Alois Prinz, "Disoccupate le strade dai sogni", Arcana, pp. 256, 14 euro
 

Prefazione di Emilio Quadrelli

Tra la sera dell'otto e del nove maggio 1976, nel carcere speciale di Stammhein, moriva Ulrike Meinhof. Una morte giunta attraverso la messa in scena di un suicidio tanto tragico quanto grottesco, e che ai più parve l'inizio di quella «soluzione finale» annunciata e auspicata da tempo da parte degli organi dirigenti della Repubblica federale tedesca nei confronti dei militanti della Rote Armee Fraktion.
La morte «eccezionale» di Ulrike, nella migliore tradizione «decisionista», si trasformò in ordinario elemento normativo finalizzato a liquidare una volta per sempre la questione della prigionia politica all'interno della Germania Occidentale. Poco più di un anno dopo, il 18 ottobre 1977, morivano per «suicidio» Andreas Baaader, Gudrun Ensslin e Jan-Carl Raspe. L'11 novembre del medesimo anno, Ingrid Schubert veniva trovata impiccata nel carcere di Monaco. Una cappa di oblio e di terrore calava sulla società tedesca. Il sogno dei militanti della Raf e di un'intera generazione, che aveva avuto il coraggio di fare i conti con il passato nazista e si batteva contro le politiche imperialiste del presente, andava in frantumi. Ancora una volta in molti potevano con tranquillità dichiarare: l'ordine regna a Berlino. Alla messa in mora di tale ordine Ulrike Meinhof aveva dedicato integralmente la sua esistenza. Una critica la cui origine va colta nell'ambito dell'etica e della morale e che solo in seguito troverà una concreta dimensione politica, fino a farla approdare nella guerriglia metropolitana.
Ed è questa dimensione prevalentemente «esistenziale» che il libro di Prinz ci restituisce. Ulrike giunge alla militanza politica perché indignata. Indignata per il silenzio e la complicità che la società tedesca mantiene verso il suo recente passato nazista; per l'adesione entusiasta agli armamenti atomici; per la compiaciuta sudditanza alle politiche imperialiste statunitensi; per il ruolo attivo che la Rft gioca nel dominare, depredare, reprimere i popoli del Terzo Mondo, fornendo copertura e sostegno ai regimi più brutali e dittatoriali; per le condizioni in cui versano i lavoratori stranieri venuti a produrre nelle grandi fabbriche del «miracolo tedesco» e così via. Ma sullo sfondo di tutto ciò vi è soprattutto una critica radicale e priva di qualsiasi possibile mediazione nei confronti del carattere inumano della società tedesca. È l'assenza di «umanesimo» in tutto ciò che la circonda a trasformare Ulrike in una militante politica che, solo nella prassi rivoluzionaria, può pensare di ri/trovare una dignitosa dimensione etica e umana. Una militanza come territorio al contempo liberato e belligerante, posto al di fuori e in contrapposizione ai rapporti sociali totalmente reificati e mercificati dello stile di vita tedesco-occidentale. Una ricerca che la porta a rompere, non senza contraddizioni, con il suo ruolo sociale di madre prima e donna professionalmente affermata poi. Senza la sua scelta radicale, infatti, sarebbe andata incontro a un destino facilmente ipotizzabile.
Grazie alle sue indubbie qualità intellettuali, avrebbe avuto un posto di prim'ordine all'interno dei numerosi e compiacenti salotti radical della Rft. Un destino che la tentò non poco, grazie anche a una serie di gratificazioni non secondarie, ma che cozzava contro una dimensione dell'etica, influenzata non poco dalla sua formazione protestante, alla quale non poteva volgere le spalle. Tra i salotti buoni e confortevoli della borghesia progressista e i mondi duri e spietati dei «dannati della terra», Ulrike non poteva che schierarsi con costoro. Una scelta, ed è questo forse uno dei grandi pregi del lavoro di Prinz, che non ha nulla di eroico. Il libro non ci restituisce alcuna dimensione eroica così come non ci consegna una figura estremista, fanatica o imbevuta fino all'ossessione di ideologia. A emergere è, al contrario, una donna umana forse troppo umana che non ha voluto volgere lo sguardo altrove ma lo ha tenuto lucidamente fisso verso il mondo reale. Il Vietnam devastato dalle bombe e dal napalm, l'Iran assoggettato a uno dei più sanguinari e spaventosi regimi dittatoriali, l'America centrale e meridionale continuamente sotto il giogo di regimi militari e fascisti, l'Africa e infine il grande amore per il popolo palestinese e la sua indomita e fiera lotta di liberazione. È per amore del mondo che Ulrike decide di portare la guerra dentro le retrovie dell'imperialismo, identificandosi fino all'estremo con le sorti dei dannati della terra e delle metropoli.
Un amore e una coerenza che, la società tedesca, non le perdonerà mai. Ma l'interesse che le vicende della Raf suscitano nel nostro paese non si limita a quella parte di storia, ormai obiettivamente archiviabile, degli anni '70, un periodo storico intorno al quale, dopo anni d'oblio, inizia a fiorire una letteratura storica e sociologica in gran parte «oggettiva» e «scientifica», ma si protrae fino a sfiorare i giorni nostri. La pubblicazione "Donne nella guerriglia" (a cura di Maurizio Ferrari, edito dai centri di documentazione Nexus, di Milano, e Ombra rossa, di Padova) è una preziosa raccolta di documenti e testimonianze intorno al dibattito sviluppatosi tra la Germania e la Svizzera in seguito allo scioglimento ufficiale della Raf da parte di quei militanti che, fino ai primi anni '90 del secolo scorso, continuavano a riconoscersi all'interno di quell'esperienza. Una decisione non interamente condivisa da una parte di quel movimento che, per anni, aveva cercato di mantenere aperto un canale di discussione tra la Raf e alcuni ambiti dell'antagonismo mitteleuropeo. La validità strategica della lotta antimperialista, per alcuni di questi, oltre a non esser oggetto di discussione deve, se possibile, essere ulteriormente rafforzata. È in questo contesto che Andrea Wolf e Barbara Kistler maturano la decisione di recarsi in Kurdistan per combattere a fianco del Pkk l'una e di una formazione di ispirazione maoista l'altra. Una scelta che le porta entrambe a morire in combattimento per mano dell'esercito turco. La raccolta di testi è una piccola ma non secondaria iniziativa che consente, soprattutto, di far emergere, senza eccessi retorici o eroismi di maniera, la biografia di due donne in fondo «comuni» che, per la libertà dei popoli, hanno messo in gioco tutto, esistenza compresa.