "proclama uno sciopero di protesta" contro i licenziamenti....(p. 100). Naturalmente lo sciopero fallisce, osserva Fassino, senza ammettere che una delle ragioni della sconfitta è che il gruppo dirigente del partito e di gran parte della Cgil rema contro.
Fassino si richiama a Giorgio Amendola come ispiratore (era anche il punto di riferimento di Cossutta in quegli anni), ammirando "il suo caratteristico stile franco e un po´ ruvido" con cui mette "i piedi nel piatto". Si riferisce soprattutto a un articolo di severa critica al sindacato apparso il 9 novembre 1979 sul n. 43 di "Rinascita". L´errore del sindacato secondo Amendola e Fassino, è non aver denunciato "immediatamente il primo atto di violenza" (cioè i picchetti o i cortei interni!), mentre "l´errore dei comunisti è quello di non aver criticato apertamente, fin dal primo momento, questi comportamenti, per una accettazione supina dell´autonomia sindacale e per non estraniarsi dai cosiddetti movimenti, abdicando così alla funzione, che è propria del Pci, di forza egemone della classe operaia e del popolo". (p. 102) Un bel concentrato di arroganza staliniana (il diritto per investitura divina ad essere "forza egemone", indipendentemente da qual che vuole la classe operaia), e di disprezzo per i "cosiddetti movimenti" (mi sembra di aver udito in tempi recenti critiche saccenti di questo tipo anche nel nostro partito...).
Inoltre Amendola, apprezzato per questo ancora oggi da Fassino, denunciava il sindacato per "aver avanzato rivendicazioni ingiustificate e incompatibili con le esigenze della produzione" e anche per aver "concorso a una linea assistenzialista e antiproduttiva". Ma Fassino, riprendendo Amendola come un mentore purtroppo inascoltato, dimentica che gli aveva allora risposto efficacemente Giorgio Bocca osservando che lo stesso Amendola non aveva fatto le stesse denunce negli anni precedenti, nei quali la politica sindacale non era stata elaborata a tavolino, ma sotto la minaccia di perdere il controllo di settori non trascurabili di classe operaia!
Quando arriva a parlare della lotta alla Fiat, Fassino si dilunga in polemiche con chi non credeva alla natura economica della crisi e quindi dei licenziamenti, e insiste sul fatto che i 14.500 licenziamenti non erano politici come quelli del dopoguerra o del 1955-1956 (ma si contraddice subito ammettendo che ancora pochi mesi prima la Fiat aveva assunto sette-ottomila nuovi lavoratori). Fin dall´inizio comunque egli non crede alla possibilità di vincere e si impegna per far passare la proposta di cessare il blocco dei cancelli sostituendolo con una "lotta articolata" che in quel contesto sarebbe stata solo una fuga dallo scontro politico.
Egli ricostruisce poi a modo suo l´arrivo di Berlinguer, polemizzando (facilmente!) con chi sosteneva che sarebbe andato a Torino "per cavalcare la lotta e per inasprirla". (p. 116) Gli abbiamo chiesto di venire alla Fiat, spiega, "non già per spingere alla radicalizzazione, ma perché con la sua autorità politica e morale, dia al movimento la certezza di non essere solo, inducendolo a maggiore responsabilità e maturità nella lotta." (p. 115). Cioè, nelle intenzioni di Fassino, a lasciare i cancelli e rientrare in fabbrica.
La ricostruzione delle circostanze in cui Berlinguer, sollecitato da un delegato che gli chiede che farebbe il Pci se i lavoratori decidessero di occupare, pronuncia la famosa frase sull´eventualità dell´occupazione, è molto dettagliata:
"È importante che i lavoratori non si dividano - dice Berlinguer, dopo alcuni lunghi attimi - e che le forme di lotta siano sempre decise insieme ai sindacati. Nell´eventualità di un inasprimento delle lotte, comprese le forme di occupazione, a decidere dovranno essere democraticamente i lavoratori e i sindacati. E se si giungerà a questo, il Pci metterà a disposizione il suo impegno politico, organizzativo e di idee".
Fassino, che a quanto pare dai gesuiti non ha imparato solo a scrivere in buon italiano, fornisce subito dopo la sua interpretazione: "Come si vede, Berlinguer non dice: occupate la Fiat. Peraltro non dice neanche che l´occupazione è un errore". A quanto pare ciò dispiace a Fassino, che però si consola aggiungendo: "Ma sapendo che i sindacati non proclameranno l´occupazione, affermare che le forme di lotta devono essere sempre decise con i sindacati equivale a sostenere una linea che non porterà all´occupazione". (p. 117) Insomma Fassino attribuisce a Berlinguer la propria ipocrisia, ignorando la complessità della situazione, con la forte suggestione esercitata sul segretario del partito comunista dalla presenza di una grandissima folla operaia raccolta davanti ai cancelli e che manifesta una chiara volontà di lotta ma anche una grande fiducia in lui, come ha invece magistralmente e dialetticamente ricostruito Raffaello Renzacci nel suo "Lottare alla Fiat" (nel libro "Cento... e uno anni di Fiat", Massari, Bolsena, 2000, pp. 95-98).
Ma perfino Fassino è costretto ad ammettere subito dopo che nella posizione assunta da Berlinguer c´era un´ambiguità "determinata dallo scontro frontale in atto. Berlinguer vuole far giungere il messaggio che il Pci è con gli operai. E inoltre che il fallimento della strategia di solidarietà nazionale e della politica dell´Eur non va imputato a un «tradimento». La crisi della solidarietà nazionale ha infatti logorato anche il rapporto di fiducia di molti lavoratori con il partito e con il sindacato, e lo slogan «Torino come Danzica» è l´espressione di una diffusa diffidenza verso i vertici sindacali, a cui una parte dei lavoratori rimprovera atteggiamenti troppo remissivi".
L´ammissione è importante, soprattutto perché Fassino non può nascondere che la politica di sacrifici varata da Cgil, Cisl e Uil nell´assemblea dell´Eur, di cui ha parlato molto favorevolmente poco prima (pp. 81-82), in realtà è fallita e ha provocato sconcerto tra i lavoratori. Possibile che non gli ritorni in mente l´osservazione di Bertinotti dopo il successo elettorale del 1975, e non gli venga il dubbio che avesse ragione lui?
Sulla ricostruzione della lotta del 1980 Fassino è comunque molto più reticente che nell´intervista che abbiamo ricordato, in cui veniva incalzato da chi gli poneva le domande, che conosceva bene la situazione: in quel caso aveva ad esempio tentato di parlare dei 40.000, ma aveva dovuto subito ammettere che erano 20.000, mentre qui rilancia tranquillamente la cifra mitica che era stata tirata fuori solo in un secondo tempo dai burocrati della Cgil mentre tanto la Questura che la prima tiratura de "La Stampa" avevano parlato di 15.000 o 20.000.
Lo ha ammesso proprio su "la Stampa", in occasione della morte di Gianni Agnelli, lo stesso Arisio che aveva capeggiato la famosa marcia: aveva rievocato l´episodio raccontando che incontrandolo pochi giorni dopo l´Avvocato gli aveva chiesto se erano davvero 40.000, e lui aveva detto che no, ma che dato che lo aveva detto Lama non poteva certo smentire...
Interessante poi l´ammissione di Fassino sullo scarso entusiasmo con cui la maggior parte del gruppo dirigente del Pci (compreso lo stesso Lama) accolse la pressione dal basso (da parte di centinaia di consigli di fabbrica "autoconvocati") per il referendum abrogativo del decreto di Craxi che cancellava 4 punti di scala mobile. Fassino si giustifica dicendo che molti operai del Pci gli dicevano che quattro punti non significavano molto, erano appena 26.000 lire, e lui si trovava d´accordo. Ma non si accorge che quegli operai "fedeli alla linea" pensavano così solo perché il grosso dei burocrati di partito e della Cgil non spiegavano che una volta intaccato il meccanismo, sarebbe stato più facile cancellarlo del tutto, come infatti avvenne!
D´altra parte Fassino racconta tranquillamente che nella segreteria del Pci si era pensato di bloccare il referendum, nella convinzione che si sarebbe inevitabilmente perso, ma era prevalsa poi la linea (che a lui pare "conservatrice") che riteneva di non poter "revocare un impegno assunto da Berlinguer" per timore che "un cambio di rotta venga vissuto come il tradimento di un lascito morale".
"E così. - ancorché senza convinzione - nell´estate ´84 il Pci si impegna a raccogliere le firme (...) con la rassegnata consapevolezza di una battaglia inevitabile, ma destinata a non essere vincente, come infatti non sarà". (p. 157-158)
Fassino sorvola sul piccolo particolare che il referendum fu perso di stretta misura (ebbe il 47% dei voti), e che quella sconfitta fu dovuta anche e soprattutto alla scarsa convinzione con cui il referendum veniva difeso dai vertici sindacali. Lo stesso Lama fece una mediocre figura in Tv di fronte al suo vice segretario Ottaviano Del Turco, nettamente ostile, e diede forfait alla vigilia di importanti comizi come quello in piazza della Signoria a Firenze, che raccolse 85.000 persone, forse preoccupato perché in quella città era forte e ben organizzato il movimento dei consigli di fabbrica autoconvocati.
Si capisce insomma che Fassino condivideva le ragioni di Craxi (che chiama spesso affettuosamente Bettino) su quasi tutto. "Craxi interpreta le domande di dinamicità di una società che cambia e chiede alla politica di stare al passo. il Pci invece vede nei cambiamenti un´insidia". Il commento successivo è quasi incredibile: "Mi ha sempre colpito - scrive Fassino - l´inspiegabile contraddizione per cui la sinistra nasce su un´intuizione di Marx - il movimento è il motore della storia - ma poi guarda spesso con timore e ostilità a tutto ciò che si muove". (p. 156) I cambiamenti e i movimenti vanno sempre bene? Ma in che direzione vanno? Verso nuove conquiste o verso una pesante restaurazione del potere della borghesia? Fassino non se lo chiede neppure. Il movimento è bello...
Fassino tuttavia una volta dissente da Craxi quando questi gli dice, pensieroso, una cosa sacrosanta a proposito del referendum per la preferenza unica: vi sbagliate, vi mettete nelle mani di questi (come Mario Segni) "che sono l´antipolitica, che vogliono distruggere i partiti!". Craxi aggiunse profeticamente "vi illudete di cavalcarli, ma ne sarete travolti. Adesso ce l´hanno con me, ma quando mi avranno tolto di mezzo, poi se la piglieranno anche con voi". Insomma proprio quando Craxi ne dice una giusta, a Fassino non va bene! (p. 262)
Ci sono molte altre ammissioni nel libro: Fassino considerava un errore eleggere Natta come successore di Berlinguer: era secondo lui un segno di continuità Voleva invece Lama, che avrebbe saputo dare subito una bella sterzata a destra...
Di Lama aveva apprezzato molto la durezza con cui durante i 35 giorni aveva respinto le suggestioni dell´esempio di Danzica e il "mito della lotta a oltranza", escludendo che si potesse giudicare l´accordo concluso come negativo. (p. 128). La fuga dei dirigenti sindacali prima del voto nell´assemblea dei delegati al cinema Smeraldo viene presentata ancor oggi da Fassino in questi termini: "Il clima di scoramento e di esasperazione non consente una vera discussione. Soltanto l´impegno di alcuni delegati e dirigenti sindacali più generosi e avveduti impedisce alla riunione di degenerare". Bella ipocrisia. il dibattito è andato avanti per dieci ore, ma andandosene i dirigenti lo hanno dichiarato concluso e non ne hanno rispettato le indicazioni votate praticamente all´unanimità.
Va detto che neanche due mesi dopo Fassino, di ritorno dall´Irpinia terremotata, deve ammettere che anche a Torino si trova di fronte delle macerie, quelle "del conflitto alla FIAT". Contrariamente a quanto è stato detto ai lavoratori nelle caotiche assemblee, c´è stata "una sconfitta dura , che intacca la nostra forza organizzativa e politica e che ci costringe a una spietata analisi sui motivi di quella rotta". Se ne accorge un po´ tardi! (p. 138)
Comunque il "conservatorismo" aveva portato alla segreteria Natta e non Lama. Era mal sopportato per la formazione marxista, e persino per la sua cultura: "di primo acchito ero catturato - scrive Fassino - per il piacere intellettuale di sentire il discorso fluire, snodarsi e allinearsi come un meccanismo regolare, senza inceppature o anacoluti; ma poi a un certo punto, tra me e me dicevo: «Certo la gente non parla più così». E mi chiedevo se proprio questo non fosse un segno della nostra difficoltà a rappresentare la realtà". (p. 169).
Fatto sta che appena Natta nel 1988 viene colto durante un comizio da un malore (non gravissimo, da cui si è ripreso poi benissimo), i giovani leoni (Fassino, Occhetto, D´Alema, ecc.) incaricano il vecchio Tortorella di convincerlo a dimettersi. Prenderà il suo posto il "destrutturatore" Occhetto. E presto ci sarà la Bolognina, che elimina una anomalia che dura da troppo tempo. Fassino la sintetizza così: "Il dado è tratto. Provo grande emozione, inquietudine per il futuro, ma anche sollievo, perché siamo finalmente riusciti a mollare gli ormeggi." D´altra parte, conclude, "da molti anni il Pci di «comunista» ha solo il nome". (p. 188).

Quasi la metà del libro di Fassino è dedicato alle sue esperienze internazionali, dapprima come dirigente del partito, poi come sottosegretario e come ministro.
Dopo qualche resoconto dei primi viaggi fatti quando ancora c´era il Pci, Fassino descrive i contatti con la socialdemocrazia per preparare l´accettazione del Pds all'interno dell'Internazionale socialista, contatti per cui egli aveva una specie di incarico di plenipotenziario, oltre che la responsabilità formale di dirigente del dipartimento internazionale.
Un plenipotenziario che poteva decidere da solo perfino di non informare il segretario del partito (allora Occhetto) di una situazione delicata che si era creata per gli ostacoli frapposti da Craxi all´entrata a pieno titolo del Pds nell´Internazionale socialista di cui era vicepresidente. (p. 328)
La descrizione dei colloqui e delle amicizie stabilite con diversi esponenti della socialdemocrazia europea è prolissa e meno interessante di altre parti del libro. Tuttavia rivela altri episodi di cinismo. Ad esempio per ottenere l´appoggio di tutte le organizzazioni sioniste che fanno parte dell´internazionale, Fassino si sbilancia in un appoggio totale e indiscriminato a Israele (riprendendo una politica già portata avanti da Giorgio Napolitano). Un intero capitolo ("Con i figli di Abramo") è dedicato a questo, con tante ammissioni di contatti positivi non solo con i leader laburisti, ma anche con noti assassini come Shamir o Netanyahu (che chiama col diminutivo affettuoso Bibi), o con l´ambasciatore a Roma Avi Pazner, un super falco che oggi è portavoce di Sharon. (p. 244)
In mezzo, rifritte, vecchie banalità sui mitici kibbutz, che da decenni non esistono più nella forma in cui erano nati, e che continuano ad essere spacciati per socialisti anche se fin dal 1967 hanno sfruttato manodopera palestinese sottopagata (poi sostituita con altri immigrati ugualmente discriminati). La proposta politica "equilibrata" di cui Fassino si fa portatore consiste nell´auspicare che Israele "prenda iniziative che diano certezza alla creazione di uno Stato palestinese indipendente" (dove? su quali parti dei territori usurpati? con quali prerogative? a Fassino non interessa, si affida al buon cuore di Sharon, invece di pensare alle possibili pressioni europee per imporre una vera trattativa paritaria). Invece Israele deve avere qualcosa di molto concreto: "che i palestinesi rinuncino alla pretesa (sic!) del ritorno in massa dei profughi, che minerebbe l´esistenza dello Stato ebraico".
Va detto che non è il solo Fassino a concepire questa politica dei due pesi e due misure, bensì l´intero partito.
Invece è proprio lui, entusiasta, a descrivere i suoi incontri con "i grandi del mondo", tra cui bizzarramente colloca anche Carlo d´Inghilterra. (p. 221). Tra le persone di cui si vanta di aver vinto le diffidenze stabilendo ottimi rapporti c´è perfino Benita Ferrero Waldner, ministro degli Esteri austriaco, del partito di Haider...
Con Renato Ruggiero, negli anni in cui è stato direttore del Wto, Fassino dichiara che "scatta subito una simpatia umana, resa più forte dal comune modo di guardare alla globalizzazione". Per questo, quando Ruggiero finisce il suo periodo al Wto, Fassino lo propone  a D´Alema come presidente dell´Eni. Si vanta anche di aver convinto lui Ruggiero ad accettare di entrare come ministro degli Esteri nel governo Berlusconi, perché c´era bisogno di una "destra credibile". (p. 335). Adesso si capisce meglio perché i Ds si sono tanto impegnati in difesa di Ruggiero quando è stato fatto dimettere da Berlusconi.
Comunque Fassino è orgoglioso di aver partecipato come capodelegazione alla conferenza di Seattle (ovviamente non tra i contestatori, di cui non parla neppure), e di aver stabilito da allora un´amicizia duratura con Pascal Lamy, commissario europeo al commercio estero, quello che ha recentemente rappresentato la Ue a Cancun... (p. 338).
A volte si confonde un po´, e quando dovrebbe parlare al congresso del Pt davanti a Lula finisce non si sa come a discutere col presidente neoliberista del Brasile Cardoso; il racconto del disguido è in realtà un po´ vago, e lascia sospettare che egli se ne sia andato invece intenzionalmente dal congresso per evitare le contestazioni di "una turba di estremisti" dell´ala trotzkista del Pt, lasciando il compito di parlare a una giovane collaboratrice non molto esperta, Anna Serafini, che sarà subissata dai fischi. Fassino ci assicura poi confidenzialmente che per consolare la sua collaboratrice che aveva preso i fischi indirizzati a lui, le offrì una "cena riparatrice" in un ristorante in vetta a un grattacielo, al termine della quale i due ballarono "un romantico valzer" che sarà "galeotto": un anno dopo Anna e Piero si sposarono...
Lasciamo da parte le chiacchiere e i pettegolezzi (nel libro ce ne sono molti altri, ma ovviamente non servono a niente). Ci sono invece ammissioni interessanti: sui Balcani Fassino conferma che il governo Prodi si consultava sistematicamente con gli Stati Uniti, che dicevano esplicitamente al governo italiano cosa fare, ad esempio in Slovenia (p. 286 e 295). Naturalmente l´Italia aveva concretissimi interessi nell´area, ad esempio la realizzazione del famoso "corridoio n. 5" e l´acquisizione di numerose banche come la Pekao polacca, la Bulbank bulgara, e altre in Croazia, Slovacchia, Ungheria e Repubblica ceca (pp. 229-230). Al tempo stesso Fassino, passando per Trieste, va (primo tra i dirigenti DS) a rendere omaggio ai "martiri delle foibe", avallando la versione della destra che ingigantisce quegli episodi. (p.296).
Sull´Albania poi le ammissioni di interferenze politiche (perfino sulla composizione del governo) sono numerose, anche se a volte oltre a Fassino, Prodi e Dini andarono di persona a Tirana per "convincere i leader albanesi". Oltre alle promesse di "consistenti aiuti economici", il governo Prodi "mise in campo la missione Alba" con una "presenza multinazionale di settemila uomini, di cui cinquemila italiani". (pp. 306-307) Tutto a posto, l'Albania fu salvata, l'invasione dei barbari evitata...
Molte pagine sono dettate dalla preoccupazione di rispondere alle accuse sull´acquisizione della Telekom serba: non tanto quelle di Igor Marini sulle tangenti (poco documentate e verosimilmente pompate o frutto di qualche interessata "imbeccata") ma quelle sul "cattivo affare". Ma la prende alla lontana, insistendo sulle sue consultazioni quasi quotidiane con l´ambasciata degli Stati Uniti, e attribuendo all´intera "comunità internazionale" (ma precisa subito dopo: "in primo luogo Stati Uniti ed Unione Europea"), la volontà che l´Italia svolgesse un´azione "per la stabilizzazione democratica della Federazione Jugoslava" (p. 308).   Ovviamente non risponde alle richieste di spiegazione sulla scarsa redditività dell´affare, perché non ha il coraggio di dire che il prezzo dell´acquisto era quello corrente in quel periodo di sopravvalutazione della New Economy, e quello di vendita era determinato dal crollo generalizzato di quel settore, aggravato dalla distruzione degli impianti serbi con i bombardamenti fatti dalla stessa aviazione italiana...
Bombardamenti a proposito dei quali va detto che Fassino non ha cambiato idea e che rivendica al 100%, naturalmente con gli argomenti mistificanti usati già allora: dovevamo aiutare quelle popolazioni, anche per evitare che venissero da noi... Quindi l´Italia non poteva "sottrarsi alla responsabilità di fermare quel nuovo conflitto anche ricorrendo ad azioni militari". Come sono state efficaci le lezioni del liceo dei gesuiti!
Fassino oltre alla guerra del 1999, giustifica e difende anche quella in Afghanistan, votata dalla maggioranza dei Ds nonostante non fossero più al governo. Riprendendo quanto dichiarato da D´Alema motivando alla Camera il voto favorevole all´intervento, Fassino parla così del "travaglio di fronte alla scelta di ricorrere all´uso della forza":
"Una organizzazione di sinistra non può che essere per la pace  e contro la guerra e battersi perché i conflitti siano risolti con il negoziato e il dialogo. È la destra a pensare che il ricorso alle armi sia il mezzo ordinario di risoluzione delle controversie. Nel Novecento alle armi sono ricorsi il nazionalismo e il militarismo. E tuttavia, in quello stesso Novecento, anche la sinistra è stata capace di prendere le armi e combattere quando in gioco c´erano valori fondamentali: per la democrazia in Spagna; per la dignità dell´uomo e la libertà durante la Resistenza; per l´indipendenza in Algeria". (pp. 404-405)
Si direbbe che l´insegnamento scolastico dei gesuiti, se gli è servito (forse) per l´italiano, e sicuramente per la capacità di presentare una guerra come un´operazione umanitaria, non lo ha aiutato nella conoscenza della storia: senza soffermarsi sulla banalizzazione della guerra civile spagnola e della resistenza, si potrebbe ricordare a Fassino che solo una piccola parte della sinistra francese era contro la guerra di Algeria, mentre i suoi compagni di allora (il Pcf) e di oggi (i socialisti) la giustificavano o la conducevano direttamente col governo Mollet.
Ma nel libro ci sono spesso altre tracce di ignoranza della storia, ad esempio quando presenta la scomunica di Tito da parte di Stalin come una scelta di Tito, "incoraggiato in questo da  inglesi e americani". (p. 288)  O, invece di ignoranza, si deve in questo caso pensare ai residui di una formazione stalinista, inconfessata ma non meno reale?
Quanto alla ragione principale addotta a proposito dell´intervento in Jugoslavia (necessità di fermare una possibile "invasione" di persone in fuga da un conflitto incon-trollabile se non con la forza delle armi), nel libro ci si ritorna più volte: Fassino è indignato constatando che oggi "si cerca di convincere l´opinione pubblica che il centrosinistra sarebbe stato passivo di fronte all´immigrazione", e rivendica i suoi molti impegni per bloccare il fenomeno. (p. 315)
Fassino rivisita tutti i grandi nodi di questi anni, in cui ci siamo trovati su sponde opposte, esaltando il proprio ruolo. Ad esempio accenna al caso Ocalan solo di sfuggita, per spiegare che egli è riuscito a tenere aperti positivamente i rapporti con la Turchia perché era stato impegnato a fondo da anni per "non isolare la Turchia", ed è stato quindi considerato internazionalmente come "filoturco". Bravo, complimenti!
Un'ultima considerazione sul ruolo politico rivendicato da Fassino, "ruolo riconosciuto anche dall´ambasciata degli Stati Uniti", con cui ci sono stati "continui contatti". Subito dopo la formazione del Pds  ad esempio, Fassino aveva organizzato una colazione di Occhetto con l´ambasciatore Peter Secchia a Villa Taverna, e subito dopo la sua sostituzione con Reginald Bartholomew, aveva accolto quest´ultimo con una lettera di  benvenuto in cui esprimeva "la piena disponibilità a ogni forma di collaborazione". Bartholomew gli ricorderà più volte negli anni successivi "il positivo stupore con cui ha ricevuto quella missiva". (p. 234)
Noi invece siamo stupiti per questa ed altre rivendicazioni di filoamericanismo militante e ci domandiamo come sia possibile che oggi si proponga al Prc di stabilire un accordo con questi signori, assicurando che sarebbero cambiati. Il libro di Fassino è di quest´anno!
Va detto che anche D´Alema ha ribadito concezioni analoghe in un´intervista a "la Stampa" del 16 settembre 2003, commentando la pubblicazione a puntate di un´inchiesta della Cia sul Pci degli anni settanta, che ne elogiava la politica e auspicava il suo rafforzamento ("l´Italia sarebbe in condizioni molto peggiori se i comunisti fossero rimasti all´opposizione"). D´Alema è lusingato da quegli apprezzamenti sul Partito comunista (che in quegli anni non dirigeva ancora, il segretario era Enrico Berlinguer). Su quei documenti ritorneremo, quando la loro pubblicazione sarà completata, ma va già  segnalato che D´Alema è molto ammirato per la "raffinatezza" dell´analisi, che trova acuta e poco propagandistica: "La verità è proprio che il Pci ha continuato a usare un linguaggio che mascherava l´innovazione piuttosto che enfatizzarla. In Berlinguer era molto forte il timore di una rottura organizzata dai sovietici. Per cui era molto più critico dell´Urss nella sostanza che nell´apparenza. Il contrario di quello che si è pensato a lungo."
D´Alema ammette che grazie a questa reticenza nel Pci rimase a lungo un "eccessivo anti-americanismo", anche se pensa che "sia più esatto parlare di una doppia verità. Nella visione dei militanti c´era un diffuso sentimento di diffidenza anti-americana. Ma che questo fosse il sentimento del gruppo dirigente, tenderei a metterlo seriamente in discussione".
Notevole franchezza: ma i "militanti" non si sentono un po´ presi per i fondelli? O non leggono niente e si basano solo su un legame irrazionalmente fideistico con quanto resta di quello che fu un grande partito?
 

Postilla

Prima di tutto una precisazione sulla frase "il libro merita di essere letto tutto" (contenuta all'inizio della recensione): nelle mie intenzioni voleva essere ironica, anche se sono contento di aver avuto la pazienza di leggere fino all´ultima riga un libro in cui l´autore spiega "onestamente" come lui e gli altri membri del gruppo dirigente prendevano in giro chi aveva fiducia in loro. Il libro, insomma va letto perché svela che le colpe di Fassino sono ben più gravi di quanto immaginavano gli ingenui autori delle lettere pubblicate su "Liberazione" e che denunciavano solo la mancanza di rispetto nei confronti di Berlinguer.
Ma anche se questa parte della recensione è dedicata alla politica internazionale di cui Fassino è stato protagonista, in tempi in cui egli viene esaltato come possibile interlocutore di un accordo costruttivo per "battere Berlusconi", credo utile riprendere alcuni suoi giudizi sulla politica del centrosinistra al governo, che non avevo segnalato nella prima parte.
Fassino sostiene che il bilancio del governo D´Alema sarebbe stato "molto positivo per il Paese": secondo lui in quegli anni l´economia italiana è cresciuta e si è fatta più robusta, la disoccupazione è scesa, ed anzi si sarebbe perfino "ridotto il divario Nord-Sud", e via elogiando "il rispetto dei parametri di Maastricht", e le "riforme importanti, in primo luogo nella sanità e nella scuola". Lasciamo perdere la contestazione puntuale di questi dati, che o sono fantasiosi o prescindono del tutto dalla verifica delle conseguenze di questi "successi" per le classi lavoratrici. Segnaliamo solo che "le difficoltà" che hanno rallentato l´azione di governo per Fassino sono state solo due: "l´esecutivo non è riuscito a far decollare la riforma previdenziale, né a estendere misure di flessibilità nel mercato del lavoro". Meno male che hanno avuto queste difficoltà, se no ci avrebbero spellato del tutto! Che altra flessibilità si sarebbe dovuta introdurre? E sarebbe stato meglio realizzare un'altra fase di quella "riforma previdenziale" iniziata da Dini (con i voti del centrosinistra) e tanto sollecitata da tutti gli organi internazionali del capitalismo?
Fassino non riesce neppure a immaginare che è stato lo scarso gradimento per l´azione del governo a facilitare il compito a Berlusconi, e anche ad aumentare la litigiosità interna della coalizione; egli stesso ammette che dopo la crisi del 1998 (quando il Prc decise, sia pur tardivamente, di rispettare le sue decisioni congressuali e di ritirare l´appoggio al governo) "l´Ulivo ha vissuto una vita stentata, segnata da frequenti polemiche e contrapposizioni pubbliche tra i partiti della coalizione. L´esito è l´immagine di un governo che, pur autorevole nei suoi ministri (Fassino pensa a sé stesso!), non gode del sostegno politico necessario". (pp. 345-348)
Inoltre Fassino lamenta la "cronica difficoltà della sinistra di rapportarsi al tema della sicurezza, considerato un tema di «destra»". Un problema particolarmente grave per lui, che per un certo periodo ha fatto proprio il ministro della Giustizia...
Fassino rivendica con orgoglio ogni scelta infame sua e del suo partito: a proposito di Genova, ad esempio lamenta che nel "Comitato dei Reggenti" del partito "con una decisione sbrigativa e poco consapevole" si era inizialmente deciso di partecipare alle manifestazioni del Genoa Social Forum; tuttavia, dopo la morte di Carlo Giuliani, egli aveva proposto di ritirare l´adesione, e tutti gli altri dirigenti avevano condiviso questo voltafaccia. Pur ammettendo che per parecchio tempo molti militanti di base gli hanno rinfacciato quella decisione, Fassino ne rivendica ancora senza imbarazzo la giustezza. (pp. 391-392)
Un´altra conferma dell´incapacità di riflettere sulle catastrofi provocate dalla strategia politica adottata, viene dalla ricostruzione del fallimento della Bicamerale, definita "un generoso tentativo di dare alla crisi italiana uno sbocco istituzionale compiuto". Quel fallimento, lamenta Fassino, ha dato la stura a una polemica che spesso riaffiora, "contro chi, come D´Alema, accetta Berlusconi come interlocutore anziché negarne - come invece fa chi muove da posizioni di radicalismo estremo - la credibilità politica. Il che, peraltro, contraddice qualsiasi possibilità di realizzare riforme istituzionali, stante che tutte - o per ragioni costituzionali o politiche - richiedono un consenso largo in Parlamento". (p. 325) Quali "riforme", a quale scopo, in quale direzione? Non importa a Fassino. Ma questa impostazione (di oggi, non di ieri) ci dovrebbe allarmare: con questi uomini dovremmo "battere Berlusconi"? E ammesso che sia possibile farlo, come evitare che subito dopo cerchino di nuovo un accordo trasversale scaricando, dopo essersene serviti, coloro che secondo loro avrebbero "posizioni di radicalismo estremo" perché rifiutano di contrattare le "riforme" (della costituzione, delle pensioni, del lavoro) con Berlusconi, Previti, Dell´Utri, e simili gentiluomini, e la politica estera con l´ambasciata degli Stati Uniti?
 

Antonio Moscato, da "Bandiera rossa news", N. 163/164-2003