Luca Telese, Cuori neri, Milano, Sperling & Kupfer, 2006, pp. 797, euro, 18.00
 

Attenzione: così come, ad un certo punto, una parte della storiografia si trovò sguarnita di ricerche e di letture interpretative del fenomeno della Repubblica di Salò, oggi ci troviamo forse di fronte ad una difficoltà simile relativamente alla conoscenza del neofascismo italiano negli anni sessanta e settanta e del suo operare nel contesto politico e sociale di allora. Per neo fascismo, è meglio precisarlo subito, intendo sia i gruppi di estrema destra, sia il MSI e la sua organizzazione giovanile, il Fronte della Gioventù. Anzi, quest’ultima area politica, quella dalla quale discende Alleanza Nazionale, dopo la rottura di Fiuggi del 1994, e buona parte della sua attuale classe dirigente è, forse, quella meno indagata nel contesto storico degli anni Sessanta e Settanta. Non che l’argomento non sia stato trattato in assoluto, lo è stato ma in modo per così dire “esterno”, considerato come un tassello, uno strumento di una dinamica storica più vasta. E’ mancata un’analisi volta a sviscerare le ragioni e le motivazioni politiche e ideologiche soggettive dei partecipanti ai gruppi neofascisti e all’attività del MSI in quegli anni. Abbiamo molti giudizi e interpretazioni d’insieme, ma poco sappiamo delle motivazioni soggettive dei partecipanti.
Molte cose sono note, ma non sono conosciute. Il libro di Telese non fa che mettere ordine e
documentare fatti accaduti e quindi noti, ma immediatamente pone in evidenza la non conoscenza cioè la mancanza di strumenti e categorie interpretative per capirli. Mancando questo, i fatti drammatici raccontati “pesano” ancora di più, perché si presentano nella loro cruda fattualità e lasciano un senso di vuoto, in quanto non trovano una spiegazione. A meno che non si voglia accettare la spiegazione fornita tra le righe dall’autore che le 21 vittime fasciste, di cui si narra la storia, furono il risultato della furia omicida, tipica della sinistra extraparlamentare, messa in campo contro dei “bravi ragazzi” un po’ di destra, e con la connivenza di tutti i poteri forti dello Stato, già allora controllati dalle sinistre.
Non ci convincono le spiegazioni deresponsabilizzanti, sia quelle che riducono il fenomeno neofascista di quel decennio a una “massa” di persone mosse e strumentalizzate dai poteri occulti (o deviati?) dello Stato, sia quelle che riducono la contesa tra neofascisti a antifascisti militanti a uno scontro simile a quello di tifoserie opposte di squadre di calcio. No, dietro c’erano ideologie e “civiltà” diverse, assunte consapevolmente e contrapposte l’una all’altra. E la scelta di contrapporsi duramente e decisamente al nascente movimento degli studenti del ’68 fu presa consapevolmente e politicamente dalla direzione del MSI e da Giorgio Almirante, innescando anche uno scontro con gli studenti di destra che vedevano con simpatia quel movimento e volevano “starci dentro”, così com’era accaduto durante gli scontri di Valle Giulia nel marzo del 1968 a Roma, ai quali avevano preso parte anche studenti di destra. Non a caso, come ricorda Luca Telese, fin dalle prime pagine, quando Giorgio Almirante si presenta sulle scalinate della facoltà di Giurisprudenza a Roma, il 16 marzo 1968, pochi giorni dopo Valle Giulia, con i suoi Volontari nazionali (il servizio d’ordine), assieme ad alcuni allievi dell’Accademia pugilistica, a ragazzi con il fazzoletto tricolore e i bastoni in mano, quelli della Giovane Italia –che era l’organizzazione giovanile in procinto di trasformarsi, nel 1971, in Fronte della Gioventù-, prima di stanare i “rossi” dalla facoltà di lettere occupata, fanno “pulizia” dentro la facoltà di Giurisprudenza, dove si “annidano” gli occupanti della sezione universitaria missina, il Fuan-Caravella, accusato di simpatia e di partecipazione al movimento del ’68. Queste vicende sono ben trattate da un libro, uno dei pochissimi, che documenti la storia delle organizzazioni giovanile missine, quello di Marco De Troia, Fronte della Gioventù, edizioni Settimo Sigillo di Roma, 2001.
 Dopo aver espulso i “camerati” da quella facoltà, danno l’assalto a Lettere, dove, per altro, sono respinti. In questo modo Almirante raggiunge due obiettivi “si accredita come futuro segretario, pronto a raccogliere l’eredità di Michelini, rassicura l’opinione moderata e conservatrice” che l’MSI non ha cambiato linea, si riconferma come partito dell’ordine, baluardo contro i “rossi”, i “cinesi”, i “contestatori”, i “comunisti”.
Questo è il quadro storico da cui prende avvio il libro per poi avventurarsi, sotto forma di resoconto di cronaca, -con ampie citazioni dai giornali dell’epoca, dai testimoni, con la consultazione delle fonti giudiziarie-  nelle tragiche storie di 21 fascisti vittime dello scontro politico allora in atto nell’Italia degli anni Settanta, da Ugo Venturini a Carlo Falvella, al tragico rogo della casa dei Mattei a Primavalle a Roma, proseguendo con Emanuele Zilli, Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola, Mikis Mantakas, Sergio Ramelli, Mario Zicchieri, Enrico Pedenovi, Angelo Pistolesi, Franco Bigonzetti, Francesco Ciavatta, Stefano Recchioni, Alberto Gianquinto, Stefano Cecchetti, Grancesco Cecchin, Angelo Mancia, Nanni De Angelis, Paolo Di Nella. Per tutto un decennio un partito, l’MSI, seppellisce e celebra i suoi caduti da solo, circondato da una sorta di cordone sanitario; solo nel 1983, quando è ucciso Di Nella il Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, rende omaggio alla salma. Un gesto che segna la fine di un periodo al quale corrisponde, l’anno dopo, la visita a sorpresa di Giorgio Almirante, il 12 giugno 1984, alla camera ardente allestita in occasione della morte del segretario del PCI Enrico Berlinguer.
Un libro nudo e crudo, sul quale è necessario riflettere senza abbandonarsi all’impulso, che immediatamente ti assale, di contrapporre al suo elenco quello delle vittime delle violenze e degli attentati fascisti, i quali, pure tragicamente, costellano quel decennio. In merito, le ricerche sociologiche hanno già dato: dati, numeri dei caduti  e dei feriti da entrambe le parti, diffusione territoriale del fenomeno, comparazioni, periodizzazioni e via di seguito. No, questo libro spinge in un’altra direzione.
Apparentemente si presenta come un libro obiettivo, che vuole raccontare i fatti così come si sono svolti e chiamare in causa le responsabilità cosi come si sono accertate e verificate. Un libro che vuole ridare “storia” ad una generazione, soprattutto di giovani fascisti, dimenticata, ma che non vi riesce compiutamente, perché non ha il coraggio di assumere la loro identità fascista fino in fondo, preferendo dare spazio a cornici contestuali tese a sottolineare la casualità della loro appartenenza fascista, l’occasionalità del loro impegno, la dimensione del tutto indefinita della loro ideologia e della loro partecipazione politica: insomma “bravi ragazzi” travolti e coinvolti in una storia che non avevano scelto. Ora, è vero che la scelta spesso precede la consapevolezza di cosa si è scelto, ma è anche vero che, una volta fatta, la scelta costruisce la nostra coscienza, indirizza e giustifica il nostro agire. Quest’aspetto è secondario. I fascisti qui analizzati sono depoliticizzati e deideologizzati, perdono quella dimensione di lotta politica che era propria del loro impegno, sono ridotti spesso a ragazzini di borgata e di buone famiglie del ceto medio che si ritrovano con altri loro coetanei fascisti per “cazzeggiare” al bar o giocare a flipper nella sede del MSI. Certo c’è anche questo, ma dire che c’è solo questo significa svilire la militanza politica di gran parte delle vittime. Storicamente, se si pensa a come le ideologie erano totalizzanti in quegli anni, ciò non è vero. Innegabile, ma dove in politica non è stato così, la dimensione amicale e relazionale, ma forte è anche la condivisione di un retroterra ideologico e sociale.
Una ricerca svolta nella prima metà degli anni Settanta (Carlo Tullio Altan, Alberto Marradi, Valori, classi sociali, scelte politiche. Indagini sulla gioventù degli anni settanta, Milano, Bompiani, 1976) segnalava per i giovani di destra una provenienza sociale medio alta, una presenza prevalentemente maschile, un senso psicologico di risentimento che li portava a privilegiare le dimostrazioni e l’azione diretta, una scarsa fiducia nei partiti democratici come agenti del mutamento. La ricerca poi distingueva tra giovani del Msi e giovani dell’estrema destra. Entrambi avevano in comune una personalità autoritaria e tradizionale che si riferiva, per i missini, al nazionalismo e all’etnocentrismo e, per i giovani di estrema destra, ai modelli nazisti ai testi di Nietzsche, Spengler, Celine, Evola. Entrambi i sottogruppi manifestavano un atteggiamento, in una certa misura critico in rapporto al sistema dei rapporti di produzione e dell’ideologia capitalistica, ma differivano nei riferimenti storici del passato, mentre i giovani dell’estrema destra si rifacevano al nazismo o all’esperienza della repubblica sociale, i giovani missini si sentivano, invece, più espressione di una condizione storica che si riferiva a quella dalla quale era nato il fascismo movimento, nell’accezione defeliciana del termine. Infine, la loro attività politica era intensa e raggiungeva i livelli dei giovani di sinistra, questo a dimostrazione che sia in un campo o nell’altro, fosse la destra o la sinistra, non era data la possibilità di una partecipazione leggera alla politica, occasionale, vi era un senso di passione politica che conduceva al sacrificio personale in nome del lavoro politico, una partecipazione e una consapevolezza che, sicuramente, viste con gli occhi del disincanto odierno, sfioravano il fanatismo.
Consapevolezza, dunque di quello che si era e si faceva, da una parte e dall’altra, esclusi certo, nel caso dei 21 fascisti raccontati, il piccolo Stefano Mattei e lo studente che non si occupava di politica Stefano Cecchetti; e consapevolezza anche, seppur data la giovane età, del contesto storico in cui si operavano. Ed era proprio la consapevolezza della durezza dello scontro a rendere tutti duri e a tratti oltremondo spietati. Non regge quindi l’immagine che si vuole accreditare, di un neo fascismo italico, quello che prende piede nel secondo dopoguerra, fatto di “vecchi” nostalgici del regime della repubblica sociale e di giovani ragazzotti di borgata o “goliardici” frequentatori dell’università, dove, già nel 1966 a Roma ci scappa un morto di sinistra: Paolo Rossi. Quest’ultimo fatto è ripreso frettolosamente, ma si sorvola poi disinvoltamente sulla storia del MSI di quei decenni, sulle trame nere, su Ordine nuovo di Pino Rauti, le collusioni coi poteri forti, con gli apparati statali che, in molti punti e aspetti, conservavano una continuità con lo stato fascista, i legami con gli apparati di intelligence USA, lo stragismo fascista che a partire da Piazza Fontana nel 1969 insanguina l’Italia nel decennio settanta.
Mai emerge il dubbio, almeno come possibilità, già sollevato da Norberto Bobbio quando scriveva sul n. 14-15 del 1981 del settimanale «Informazioni del Consiglio regionale del Piemonte», se era plausibile ipotizzare che  “forse il terrorismo rosso non sarebbe sorto se non fosse stato preceduto dal terrorismo nero che ha innestato il fenomeno terroristico nel nostro paese”.
Emerge l’immagine di un partito politico, il MSI, e di un’area ideologica culturale perfettamente recuperabile e presentabile sull’altare odierno dell’inserimento nella Casa delle libertà, una storia, sembra, scritta ad uso e consumo della legittimazione dei neofascisti, -nei decenni in cui ancora volevano esserlo-, prima di diventare di Alleanza Nazionale, perseguitati di una magistratura “rossa”, da una polizia “rossa”, da intellettuali tutti di sinistra, da giornali democratici e indipendenti tutti controllati dai comunisti da governi centristi e di centro sinistra descritti come quello che governava la Bulgaria prima del crollo del regime socialista; insomma, un partito, il MSI, in un fortino assediato dalle “truppe” di sinistra, così lo presenta fin dall’introduzione.
Manca il rispetto per la cornice storica entro la quale si collocano gli eventi, che diventano così, incomprensibili, o meglio, si adattano ad una spiegazione, implicita ma chiara, volta a definire quello che accade come il risultato di una campagna d’odio fratricida scatenata dai giovani extraparlamentari contro i giovani un po’ fascisti. Di nuovo, come già per il periodo che va dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945, sullo sfondo interpretativo sembra aleggiare la figura della guerra civile, quella cara a  Giorgio Pisanò e alla storiografia neofascista in genere, cioè di una guerra scatenata dalle sinistre contro le forze fasciste o neo fasciste. L’uso disinvolto di questo termine conduce all’azzeramento della differenze, annienta le ragioni, giuste o sbagliate che possano ritenersi, del contendersi. Di guerra civile si è parlato moltissimo, da parte fascista conservatrice, qualunquista per accomunare tutti, RSI, da una parte, Resistenza dall’altra, in un’unica condanna: sono tutti dei violenti, sono tutta gente che spara e che non ha il rispetto della vita umana. Tuttavia, anche volendo insistere su questa strada, andrebbe perlomeno ricordato il giudizio di Renzo De Felice, il quale nella sua Intervista sul fascismo, pubblicata da Laterza nel 1975, diceva: “il fascismo ha fatto infiniti danni, ma uno dei danni più grossi che ha fatto è stato quello di lasciare in eredità una mentalità fascista […] alle generazioni successive […] una mentalità di intolleranza, di sopraffazione ideologica, di squalificazione dell’avversario per distruggerlo”.
 Essendo passati più o meno trent’anni dai molti fatti di sangue narrati o richiamati, ci sarebbe da aspettarsi, che essi siano diventati fatti storici, collocati realisticamente nel quadro di un certo processo storico, che non deve essere abbellito, infiorato, al di fuori di quella che è stata la realtà nuda e cruda degli eventi. Quest’ultimo richiamo non è tuttavia addossabile tutto all’opera di Telese, la quale sconta invece un ritardo della ricerca storica a proposito di quel decennio e dei fatti dall’autore narrati. Effettivamente, sollecitati da questo libro, dobbiamo chiederci quali strumenti interpretativi abbiamo per leggere quello che è accaduto, per inserire cronache e narrazioni di delitti e di omicidi politici in un quadro storico almeno delineato, se non compiuto? Quali parole ha lo storico per entrare dentro quegli eventi? Come chiama e interpreta lo scontro tra giovani extraparlamentari di sinistra e fascisti? Come quella lotta e quello scontro rinverdivano categorie e appartenenze che venivano dalla mai definitivamente chiusa memoria della Resistenza e del fascismo? In questo senso il libro è utile, apre un capitolo drammatico, pone, a volte in modo irritante, questioni che sul piano della ricerca storica e non solo (anche della memoria) andrebbero poste, non evitate.
Soprattutto manca, credo, una conoscenza delle ragioni per le quali, dei giovani negli anni Settanta, e anche un po’ prima, mentre era in atto una profonda rivolta generazionale, nei costumi, negli stili di vita, nella musica, nel modo di intendere la società e la politica, fece una scelta di destra, si unì ad un partito come il MSI che, oltre a richiamarsi al fascismo, si presentava come garante dell’ordine, dell’autorità, della disciplina, delle tradizione, della gerarchia, del perbenismo conservatore.

Diego Giachetti

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Cuori neri di Luca Telese ripercorre le tragiche vicende di 21 vittime "fasciste" del sanguinoso scontro politico che ha segnato l'Italia a partire dal 1970, con un approccio destinato a suscitare polemiche sia nella destra radicale che nell'intera sinistra, senza peraltro poter essere considerato - in questo suo "scontentar tutti" - semplicemente "obiettivo".
L'impressione prevalente, scorrendo le pagine del libro, è infatti quella di un testo che utilizza un passato doloroso in funzione della più stringente attualità politica.
Del resto, basta leggere gli articoli di Telese pubblicati sul Giornale [si trovano anche sul sito www.lucatelese.it], per comprendere gli umori di un giornalista culturalmente organico al Polo delle Libertà, ansioso di avvalorare la tesi di un'Italia da sempre dominata dai "comunisti", al punto da riscrivere un buon pezzo di storia e di spalmare di uno sgradito - anche ai diretti interessati - "buonismo" un'area che il Polo tenta di inglobare nel proprio blocco elettorale.
Telese, del resto, non ha come obiettivo rendere onore all'area nazional-rivoluzionaria, che anzi viene "devirilizzata" attraverso la minimizzazione sia delle sue gesta che della stessa militanza di gran parte delle vittime. Chi ha vissuto quegli anni sa come, a sinistra come a destra, la passione e l'impegno per la politica fossero totalizzanti, assoluti, con un senso del sacrificio che sfiorava addirittura il fanatismo. Sapevamo - sono nato nel 1955, quel ventennio l'ho vissuto intensamente ed in prima persona, ed ancora oggi non avverto la necessità di pentimenti o di abiure, ma soltanto di una doverosa assunzione personale di responsabilità collettive - i rischi che correvamo e che facevamo correre al prossimo. Eravamo giovani e forse incoscienti, ma certamente non inconsapevoli di quanto ci avveniva attorno. Anzi, era proprio la consapevolezza della durezza dello scontro a renderci, a nostra volta, duri ed a tratti spietati.
Se alcune di queste 21 vittime sono infatti totalmente inconsapevoli, come il piccolo Stefano Mattei o lo studente apolitico Stefano Cecchetti, nella maggior parte dei casi si tratta di militanti a tempo pieno, forgiati negli scontri di strada che allora - ed anche oggi, se a qualcuno interessasse leggere la realtà per quel che è - segnavano il paese. E l'opera di banalizzazione della passione politica che Telese compie è tale da mancare spesso di rispetto alle vittime stesse: nel caso di Emanuele Zilli si parla ad esempio di un suo avvicinamento alla Giovane Italia, che "Nel Sud ha un radicamento profondo, legato anche alle attività collaterali, ricreative o sportive. Spesso nelle sezioni del Msi c'è un accessorio ludico che a sinistra sarebbe considerato un segno di pericoloso degrado culturale: il flipper" (pagg.124-5); Mikis Mantakas "non vuole scegliere", ma poi frequenta un bar vicino la sede del Fuan di via Siena dove conosce "Una ragazza, poco più piccola di lui e molto carina, che lavora come segretaria nella sede nazionale del Msi" (pag.220); Sergio Ramelli porta i capelli lunghi e diviene "forse proprio per questo un bersaglio" (pag.269). Anche Mario Zicchieri è una delle "vittime" dei flipper (pag. 334), mentre Angelo Pistolesi, fondatore di una sezione missina, viene definito "fascista per caso" (pag.426). Roba da far rigirare nella tomba chiunque abbia avuto un anelito politico e lo abbia pagato con la vita.
Ma i migliori - nel senso di peggiori - risultati l'autore li ottiene rivolgendo la propria attenzione verso l'intera sinistra e, soprattutto, verso gli intellettuali e la stampa democratica. L'Italia di Luca Telese non è quella che abbiamo conosciuto sulla nostra pelle, ma una sorta di piccola grande Bulgaria in cui i "comunisti" controllano tutto e tutti [Chi ci ricorda, questa impostazione?]
Così, già a pagina XII dell'introduzione, veniamo a sapere che "All'alba degli anni settanta il ghetto ideale e politico dentro cui è stato chiuso l'Msi diventa all'improvvisamente un fortino assediato". Come se, negli anni cinquanta e sessanta, non si fosse registrata una sequenza impressionante di violenze fasciste, dagli assalti a colpi di bomba alle Botteghe Oscure fino allo strapotere squadrista in campo scolastico ed universitario che culmina con l'assassinio, a Roma, il 27 aprile 1966, dello studente socialista Paolo Rossi (che nel libro, a pagina 11, diviene inopinatamente "Walter Rossi"). Ma per l'ineffabile Telese, che accenna alla militanza politica nel Fuan del fratello maggiore di Carlo Falvella, gli anni sessanta registrano tutto un altro clima: "Un po' di goliardia, qualche storia d'amore con le giovani amazzoni della destra" (pagina 33).
Insomma, chi lo dice che la pratica dell'antifascismo militante sia nata dalle diffuse violenze squadriste, dai tentativi di golpe, dall'impunità dello stragismo, in un paese dominato dalla Dc, dai desiderata degli Usa, dai crimini e dalle complicità degli apparati di intelligence? Niente da fare: nell'Italia di Telese i fascisti universitari si dedicano alla goliardia e all'ippica, mentre i golpe sono soltanto delle semi-burlette (pagina 149 e seguenti) o dei semplici alibi per l'antifascismo militante (pagina 152).
Infine, l'impunità dello stragismo: che sì, ci sarà pure stata, ma affogata nel principale vezzo della magistratura (rossa?) e della polizia (rossa?) di evitare ogni problema giudiziario alle orde assassine della "sinistra extra-parlamentare", sostenute dagli intellettuali (rossi) e dal giornalismo (rosso). Mancano soltanto le cooperative (rosse), che forse sono tenute da conto per il prossimo libro.
La sinistra non porta del resto fortuna al nostro ambizioso giornalista: sbaglia nell'analizzare gli slogan ( "Camerata basco nero etc." era dedicato all'Arma e non ai fascisti, vedi pag.466), mentre a Roma sono i fascisti di Colle Oppio a disturbare le manifestazioni di sinistra dall'alto della balconata di San Pietro in Vincoli, che s'affaccia su via Cavour, e non il contrario (pag. 483).
Ma il top dell'imprecisione si raggiunge con il breve accenno all'assassinio di Walter Rossi, in cui in appena quattro righe di pagina 487 si sbaglia luogo (non Piazza Igea ma viale delle Medaglie d'Oro) e contesto (nessun assalto alla sezione missina di Balduina ma un semplice volantinaggio a più di 100 metri di distanza). Anche nel caso di Alceste Campanile, infine, è ormai dimostrata, contrariamente a quanto si scrive alle pagg. 603 e 605, la pista neofascista, con la confessione resa dell'estremista di destra Paolo Bellini. Ma nessuno sembra averne messo al corrente Luca Telese.

Valerio Marchi, "Carta", N. 10, 13 marzo 2006

[Questa recensione a firma Valerio Marchi è apparsa su Carta n.10 (13 marzo 2006). Ora fa parte di un bello speciale dedicato dalla rivista a Valerio. La riprendiamo perché ci sembra contenere in nuce tutta la passione storica di Valerio, e la sua voglia bruciante di riportare discussioni e "voghe" intellettuali alla concretezza della vita (e della morte) di ogni giorno. In molti hanno criticato aspramente l'operazione di Telese, ma Valerio ha fatto di più, ha smontato il libro dall'alto (anzi, "dal basso") di una conoscenza diretta dell'argomento, dei contesti, dei personaggi. La recensione è molto acuta, porta allo scoperto caratteristiche di Cuori neri che nessun altro aveva fatto notare, es. la mancanza di rispetto nei confronti di questi caduti di ultradestra e del loro vissuto: il più delle volte vengono descritti come "fascisti per caso", in fondo impolitici, divenuti bersagli di azioni violente per motivi banali anziché per scelte compiute in piena coscienza.
Il recensore non si lascia fuorviare dal cursus honorum bertinottiano di Telese e si sforza di "stare sul pezzo", di dire le cose come stanno (anziché come si dice stiano), di esprimersi anche in modo brutale, purché sincero. Ecco, forse, il vero messaggio di Valerio Marchi in molti suoi scritti: una scorbutica sincerità, sempre ancorata ai dati concreti, è tra i migliori antidoti al machiavellismo di certe ricostruzioni storiche a orologeria. WM1, "Carmilla on line", 25 luglio 2006]