Ashwin Desai, "Noi siamo i poveri. Lotte comunitarie nel nuovo apartheid". Prefazioni di Naomi Klein e Franco Barchiesi, DeriveApprodi, 2003, pp. 192, Euro 15.00

Quando nel 1994 Nelson Mandela fu eletto presidente del Sudafrica, fu proclamata la vittoria sulle politiche razziali. Ma la fine dell’apartheid non portò a un reale cambiamento delle condizioni di vita della maggioranza oppressa. Al contrario, le pratiche di segregazione ereditate dal passato si adattarono perfettamente alle istanze di governo del neoliberismo e delle istituzioni sovranazionali.
I protagonisti di questo libro sono i poveri che abitano i luoghi della nuova apartheid. Lontani dallo stereotipo della miseria del continente africano, gli abitanti di tali comunità sono gli artefici di un radicale movimento di opposizione che, con inediti linguaggi e forme di resistenza, ha saputo rivendicare con forza migliori condizioni di vita.
Noi siamo i poveri è l’entusiasmante ritratto di un’altra Africa. È l’epopea di una rivolta imprevista, capace di far nascere da indigenza e miseria nuove relazioni sociali e di dar vita a immediate comunità politiche. È una storia narrata dalla voce collettiva di una comunità di miserabili da cui, come in un romanzo, emergono affetti, passione, rabbia e dolore. Il racconto di un altro volto della povertà che diventa per noi l’irresistibile richiamo di un’altra politica.
Ashwin Desai insegna al Workers’ College a Durban. Autore di Arise Ye Coolies e South Africa: Still Revolting, è uno dei più noti attivisti sudafricani.

(scheda di presentazione a cura dell'editore)

Dalla prefazione di Naomi Klein

Noi siamo i poveri è uno tra i migliori libri sulla globalizzazione e la resistenza. La sua forza consiste nel fatto che menziona a malapena la globalizzazione, preferendo invece intrecciare ricche narrazioni locali in grado di dare sostanza a questo oggetto così ampio e generico. L’autore riesce brillantemente nell’impresa, soprattutto perché, a differenza di tanti autori di saggistica politica, sembra apprezzare veramente le persone di cui scrive. Questo significa che le famiglie dei villaggi che perdono le case e si vedono tagliare l’acqua e l’elettricità emergono non come vittime senza nome, ma come un’armata di personaggi sguaiati, coraggiosi e singolari – dal rapper locale di nome Psyches, che Desai descrive come un "pamphlettista dell’umanità", all’anziana "zia Girle", che ha ispirato il titolo del libro. […]
La critica di Desai alle politiche neoliberiste non è imposta o cucita artificialmente sulle vite dei "poveri", essa emerge piuttosto dalle storie umane che si snodano lungo il libro – storie di famiglie "le cui biografie sono sfigurate dalla povertà". Per esempio veniamo a sapere che molte madri hanno perso il sostegno economico per i figli; leggiamo storie di ragazze dodicenni che devono andare in cerca di "vecchi danarosi" che le mandino a scuola. E incontriamo il tredicenne Valentino Naidoo che è stato picchiato, denudato e arrestato per aver rubato uno spazzolino da denti. (Ha raccontato poi alla polizia che la madre non poteva permetterselo, e che i bambini a scuola lo prendevano in giro per l’alito cattivo). […]
Secondo Desai, a tenere insieme le mobilitazioni comunitarie in tutto il Sudafrica non è l’ideologia, ma il bisogno di acqua, medicine, elettricità e terra. Se esiste un pensiero-guida a far da collante, non si tratta certo di un’astratta fedeltà al nazionalismo, alla liberazione o persino al socialismo. Si tratta piuttosto di un istinto viscerale per il quale i bisogni umani devono avere la precedenza sulle pretese del mercato, e ogni azione diretta intrapresa da persone comuni per soddisfare questi bisogni non solo è giustificata, ma persino eroica.

Il testo

La storia raccontata in questo libro ha inizio a Chatsworth, una township alla periferia di Durban, la città più grande della costa orientale del Sudafrica. Noi siamo i poveri descrive una spirale crescente di lotte contro misure dettate dal mercato che – in una società capitalistica resa teoricamente non razzista dalla sconfitta dell’apartheid e dall’adozione al suo posto del libero mercato – miravano a trasformare gli abitanti delle comunità povere in consumatori paganti. Da Chatsworth questa lotta si è poi estesa ad altre comunità povere di Durban e ad altre zone del Sudafrica. Dire che essa comincia a Chatsworth è un po’ una semplificazione per non dover spiegare ogni volta che, come tutte le rivolte che crescono, anche questa ha avuto molti inizi. Sicuramente sarebbe stato possibile ricondurla anche ad altre origini. Tuttavia ci sono validi motivi per partire da Chatsworth.
Quando ho iniziato a scrivere questo libro, Chatsworth era tanto un luogo quanto una battaglia. Dovrebbe risultare evidente, con il procedere del racconto, che Chatsworth è diventata anche una politica. Razza e classe, le vecchie categorie, sono ancora ben presenti. Ma sono anche emerse nuove variabili politiche, felicemente immuni dal contagio degli ex detenuti di Robben Island, di esiliati e di imprenditori etnici: la fazione politica che governa nel post-apartheid.
Disoccupato, madre single, difensore della comunità, vicino, operaio, delinquente comune, rapper, brava persona: tutte queste formulazioni hanno contribuito a creare le identità collettive dei "poveri". La lotta di Chatsworth ha favorito l’esplosione di rivolte in altre zone e ha illuminato le battaglie che già erano in corso. Tali battaglie, condotte dapprima in una condizione di reciproco isolamento, hanno gradualmente scavalcato le barriere razziali e geografiche. Continueranno a farlo, riducendo in cenere le catene delle vecchie fedeltà politiche e del compromesso di classe che ci hanno così immobilizzato in questi ultimi dieci anni? O la massa sarà confinata ai margini della società, sommersa da eserciti di politici un tempo maestri nell’aprire e chiudere i rubinetti della lotta e della speranza? Oppure le persone resisteranno fianco a fianco, illuminando così la strada verso una nuova società?
Queste lotte nascoste sono state epiche, perché hanno richiesto fegato e immaginazione. Per prima cosa, affinché potesse emergere una nuova base di solidarietà, bisognava abbattere l’handicap etnico. La stessa Chatsworth è nata come discarica destinata alle persone classificate come "indiane" dal sistema dell’apartheid, e indiani sono quasi tutti quelli che vi abitano. Ciò rendeva quanti partecipavano alla lotta – indiani scontenti di un governo africano – vulnerabili ai contrasti di tipo razziale. Con lo svolgersi degli eventi, è apparso chiaro che tale dimensione etnica è stata una benedizione, perché ha procurato alla gente accuse volgari da parte di politici disperati. Accuse che la gente ha preso in considerazione e poi rigettato formulando contro-identità. Quando le sollevazioni si sono estese a comunità africane, come Mpumalanga, e meticce, come Wentworth e Tafelsig, queste nuove identità si sono consolidate e i tentativi di "dividere e imperare" hanno suscitato più ilarità che preoccupazione.
La parte visibile di queste lotte – la mobilitazione di massa – ha avuto un inizio esitante. Per crescere, richiedeva un’innovazione politica e organizzativa. I leader delle comunità venivano etichettati di volta in volta come agitatori, radicali o controrivoluzionari. Rispondere era difficile. Le tradizionali capacità di resistenza e adattamento hanno dovuto essere filtrate e adattate alle mutate condizioni attraverso nuove terminologie. La facile soddisfazione morale della battaglia anti-apartheid non c’era più. Il sostegno della piccola borghesia era esile, inesistenti l’assistenza legale e le sovvenzioni dall’estero. Contro un nuovo governo democratico, la battaglia ha dovuto rispettare limiti diversi e, quando li ha violati, lo ha fatto con la forza piuttosto che con la violenza.
Si sono sviluppate capacità politiche notevoli. I legami con alleati di nicchia in centinaia di minime occasioni sono stati estremamente proficui. Dal nemico sono state prese in prestito alcune cose, e nei suoi confronti è stato fatto un lavoro di lobbying. È stato preso in giro, elogiato, combattuto, votato, calunniato, provocato, discusso, cacciato via. Tutto ciò derivava dall’esigenza di impedire gli sfratti, le interruzioni delle forniture di acqua o altre cose del genere. Nessun ponte è stato bruciato senza motivo. Comunque questo istinto di sopravvivenza ha portato anche ad alcune concessioni, e ha fatto sì che talvolta le dichiarazioni pubbliche potessero risultare politicamente oscure.